T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 04-05-2011, n. 1172 Acque pubbliche e private

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato in data 22 febbraio 2010 e depositato il 12 marzo successivo, la ricorrente ha impugnato sia la comunicazione protocollo U.I. 2009.18683 del 1.12.2009 della Direzione Generale Casa Opere Pubbliche, Giunta Regionale, con cui è stata comunicata la D.G.R. 28.10.2009, n. 10402 e la possibilità di recedere dalla concessione, sia la stessa D.G.R. 28.10.2009, n. 10402, nella parte in cui stabilisce la revisione delle concessioni intestate ai soggetti che non rientrano nella categoria degli enti pubblici (punto 3 del dispositivo di delibera).

A sostegno del ricorso vengono dedotte le censure di violazione e omessa applicazione del combinato disposto degli artt. 7 e 10 della legge n. 241 del 1990 ed eccesso di potere per arbitrarietà e sviamento.

Alla società ricorrente non sarebbe stato comunicato l’avviso di avvio del procedimento finalizzato alla modifica delle condizioni della concessione, che avrebbe dato la possibilità alla stessa concessionaria di evidenziare il suo peculiare statuto e la necessità di confermarle il precedente regime tariffario. In tal senso sarebbe stato violato il legittimo affidamento della ricorrente, che da molti anni avrebbe beneficiato di un regime tariffario agevolato.

Vengono altresì dedotti la violazione, l’omessa e la falsa applicazione dell’art. 6, comma 5, ultima parte, della legge regionale n. 10 del 2009, l’eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto, sviamento, carenza assoluta di istruttoria.

La ricorrente sarebbe stata costituita in seguito alla trasformazione di un consorzio di enti pubblici e sarebbe tuttora a totale partecipazione pubblica; possiederebbe altresì tutti gli ulteriori requisiti previsti per essere annoverata tra le c.d. società in house, ossia un controllo molto penetrante da parte degli enti pubblici proprietari (controllo analogo a quello effettuato nell’ambito delle proprie strutture), lo svolgimento di tutta la propria attività per conto degli enti pubblici di riferimento e lo svolgimento di un servizio pubblico – gestione di reti e impianti per il trattamento delle acque reflue provenienti dalle fognature comunali dei comuni aderenti – che escluderebbe la vocazione commerciale della società. Sulla scorta di questi elementi vi dovrebbe essere una piena equiparazione di quest’ultima con gli enti pubblici di riferimento, ossia il Comune e la Provincia, in quanto ente strumentale degli stessi; diversamente si porrebbe un problema di conformità tra la legge regionale n. 10 del 2009 e l’ordinamento comunitario.

Infine viene dedotta la violazione degli artt. 154, 155 e 161 del D. Lgs. n. 152 del 2006 e proposta una questione di legittimità costituzionale.

Il rilevante aumento delle tariffe a carico della società ricorrente determinerebbe un evidente squilibrio nei conti di quest’ultima, che avrebbe anche una potestà impositiva in materia di polizia idraulica. Ciò si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, della Costituzione, dal momento che in materia di tariffe idriche la competenza legislativa esclusiva spetterebbe allo Stato e sarebbe da ascrivere alle materie tutela dell’ambiente e tutela della concorrenza.

Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, che dopo aver sollevato, in via pregiudiziale, alcune eccezioni di inammissibilità del ricorso, ha chiesto, nel merito, il rigetto dello stesso.

Con ordinanza n. 275/2010 è stata respinta la domanda di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati.

In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della controversia la parte ricorrente ha depositato memorie a sostegno delle proprie posizioni.

Alla pubblica udienza del 28 gennaio 2011, su conforme richiesta dei procuratori delle parti costituite, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

1. In via preliminare va scrutinata l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sollevata dalla Regione Lombardia.

