Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-08-2011, n. 17446 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 1 dicembre 2006 i sigg. B., C., D. e D.D.M. ed E., F. e C.N. – gli ultimi tre quali eredi della sig.ra D.D. T. – si rivolsero alla Corte d’appello di Catanzaro per ottenere l’equa riparazione del danno derivante dall’eccessiva durata di un processo da essi introdotto nel 1973 davanti al TAR, che aveva deciso con sentenza del 15 gennaio 2002, appellata con ricorso dell’8 aprile 2003 al Consiglio di Stato, il quale l’aveva dichiarato irricevibile, perchè tardivo, con sentenza del 22 giugno 2006.

La Corte respinse la domanda osservando che, quanto al giudizio di primo grado, era maturata la decadenza semestrale prevista dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, perchè la sentenza del TAR era divenuta definitiva, essendo tardivo l’appello; quanto, poi, al giudizio di appello, la sua conclusione era intervenuta "nel termine di due anni ritenuti pacificamente congrui" dalla giurisprudenza.

I soccombenti hanno quindi proposto ricorso per cassazione contenente tre motivi di censura. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Presidenza del Consiglio dei ministri hanno resistito con controricorso. I ricorrenti hanno anche presentato memoria.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando-violazione di norme di diritto, si censura la statuizione di decadenza pronunciata dalla Corte d’appello con riguardo al primo grado del giudizio amministrativo. Si sostiene che il carattere unitario del giudizio, nelle sue fasi di primo e secondo grado, comporta la necessità di far riferimento alla decisione di secondo grado ai fini della decorrenza del termine di decadenza di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4. 1.1. – Il motivo è infondato.

Il richiamato art. 4 dispone: "La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva".

E’ acquisito in giurisprudenza ed è ammesso anche dai ricorrenti che, in questa norma, per "definitività" della decisione conclusiva del processo, dal cui verificarsi inizia a decorrere il termine semestrale di decadenza per la domanda di equa riparazione, s’intende, in relazione al giudizio di cognizione, il passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (cfr., fra le molte, Cass. 19526/2004, 3826/2006, 5212/2007).

Questa Corte ha anche avuto occasione di precisare che il dies a quo del termine in questione coincide, allorchè la decisione sia emanata a conclusione di un grado intermedio del giudizio, con la scadenza dei termini previsti per l’impugnazione; con la conseguenza che, fino a quando la decisione è impugnabile, il processo è da ritenersi pendente e la domanda di equa riparazione può essere proposta senza alcuna limitazione di ordine temporale (Cass. 13163/2004, 17818/2004).

Può, insomma, ritenersi assodato che il termine semestrale di decadenza ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 4, decorre, allorchè il processo presupposto sia un processo di cognizione (e perciò seguendo le indicazioni scaturenti dall’art. 324 c.p.c.), dalla data dell’emissione di una decisione non impugnabile con un mezzo ordinario d’impugnazione, ovvero, se una tale impugnazione è prevista dalla legge, dalla data di scadenza del termine stabilito per proporla.

Questa regola non può non valere anche nel caso in cui una impugnazione ordinaria sia stata in concreto proposta, ma tardivamente.

Secondo i ricorrenti, invece, ciò dovrebbe ammettersi attesa la "unicità", nonostante tutto, del processo.

A tale obiezione deve rispondersi che l’unicità del processo è esclusa proprio dal formarsi del giudicato, che per definizione mette fine al processo. Dopo il giudicato l’eventuale prosecuzione attivata dall’impugnazione tardiva rientra esclusivamente nella patologia processuale. Se l’impugnazione è tardiva non può più discutersi della causa che costituiva l’oggetto del processo originario, e il giudice può solo prendere atto della situazione patologica in cui si versa, dichiarando l’inammissibilità dell’impugnazione.

