Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 20-01-2011) 05-05-2011, n. 17403 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A. venne sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal 18 marzo 2001 al 28 marzo 2001 ed agli arresti domiciliari del 28 marzo 2001 al 18 dicembre 2001, per il reato previsto dagli artt. 600 ter e 600 sexies c.p. (produzione di materiale pedopornografico concernente la figlia undicenne della propria convivente). In sede di appello il reato fu derubricato in quello meno grave di cui all’art. 600 quater c.p., con conseguente determinazione della pena in mesi sei di reclusione. Tale sentenza è poi passata in giudicato.

Il P. propose istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta.

La corte d’appello di Roma, con ordinanza 16.10.2008, rigettò la domanda, escludendo che la derubricazione del reato, avvenuta in sede di merito, in altra ipotesi criminosa per la quale non era consentita la custodia cautelare potesse legittimare il riconoscimento della indennità di riparazione. Riscontrò inoltre la ricorrenza di un comportamento dell’istante connotato da colpa grave, tale da far ragionevolmente ritenere la sussistenza del più grave reato di cui all’art. 600 ter c.p..

Con sentenza 3.12.2009 questa Corte annullò con rinvio la predetta decisione, affermando di condividere l’interpretazione secondo cui, "in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione nel caso di diversa qualificazione giuridica in sede dibattimentale del delitto originariamente contestato (che ha determinato il provvedimento restrittivo) in altro delitto che non avrebbe consentito la custodia cautelare, il diritto alla riparazione non è escluso e va riconosciuto nei limiti del quantum ritenuto equo dalla Corte di Appello". Ritenne la sentenza di annullamento che "siffatta fattispecie configuri un’ autonoma ipotesi genera-trice del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, qualificata come ingiustizia formale e prevista dall’art. 314 c.p.p., comma 2, consistente nel difetto genetico – nell’ordinanza coercitiva – della condizione di applicabilità della misura prevista dall’art. 280 c.p.p., difetto accertato con provvedimento irrevocabile anche in sede di merito". Aggiunse che "in base al senso letterale e logico del disposto ex art. 314 c.p.p., commi 1 e 2, deve ritenersi che la condizione ostativa contenuta nell’art. 314, comma 1 (non avere dato o concorso a dare causa alla misura cautelare per dolo o colpa grave) non sia applicabile all’ipotesi di ingiustizia formale in cui l’illegittimità della custodia sia stata accertata con giudicato cautelare ovvero con sentenza di merito definitiva. Dal che consegue che il titolo legittimante il riconoscimento del diritto ex art. 314 c.p.p. si concretizza unicamente nel provvedimento irrevocabile anzidetto". Rinviò quindi al giudice del merito per nuovo esame della domanda di riparazione sulla base del principio di diritto enunciato.

La corte d’appello di Roma, in sede di rinvio, con ordinanza 15.4.2010, accolse la domanda di riparazione, liquidando la complessiva somma di Euro 27.630,00.

Il Procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Roma propone ricorso per cassazione deducendo che l’interpretazione seguita dalla corte d’appello è in contrasto con l’art. 3 Cost., perchè se l’ingiustizia formale del provvedimento restrittivo generasse automaticamente il diritto alla riparazione pur in presenza di dolo o colpa grave si verrebbe a determinare una diversità di trattamento tra imputato assolto e imputato condannato. Sostiene quindi che, nella ipotesi di derubricazione della originaria contestazione, il giudice della riparazione non è automaticamente vincolato al riconoscimento dell’indennizzo ma deve accertare se la derubricazione sia dipesa da una palesemente errata contestazione iniziale ovvero da circostanze emerse in dibattimento o da una differente valutazione dell’elemento psicologico.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze propone anch’esso ricorso per cassazione deducendo, in sostanza, argomentazioni analoghe.

In data 27.10.2010 il Ministero ha depositato memoria integrativa.
Motivi della decisione

Le argomentazioni svolte in entrambi i ricorsi sono corrispondenti alla interpretazione recentemente seguita dalle Sezioni Unite che, nel risolvere il contrasto che sul punto si era creato nella giurisprudenza di questa Corte, hanno affermato in principio che "La circostanza dell’avere dato o concorso a dare causa alla misura custodiate per dolo o colpa grave opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione anche nella ipotesi, prevista dall’art. 314 c.p.p., comma 2, di riparazione per sottoposizione a custodia cautelare in assenza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p.; tale operatività non può peraltro concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa la condizione stessa, nei casi in cui l’accertamento dell’ insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiate avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, e in ragione esclusivamente di una loro diversa valutazione" (Sez. Un., 27.5.2010, n. 32383, D’Ambrosio, m. 247663).

Le Sezioni Unite hanno in particolare specificato che "Ai fini delle verifiche di pertinenza del giudice della riparazione diviene, quindi, particolarmente importante appurare se l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiate sia avvenuto (vuoi nel procedimento cautelare vuoi nel procedimento di merito) sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, o alla stregua di un materiale contrassegnato da diversità (purchè rilevante ai fini della decisione) rispetto ad essi, posto che la problematica della condotta sinergica viene praticamente in rilievo solo nel secondo e non anche nel primo dei suddetti casi" (punto 11).