1.1. L’eccezione non è fondata.

Ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a, del R.D. n. 1175 del 1933 "appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche (…) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche". Secondo una parte della giurisprudenza, pertanto, appartengono alla giurisdizione del Tribunale Superiore tutti i "provvedimenti di organizzazione e di gestione del servizio idrico integrato (che) hanno incidenza diretta sul regime delle acque e sul loro utilizzo" (Cass. civ., SS.UU., ord. 15 maggio 2008, n. 12165).

1.2. In realtà, a giudizio di questo giudice, appare maggiormente in linea con il dettato normativo, in precedenza richiamato, quella interpretazione giurisprudenziale che ritiene sussistere la giurisdizione del T.S.A.P. soltanto nei casi in cui "i provvedimenti amministrativi impugnati siano caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche (…), mentre restano fuori da tale competenza giurisdizionale tutte le controversie che abbiano ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche" (Consiglio di Stato, V, 21 novembre 2003, n. 7614). Nel caso oggetto della presente controversia si controverte sulla possibilità di applicare la riduzione dei canoni concessori, prevista a favore degli enti pubblici, anche alla società ricorrente, con la conseguenza che non sembra esservi una influenza diretta sul regime delle acque pubbliche, trattandosi piuttosto di una relazione indiretta, visto che si fa riferimento principalmente alle ripartizione dei costi in ordine alla gestione del demanio idrico (in tal senso, T.A.R. Lombardia, Milano, IV, 26 ottobre 2009, n. 4896).

2. Anche le due ulteriori eccezioni di inammissibilità del ricorso per tardività e per carenza di interesse devono essere disattese.

2.1. Quanto all’assunta tardività del ricorso va evidenziato come la lesione asseritamente subita dalla ricorrente si è concretizzata soltanto con la comunicazione dei provvedimenti impugnati, visto che in astratto sarebbe stata possibile a beneficio della società una interpretazione più favorevole della normativa contenuta nella legge regionale n. 10 del 2009.

2.2. In relazione alla supposta carenza di interesse deve sottolinearsi che in realtà il sindacato sui provvedimenti impugnati non esclude la possibilità di verificare la conformità ai parametri costituzionali della legge regionale e quindi dare soddisfazione, sotto questo profilo, alla pretesa attorea.

3. Passando al merito del ricorso, lo stesso non è fondato.

3.1. Va esaminata in via prioritaria la seconda censura del ricorso, in quanto va anteposta per ragioni logiche a quanto evidenziato nella prima doglianza.

Con la stessa si sostiene che la ricorrente concessionaria sarebbe da annoverare tra le c.d. società in house, cui consegue una piena equiparazione di quest’ultima con gli enti pubblici di riferimento, ossia il Comune e la Provincia, in quanto ente strumentale degli stessi. In caso contrario si porrebbe un problema di conformità tra la legge regionale n. 10 del 2009 e l’ordinamento comunitario, che prevede tale tipologia di ente pubblico.

3.2. La doglianza è infondata.

In primo luogo, si deve premettere che gli atti impugnati si riferiscono alla rideterminazione imposta dalla Regione Lombardia dei canoni di concessione per l’uso del Demanio idrico. In fase di rideterminazione l’art. 6, comma 5, della legge regionale n. 10 del 2009 ha stabilito che ai fini dell’applicazione e della determinazione dei canoni regionali di polizia idraulica si intendono per enti pubblici quelli previsti dall’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001. Con la D.G.R. 28 ottobre 2009 n. 10402 si è stabilito di non applicare la riduzione al dieci per cento del canone di concessione demaniale in favore dei soggetti non rientranti nella categoria degli enti pubblici. Successivamente è stato comunicato alla ricorrente che, in applicazione delle predette disposizioni, non le sarebbe stata più accordata la riduzione prevista a favore degli enti pubblici, con la necessità di adeguarsi al nuovo canone oppure di recedere dal rapporto concessorio.

3.3. Appartenendo la ricorrente alla categoria delle società di capitali, essendo una società per azioni, non è possibile, in via diretta, annoverare la stessa tra gli enti pubblici individuati specificamente dall’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001.