Nè sarebbe concepibile che il termine di decadenza di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4, una volta scaduto per l’inutile decorso di un semestre dal passaggio in giudicato della sentenza, possa poi riaprirsi, in qualsiasi momento, per effetto di una impugnazione esperita ad libitum.

Allorchè venga proposta (inammissibilmente) un’impugnazione tardiva, agli effetti della L. n. 89 del 2001 si ha dunque l’inizio di un nuovo processo, la cui durata va presa in considerazione autonomamente rispetto a quella del precedente processo ormai conclusosi con il giudicato, come correttamente ha fatto la Corte d’appello di Catanzaro con il decreto impugnato.

I ricorrenti osservano anche che la decisione sull’ammissibilità dell’impugnazione tardiva spetta esclusivamente al giudice della stessa, e non al giudice dell’equa riparazione, che non può interferire nel giudizio presupposto.

L’assunto non è del tutto esatto. Se è vero che il giudice dell’equa riparazione deve assumere il giudicato così come si è formato in concreto e, dunque, deve prendere atto della relativa pronuncia adottata nella sede propria del processo presupposto (anche nel caso in cui il giudice dell’impugnazione, errando, abbia o-messo di rilevare in sentenza l’inammissibilità dell’impugnazione tardiva), è anche vero che, nell’ipotesi in cui una pronuncia sull’impugnazione tardiva non sia stata ancora emessa in quella sede, dovrebbe ammettersi che il giudice dell’equa riparazione possa valutare incidenter tantum, ai soli fini del giudizio pendente davanti a lui, la tempestività o intempestività dell’impugnazione.

Tuttavia la questione non si pone nel caso che ci occupa, in cui in realtà la pronuncia di irricevibilità del gravame tardivo era stata assunta dal Consiglio di Stato già prima della stessa proposizione della domanda di equa riparazione e la Corte d’appello si è limitata, correttamente, a prenderne atto.

2. – Con il secondo motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, si lamenta che la Corte d’appello, pur affermando, correttamente, che il termine ragionevole di durata del processo di secondo grado era, conformemente alla giurisprudenza di legittimità e della Corte EDU, di due anni, ha tuttavia affermato che nella specie detto termine era stato rispettato, nonostante il processo fosse durato dall’8 aprile 2003 al 22 giugno 2006, e dunque oltre tre anni.

2.1. – Il motivo è fondato, essendo evidente la falsa applicazione, da parte della Corte distrettuale, del corretto principio che fissa di regola in due anni la ragionevole durata di un processo di appello a una fattispecie in cui, invece, il processo si era protratto per oltre tre anni.

3. – Il terzo motivo, con il quale la medesima questione viene posta sotto il profilo del vizio di motivazione, resta assorbito.

4. – Il decreto impugnato va in conclusione cassato in relazione alla censura accolta.

Non è tuttavia necessario far luogo al giudizio di rinvio, dato che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ult. parte, liquidando, per l’anno circa di protrazione del giudizio di appello oltre il termine di ragionevole durata, la somma di _ 750,00 a titolo di danno non patrimoniale, secondo i più recenti standard seguiti dalla Corte EDU. Somma che va riconosciuta per l’intero in favore di ciascuno dei ricorrenti B., C., D. e D.D.M., che hanno agito in proprio, e prò quota ereditaria in favore dei ricorrenti C.E., F. e N., che hanno agito quali eredi della sig.ra D.D.T..

La reciproca soccombenza delle parti (dovendo la domanda di riparazione relativa al primo grado del processo presupposto considerarsi domanda distinta, per quanto sopra osservato, da quella relativa al giudizio di appello) giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio, sia di merito che di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, dichiara assorbito il terzo; cassa, in relazione al motivo accolto, il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore dei sigg.

B., C., D. e D.D.M., della somma di Euro 750,00 ciascuno, e della somma di e Euro 750,00 pro quota in favore dei sigg. E., F. e C.N., con gli interessi legali dalla domanda; dichiara compensate fra le parti le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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