Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 17-02-2011) 04-05-2011, n. 17215 Reati commessi a mezzo stampa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Cagliari, con sentenza del 15.4.2010, confermava la sentenza 14.1.2009 del Tribunale monocratico di quella città, che – in esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato – aveva affermato la responsabilità penale di L.M. in ordine al reato di cui:

– alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35 (per avere, quale fotoreporter, al fine di trame profitto, scattato una foto alla minore M.L. mentre veniva trasportata in barella in ospedale dopo essere stata mortalmente ferita al capo da un colpo di arma da fuoco,’ fotografia che veniva pubblicata in prima pagina sul giornale "(OMISSIS)" nonchè sul sito internet di detto giornale; fatto dal quale derivava nocumento alla medesima minore – in (OMISSIS)) e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione, con i doppi benefici di legge, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile M.L., costituita in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori A. e M.M., con assegnazione di una provvisionale di Euro 5.000,00.

Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo:

– violazione dell’art. 21 Cost., in quanto egli avrebbe legittimamente esercitato il diritto di cronaca, in cui si esplica quello di libera manifestazione del pensiero e rispetto al quale la fotografia si porrebbe quale "elemento primario ineliminabile" ed "essenziale alla comunicazione del fatto";

– violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 136, che consente il cd. trattamento dei dati personali nell’esercizio del diritto di cronaca, sia pure nei limiti dell’essenzialità.

Nella specie, secondo la prospettazione difensiva, "l’immagine di una persona all’interno di una vicenda di rilevanza sociale cessa di essere un dato personale".

Inoltre, "un soggetto che si trovi in coma certamente non può trarre un nocumento dalla pubblicazione di una propria foto quando, a seguito di tale stato, sia andato a perdere la vita" e la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore nell’affermare che il "nocumento" richiesto dalla disposizione incriminatrice non è esclusivamente quello riferibile alla persona fisica alla quale ineriscono i dati, ma – pure in difetto di un’esplicita indicazione normativa – anche quello causato a soggetti terzi per via dell’illecito trattamento dei dati.
Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato, perchè infondato.

1. In punto di fatto – per una più agevole comprensione della vicenda – è opportuno evidenziare che essa trae origine da un gravissimo fatto di cronaca, allorquando in (OMISSIS), venne volontariamente attinta da un colpo di arma di fuoco al capo (che ne cagionò la morte) la minore M.L., figlia di un noto pregiudicato locale.

Come rilevato dai giudici del merito, il delitto, "sia per la intrinseca gravità del fatto, trattandosi di un evento omicidiario ai danni di una adolescente privo di precedenti nella storia criminale isolana, sia in relazione alla paternità della giovane, ebbe immediatamente enorme clamore mediatico, guadagnando le prime pagine della carta stampata e della informazione televisiva".

Il quotidiano "(OMISSIS)", il giorno successivo, pubblicò in prima pagina la notizia, accompagnata da una foto di notevoli dimensioni che ritraeva, in una corsia di ospedale, una barella del tipo utilizzato per interventi di emergenza sulla quale era assicurato, trattenuto da una cinghia, il corpo della giovane M.L. con la fronte insanguinata e la testa riversa su un lato e ciondolante all’esterno della lettiga.

Tale fotografia – accompagnata dalla didascalia "foto esclusiva di L.M." e definita, in un corsivo redatto dal direttore del giornale, di "muta crudezza e drammatica verità" – era stata ripresa all’interno della struttura ospedaliera senza il consenso dei familiari della moribonda e delle autorità sanitarie e, secondo le prospettazioni svolte in querela dalla madre della ragazza, era stata abusivamente carpita senza alcun rispetto del dolore e del diritto alla riservatezza della vittima e dei componenti del nucleo familiare di lei.