Infatti, la norma regionale fa un diretto e chiaro rinvio al Testo unico sul pubblico impiego del 2001 che non annovera tra i soggetti pubblici le società in house. Di conseguenza, il tenore letterale della disposizione regionale non consente una interpretazione diversa da quella seguita dall’Amministrazione nella rideterminazione della misura del canone di concessione.

Nemmeno, però, può giungersi allo stesso risultato in via indiretta facendo riferimento alla categoria degli enti di rilievo pubblicistico, valorizzando l’asserita appartenenza della stessa alla tipologia delle società in house.

La nozione di società in house è stata elaborata dalla giurisprudenza comunitaria con riferimento esclusivo alla fase relativa all’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, ossia ad segmento pubblicistico ben preciso, che non può essere oggetto di generalizzazione ad altri ambiti o sotto altri aspetti. Se in questo modo sono stati, in via del tutto eccezionale, eliminati dei vincoli alla possibilità di affidare la gestione dei servizi pubblici locali in assenza di una gara, non appare possibile dilatare l’eccezione fino a parificare totalmente la figura di un ente pubblico tout court e quella di un soggetto che comunque conserva una veste di tipo privatistico (cfr. Consiglio di Stato, V, 26 agosto 2009, n. 5082).

Nemmeno si può equiparare totalmente, anche in sede di affidamento di un servizio pubblico, la gestione diretta da parte dell’ente pubblico, vietata nel nostro ordinamento con riferimento ai servizi pubblici di rilevanza economica, e l’affidamento ad una società partecipata c.d. in house (sul punto si veda Corte costituzionale, sentenza n. 325 del 2010, punto 6.1 del diritto).

3.4. Tuttavia nel caso di specie non è nemmeno dimostrata l’appartenenza della società ricorrente alla categoria delle entità in house o alla categoria degli organismi di diritto pubblico, visto che la copia dello Statuto prodotta in giudizio non contiene l’art. 4 che individua l’oggetto sociale della stessa. Difatti prima di procedere a tale classificazione è necessario esaminare attentamente il contenuto dell’oggetto sociale visto che la sua eccessiva ampiezza fa venir meno i presupposti per ricondurre tale società nel novero degli enti in house; come evidenziato dalla giurisprudenza, "osta alla configurabilità del modello in parola l’acquisizione, da parte dell’impresa affidataria, di una vocazione schiettamente commerciale tale da rendere precario il controllo dell’ente pubblico. Detta vocazione, può, in particolare, risultare dall’ampliamento, anche progressivo, dell’oggetto sociale e dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali o dall’espansione territoriale dell’attività della società: l’affermarsi di una vocazione strategica basata sul rischio di impresa finisce infatti per condizionare le scelte strategiche dell’ente asseritamene in house, distogliendolo dalla cura primaria dell’interesse pubblico di riferimento e, quindi, facendo impallidire la natura di costola organica, pur se entificata, dell’ente o degli enti istituenti" (Consiglio di Stato, V, 26 agosto 2009, n. 5082; in tal senso anche, Consiglio Stato, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1).

3.5. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la censura deve essere respinta.

4. Passando all’esame della prima censura, nella stessa si sostiene che alla società ricorrente non sarebbe stato comunicato l’avviso di avvio del procedimento finalizzato alla modifica delle condizioni della concessione, impedendo in tal modo alla stessa concessionaria di evidenziare il suo peculiare statuto e la necessità di confermare il precedente regime tariffario. In tal senso sarebbe stato violato il legittimo affidamento della ricorrente, che da molti anni avrebbe beneficiato di un regime tariffario agevolato.

4.1. La doglianza non è meritevole di accoglimento.

Nel caso di specie la comunicazione di avvio del procedimento non risulta necessaria, in quanto l’Amministrazione si è limitata semplicemente ad applicare il dettato normativo, senza alcuna possibilità di interporre una valutazione di carattere discrezionale nella determinazione assunta.

