Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 20-04-2011) 05-05-2011, n. 17303

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

P.F., ispettore presso l’Ispettorato del lavoro di Agrigento, ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 11 febbraio 2009 della Corte di appello di Palermo, che ha confermato la sentenza 2 maggio 2006 del Tribunale di Agrigento (di condanna per il reato di concussione in danno di B.M., titolare di un panificio in Naro) deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1.) le conformi sentenze dei giudici di merito.

Il Tribunale di Agrigento con sentenza 2 maggio 2006 dichiarava P.F. colpevole del reato p. e p. dall’art. 317 c.p., poichè, agendo nella sua qualità di ispettore in servizio presso l’ispettorato del lavoro di Agrigento, abusando dei suoi poteri, induceva B.M. a dargli indebitamente la somma di Euro 3.000,00 in particolare allo scopo di evitare allo stesso B. gravi conseguenze, derivanti dagli accertamenti effettuati dall’ispettore del lavoro presso il panificio di cui questi era titolare. In (OMISSIS), con la recidiva semplice.

Il primo giudice, con circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, condannava l’imputato alla pena di anni tre, mesi quattro di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare; lo dichiarava interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed interdetto dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dichiarava l’estinzione del rapporto di impiego tra l’imputato e la P.A. al passaggio in giudicato della sentenza. Lo condannava altresì al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede con il riconoscimento in suo favore della provvisionale di Euro 3.000,00 ed alla rifusione delle spese processuali. La sentenza di primo grado basava il giudizio di penale responsabilità sulle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa B.M. e dagli altri testi escussi.

Avverso detta pronuncia ha interposto appello l’imputato, il quale si è lamentato dell’affermazione di responsabilità per il delitto di concussione, in quanto la condotta relativa alla percezione del denaro dal B. sarebbe stata istigata e sollecitata dallo stesso, come la trascrizione delle registrazioni dei colloqui tra lo stesso ed il B. (avvenuti in modo paritario e senza alcun timore da parte del privato) avrebbe dimostrato, se accolta l’istanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale: ciò avrebbe anche dovuto indurre a qualificare il fatto come corruzione, considerata anche la mancanza di credibilità della parte lesa.

La Corte di appello, disposta la parziale rinnovazione dell’istruzione per procedere a perizia di trascrizione delle registrazioni effettuate dal B., ha ritenuto infondato l’appello ed ha confermato la pronuncia di colpevolezza del P..

La corte distrettuale non si è sottratta all’obbligo della valutazione della attendibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa, analizzandone minutamente le dichiarazioni, valorizzando sul punto le affermazioni dei verbalizzanti G. e N., anche sulle circostanze dell’arresto in flagranza all’atto della ricezione della somma di 3.000 Euro, sulle proteste di regolarità ed onestà della persona offesa in ordine alla conduzione del panificio; sulla deposizione del teste L. e della teste S..

In definitiva, per l’impugnata sentenza, i due interlocutori non si trovavano in condizioni di parità e l’atteggiamento del B., pur apparendo finalizzato ad assecondare l’imputato, non integrava la condizione psicologica e reale di un corruttore.

Il B. infatti non aveva inteso offrire e poi consegnare denaro di sua iniziativa e liberamente al funzionario pubblico, per il compimento di un atto contrario ai doveri del suo ufficio, in un contesto di relazioni paritarie e di una sorta di contrattazione, ma era invece stato vittima della volontà e dell’induzione del P., il quale, ricorrendo a minacce, dapprima velate, quindi molto esplicite e facenti leva sulle possibili conseguenze pregiudizievoli personali e patrimoniali, cui egli avrebbe potuto incorrere se la pratica avesse fatto il suo corso naturale, lo aveva indotto ad accettare la sua proposta di sistemare la cosa mediante una somma di denaro da distribuire tra i tre – quattro funzionari coinvolti.