2. Per quanto concerne la qualificazione giuridica del fatto contestato, deve osservarsi che la L. 31 dicembre 1996, n. 675 è stata abrogata dal testo unico approvato con D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 183 (Codice in materia di protezione dei dati personali), entrato in vigore il 1 gennaio 2004, e cioè in data posteriore all’accadimento in oggetto.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass., Sez. 3^: 9.10.2008, n. 38406, Fallani; 17.4.2008, n. 16145, P.M. in proc. Amorosi ed altri; 1.7.2O04, n. 28680, Modena), però, il trattamento dei dati personali sensibili senza il consenso dell’interessato – già punito ai sensi della L. n. 675 del 1996, art. 35, comma 3, – è tuttora punibile ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167 (Trattamento illecito di dati), in quanto tra le due fattispecie sussiste un rapporto di continuità normativa, essendo identici sia l’elemento soggettivo caratterizzato dal dolo specifico, sia gli elementi oggettivi, tenuto conto che le condotte già incriminate di "comunicazione" o "diffusione" dei dati sensibili sono ora ricomprese nella una condotta più ampia di "trattamento dei dati personali" ed il "nocumento" per la persona offesa, che si configurava nella fattispecie previgente come circostanza aggravante, rappresenta nelle disposizioni in vigore una condizione obiettiva di punibilità. 3. Passando al giudizio di colpevolezza formulato in concreto dai giudici del merito, va osservato che tale giudizio è perfettamente aderente alle previsioni normative e sorretto da una motivazione adeguata, esente da vizi logici o giuridici.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 137 dispone che la diffusione o la comunicazione dei dati per finalità giornalistiche possono essere effettuate anche senza il consenso dell’interessato previsto dagli artt. 23 e 26, ma "restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’art. 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico".

Viene così sostanzialmente riproposto il contenuto della L. n. 675 del 1996, art. 20, ove era previsto che "la comunicazione e la diffusione dei dati personali da parte di privati e di enti pubblici economici sono ammesse, senza il consenso espresso dell’interessato:

… d) nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità, nei limiti al diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza ed in particolare dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico e nel rispetto del codice di deontologia di cui all’art. 25".

In relazione alla normativa dianzi enunciata, a giudizio di questo Collegio, esattamente i giudici del merito hanno affermato che – pure in un contesto di evidente sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza del fatto divulgato – la pubblicazione della fotografia della M., che veniva ricoverata in fin di vita in ospedale con il volto devastato da un colpo di arma da fuoco, non aveva però alcuna utilità per scopi informativi, non essendo ravvisabile in quella condotta l’indispensabile osservanza del limite di contemperamento tra la necessità del diritto di cronaca e la tutela della riservatezza della minore.

Il sacrificio della riservatezza trova giustificazione soltanto nell’ambito della "essenzialità" della condotta ricollegantesi al diritto-dovere di informazione, secondo una nozione che va inquadrata nel generale parametro della "continenza", individuato dalla giurisprudenza anche costituzionale quale argine del legittimo esercizio del diritto di cronaca. Detta "continenza" significa moderazione, proporzione e misura in relazione alle modalità espositive della notizia e trova i suoi parametri di riferimento in regole di costume e nella deontologia del giornalista.

Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha affermato che, nella vicenda in esame, la rappresentazione del fatto, attraverso la pubblicazione dell’immagine drammatica della ragazza insanguinata e morente, sia stata eccedente rispetto alla funzione di divulgazione della notizia in un’ottica di completa ed adeguata informazione, e quindi ad essa "non essenziale" per la presenza di un contenuto di per sè superfluamente lesivo della dignità dell’interessata e non funzionale allo scopo informativo.

4. Il "nocumento", previsto quale condizione obiettiva di punibilità del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, non è esclusivamente riferibile a quello derivato alla persona fisica o giuridica alla quale si riferiscono i dati illecitamente trattati, ma – in carenza di un’esplicita indicazione normativa – anche a quello causato a soggetti terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento dei dati.

Nella vicenda che ci occupa, comunque, evidente è il nocumento arrecato al diritto della giovane vittima di vivere gli ultimi momenti della propria esistenza al riparo dalla morbosità curiosa di terzi, così come non può disconoscersi il danno morale dei familiari, che hanno subito la dolorosa esposizione alla pubblica curiosità del corpo martoriato della propria congiunta.

Va ricordato, infine, che la condotta di illecito trattamento di dati personali deve considerarsi "pericolosa" ai sensi dell’art. 2050 cod. civ. (attività, cioè, che per sua natura rende probabile, e non semplicemente possibile, il verificarsi dell’evento dannoso) – come espressamente previsto già della L. n. 675 del 1996, art. 18 e confermato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, che ha altresì unificato la disciplina del danno patrimoniale e non patrimoniale – e, ai fini dell’applicazione dell’art. 2050 cod. civ., non rileva che il danno abbia colpito un terzo estraneo all’attività pericolosa.

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile, che vengono liquidate in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla costituita parte civile, che liquida in Euro 2.500,00, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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