Di conseguenza, laddove il provvedimento contestato abbia natura di atto doveroso e vincolato nel contenuto, in caso di mancato avviso di avvio del relativo procedimento, anche in considerazione della sua suscettibilità a porsi come intangibile ai sensi dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990, non si può far luogo al suo annullamento (T.A.R. Campania, Napoli, VII, 22 dicembre 2009, n. 9320).

4.2. Ciò determina il rigetto anche di questa doglianza.

5. Con la terza censura si eccepisce l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, in quanto la normativa regionale agli stessi presupposta risulterebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, della Costituzione, tenuto conto che in materia di tariffe idriche la competenza legislativa esclusiva spetterebbe allo Stato e sarebbe da ascrivere alle materie tutela dell’ambiente e tutela della concorrenza.

5.1. La prospettata questione di costituzionalità è manifestamente infondata.

La presente controversia si riferisce alla determinazione dell’importo del canone di concessione per l’uso del demanio idrico, che dovrebbe, in linea di massima, rientrare nella potestà legislativa esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost. in quanto afferente alla tutela dell’ambiente e della concorrenza.

Tuttavia, con il D. Lgs. n. 112 del 1998 (artt. 34, 86 e 89), il legislatore statale, titolare della potestà normativa primaria, ha ritenuto di delegare alle Regioni tutte le funzioni e i compiti in materia di gestione del demanio idrico, ivi compresa la determinazione del canone di concessione, risultando tali previsioni del tutto compatibili con il riparto di competenze delineato dalle norme costituzionali a seguito della Riforma del Titolo V della Parte Seconda, avvenuta nel 2001 (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 248 del 2009; n. 214 del 2005).

Pertanto la Regione vanta un titolo diretto alla determinazione dei canoni di concessione in questo ambito.

5.2. Siffatta conclusione non può essere contrastata facendo riferimento alla riconosciuta potestà statale esclusiva in materia di determinazione delle tariffe del servizio idrico (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 29 del 2010), che riguardano evidentemente un ambito del tutto diverso. Difatti se l’individuazione della tariffa del servizio idrico, quale corrispettivo del servizio che va ad incidere sugli utenti finali del servizio (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 335 del 2008), deve essere stabilita dallo Stato, secondo quanto previsto dall’art. 154 del D. Lgs. n. 152 del 2006, la determinazione del canone concessorio per l’utilizzo di beni appartenenti al demanio idrico è strettamente legata all’atto amministrativo ampliativo concessorio, che in alcuni casi è rilasciato a soggetti, anche pubblici, per lo svolgimento della loro attività istituzionale e quindi per il perseguimento di un fine di carattere pubblicistico.

5.3. Oltretutto la prospettata questione di costituzionalità sarebbe anche irrilevante per determinare l’esito della presente controversia.

La ricorrente, difatti, chiede l’applicazione di un regime di favore – ossia il pagamento della concessione in misura pari al dieci per cento del totale addebitato ai concessionari "ordinari" – stabilito dalla stessa Regione, sia attraverso l’art. 6, comma 5, della legge regionale n. 10 del 2009 sia con la D.G.R. 28.10.2009, n. 10402. Di conseguenza, l’eventuale fondatezza della questione di costituzionalità travolgerebbe non soltanto la parte della normativa regionale che fonda il potere di determinare i canoni di concessione per la gestione del demanio idrico, ma anche quella parte della disciplina che stabilisce un regime di favore per gli enti individuati dall’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001. Pertanto, nessun beneficio certo ne deriverebbe in capo alla ricorrente, dovendosi attendere l’eventuale disciplina statale che potrebbe determinare un canone uguale per tutti i concessionari, rendendo del tutto ininfluente l’eventuale esito positivo del giudizio di costituzionalità.

6. In conclusione il ricorso deve essere respinto.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo a favore della sola Regione Lombardia.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso indicato in epigrafe.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della Regione Lombardia nella misura di Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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