Del resto – osserva ancora la Corte di appello – lo stesso linguaggio cui l’imputato faceva ricorso, la menzione della necessità di "oleare qualche cosa… ", di ripartire la torta ed i dolci "meno di mille a qualcuno è garantito ", in nome del noto principio per cui nessuno fa niente per niente, ha il significato univoco di evocare e promettere un intervento, non dovuto ed illecito ("qualcosa che non va fatta"), per arrestare il corso del procedimento, innescato dall’ispezione.

La gravata sentenza evidenzia come, soprattutto nell’ultimo dialogo riportato, il P., dopo i primi accenni alla necessità di sistemare la cosa, si trovava ad affrontare le resistenze ed i dubbi del B., il quale si dichiarava inesperto e non disposto in linea generale a commettere illeciti; a quel punto l’imputato ricorreva ad argomenti ben più convincenti, basati su esempi concreti, prospettando la condanna al pagamento di cifre enormi a titolo di sanzione, l’avvio di procedimenti penali per truffa, estorsione, la perdita della tranquillità e della salute, che egli sapeva essere già compromessa per il B. da una grave malattia. Al tempo stesso egli garantiva che il proprio intervento sarebbe stato risolutivo, avrebbe sistemato cose e carte, evitato guai di gran lunga peggiori, garantito serenità.

Non può dunque sostenersi -conclude la corte distrettuale – che i due interlocutori trattassero in condizioni di parità, di eguale forza e con volontà convergenti per raggiungere il comune obiettivo di impedire o attenuare gli esiti dell’ispezione in un contesto di relazioni corruttive.

Al contrario, è il P. a rivestire una posizione di maggiore potere, a ricorrere a minacce sempre più pressanti, a mettere in gioco la possibilità di un proprio intervento e la salute del suo interlocutore, a fare paralleli con altri imprenditori molto noti, costretti a subire pesanti sanzioni, per convincerlo che l’unica soluzione possibile consisteva nel pagare la somma pretesa.

Per contro, l’atteggiamento tenuto dal B., nonostante paia assecondare l’imputato, non era quello del corruttore: egli, infatti, da un lato si preoccupava di acquisire la prova documentale delle affermazioni del P., delle proprie e di quelle del consulente R. con la registrazione dei colloqui, e dall’altro presentava tempestiva denuncia prima della consegna del denaro.

Sostiene il giudice di merito che ben difficilmente poteva il B. aver fatto la prima mossa di contattare di propria iniziativa il P., il cui numero di cellulare non possedeva, mentre era stato l’imputato a procurarsi da una dipendente del panificio il numero della sua utenza ed a contattarlo dopo l’ispezione condotta nel gennaio 2004 e dopo la constatazione delle irregolarità riscontrate.

Era sempre il P. ad avere un disperato bisogno di denaro, tanto che aveva subito la riduzione del quinto dello stipendio ed era costretto a ricorrere a prestiti dei colleghi, per cui egli aveva approfittato della situazione, ben conoscendo la posizione di inferiorità della vittima, già indebolita dalla malattia, per ricavarne dei vantaggi per sè.

Il B. da parte sua era consapevole che la pratica era istruita soprattutto dall’ispettore L., per cui anche l’eventuale denuncia a carico del P. non avrebbe avuto il potere di arrestarne il corso, come del resto è avvenuto; intendeva piuttosto non soggiacere ad alcuna richiesta illecita, anche se proveniente in via mediata dal proprio consulente.

Considerazioni tutte che inducono a negare la plausibilità della tesi del complotto, ordito soltanto per corrompere il funzionario e paralizzare l’azione accertativa dell’ispettorato.

Da ultimo la corte distrettuale osserva che non vale rilevare, a favore dell’appellante, che egli non poteva incidere in concreto sull’andamento del procedimento, nè che il B. aveva tutto l’interesse ad evitare le conseguenze pregiudizievoli dell’ispezione.

Infatti, sotto il primo profilo è richiesto per l’integrazione della fattispecie di concussione l’abuso dei poteri o della qualità, che nel secondo caso non comporta l’effettiva possibilità per il pubblico ufficiale di compiere un atto del suo ufficio, potendo egli ricorrere anche all’inganno, alla frode, a vanterie infondate per costringere o indurre il privato a promettere o dare il denaro o altra utilità indebiti.

Da ciò la conferma della affermazione di responsabilità per il titolo di reato contestato.

2.) i motivi di impugnazione del P. e le ragioni della decisione della Corte di legittimità.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della violazione dei criteri di valutazione della prova ed "ingiustificata omissione degli elementi a discarico", con conseguente erronea svalutazione della tesi della difesa, secondo cui il privato, nel rapporto e negli incontri con il funzionario P., aveva il solo intento di impedire agli ispettori ( P. e L.) di procedere agli accertamenti ed all’applicazione delle sanzioni che avrebbero comportato la restituzione dei contributi già incassati (somme anche superiore ai 75 mila Euro).

L’assunto difensivo è che nella specie il B. si è preso gioco del P. fin dal principio e aveva condotto tale "gioco" in modo tale da arrivare alla consegna (simulata) di denaro per poi denunciare il P. stesso.

In buona sostanza ed in altre parole il delitto di concussione non esisterebbe perchè nella specie vi è stata una promessa di dazione con la riserva mentale da parte del privato di non adempiere e conseguente dazione fittizia. Il motivo è palesemente infondato.

Per consolidata giurisprudenza, ai fini della consumazione del delitto di concussione, la dazione o la promessa di denaro o altra utilità, fatta dalla vittima del reato al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, deve essere considerata nel suo oggettivo significato, sicchè l’eventuale riserva mentale di non adempiere non ha alcun rilievo (Cass. pen. sez. 6, 10492/1995 Rv.

202999).

Non basta infatti per escludere il "metus publicae potestatis" la sola circostanza che la parte lesa si sia rivolta alla forze di polizia, per sottrarsi alle pretese dell’autore del reato, perchè, nulla disponendo la norma sull’intensità del "metus", non è possibile considerare tale solo quello estremo, cui il soggetto passivo finisca comunque per soccombere, senza neppure avere l’animo di chiedere soccorso agli organi dello Stato.

Nel caso in cui -come nella vicenda- la promessa fatta dal privato al pubblico ufficiale sia reale, anche se sorretta dalla speranza che un efficace intervento delle forze dell’ordine valga a costituire fatto impeditivo dell’adempimento, l’originaria promessa, anche se legata ad una speranza contraria, consente il perfezionamento del reato (Cass. pen. sez. 6, 15742/2003 Rv. 225427).

Infine, quanto alla "ingiustificata omessa valutazione degli elementi a discarico", va subito preliminarmente precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

In buona sostanza ed in altre parole, nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova, posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.

In conclusione l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

Il motivo va quindi dichiarato inammissibile. Con un secondo motivo si lamenta ancora inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della violazione dei criteri di valutazione della prova ed "ingiustificata omissione degli elementi a discarico", con conseguente erronea svalutazione della tesi della difesa che addebitava al B. ulteriori e ben più gravi irregolarità rispetto alla mera contestazione della "rimozione del libro matricola dal posto di lavoro".

In particolare si lamenta che la corte distrettuale abbia valorizzato le sole dichiarazioni registrate del B. e non quelle dell’imputato, indicative di una posizione di parità tra le parti.

Da ciò la richiesta di derubricazione del delitto contestato nello schema dogmatico della corruzione, con riduzione della pena ed eliminazione della dichiarata estinzione del rapporto di pubblico impiego.

Il secondo motivo non è altro che il logico sviluppo della prima doglianza e ne segue pertanto le sorti di inammissibilità.

I giudici di merito hanno infatti dato adeguata contezza della sostanziale assenza di una posizione di parità delle parti, evidenziando l’atteggiamento induttivo del P. in tutta la dinamica relazionale, connotata da una condotta, idonea ad integrare i profili oggettivi e soggettivi dell’illecito contestato, evidenziati con una giustificazione lineare priva di incoerenze od illogicità, e pertanto incensurabile in sede di giudizio di legittimità.

Il ricorso quindi, nella palese verificata coerenza logico-giuridica ed adeguatezza della motivazione, quale proposta nella decisione impugnata, va dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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