E’ quindi evidente che il principio di diritto affermato dalla precedente sentenza di annullamento 3.12.2009 – secondo cui, invece, "in base al senso letterale e logico del disposto ex art. 314 c.p.p., commi 1 e 2, deve ritenersi che la condizione ostativa contenuta nell’art. 314, comma 1 (non avere dato o concorso a dare causa alla misura cautelare per dolo o colpa grave) non sia applicabile all’ipotesi di ingiustizia formale in cui l’illegittimità della custodia sia stata accertata con giudicato cautelare ovvero con sentenza di merito definitiva. Dal che consegue che il titolo legittimante il riconoscimento del diritto ex art. 314 c.p.p. si concretizza unicamente nel provvedimento irrevocabile anzidetto" – si pone ora in contrasto con la citata pronuncia delle Sezioni Unite e non può pertanto essere più seguito. Sotto questo profilo, pertanto, le argomentazioni su cui si fondano i due ricorsi sarebbero fondate e bisognerebbe stabilire se l’accertamento della insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura sia avvenuto sulla base dei medesimi elementi che possedeva il giudice che la dispose.

Sennonchè ciò non comporta che la sentenza impugnata sia erronea e che possano quindi essere accolti i ricorsi con conseguente annullamento della sentenza stessa.

Nella specie, infatti, la pronuncia è stata emessa in sede di rinvio ed il giudice di rinvio era vincolato dal principio di diritto affermato dalla sentenza di annullamento, non avendo più la possibilità di metterlo in discussione. Nè l’applicabilità di tale principio, in relazione al concreto caso in esame, può essere più sindacata in questa sede.

E difatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, "L’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa è assoluto ed inderogabile anche se sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza dopo la detta sentenza" (Sez. Un., 19.1.1994, n. 4460, Celerini, m. 196893); "Il giudice di rinvio, nel decidere la specifica regiudicanda, ha un obbligo assoluto inderogabile di uniformarsi al principio di diritto affermato nella sentenza della corte di cassazione, a nulla rilevando che, successivamente alla sentenza di annullamento, la giurisprudenza di legittimità, anche nella sua sede più alta (le sezioni unite), abbia modificato la sua interpretazione. Invero la statuizione giurisdizionale più elevata, come quella delle sezioni unite, assolve per legge ad una specifica funzione nomofilattica; ma non assurge mai al livello di vincolo giuridico vero e proprio, e soprattutto non può modificare la regiudicata che si è già perfezionata sul punto di diritto deciso nella sentenza di annullamento della Cassazione, per effetto del combinato disposto degli artt. 627 e 628 c.p.p.. Infatti il principio di diritto affermato dalla sentenza di annullamento, in quanto immodificabile da parte del giudice e sottratto a ulteriori mezzi di impugnazione, acquista autorità di giudicato interno per il caso di specie" (Sez. 3, 11.12.1998, n. 12947, Selliamone, m. 212423; Sez. 1, 10.10.2001, n. 43926, Padellare m. 220133); "Il giudice di rinvio ha sempre l’obbligo di uniformarsi alla decisione sui punti di diritto indicati dal giudice di legittimità e su tali punti nessuna delle parti ha facoltà di ulteriori impugnazione, a nulla rilevando che, successivamente alla sentenza d’annullamento, la giurisprudenza di legittimità, anche nella sua più alta sede (le sezioni unite), abbia modificato l’interpretazione delle norme che devono essere applicate" (Sez. 3, 19.8.1993, n. 8527, Strazza, m. 195159); "Nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione il giudice è vincolato al principio di diritto enunciato dalla corte con riferimento al caso specifico ed è del tutto irrilevante che la cassazione, a Sezioni Unite, abbia nel frattempo indicato un orientamento del tutto opposto. (Fattispecie in tema di criteri di quantificazione delle riparazioni per ingiusta detenzione)" (Sez. 3, 20.12.1995, n. 4611, Caporossi, m. 204568).

La sentenza impugnata, facendo corretta applicazione di questi principi, si è appunto uniformata al richiamato principio di diritto enunciato dalla sentenza di annullamento ritenendo preclusa, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 2, ogni indagine sulla eventuale colpa grave che avrebbe tenuto il P. e che avrebbe potuto contribuire a determinare l’emissione del provvedimento restrittivo.

E’ poi manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata nella specie, prospettata dai ricorrenti in riferimento all’art. 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza. Ed invero, non è dato riscontrare un esercizio manifestamente irragionevole della discrezionalità legislativa nella previsione di una norma che non consideri la circostanza dell’avere dato o concorso a dare causa alla misura custodiate per dolo o colpa grave come una condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione nelle ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, in considerazione del fatto che si tratta di ipotesi in cui la misura non poteva essere emessa per la mancanza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.. Allo stesso modo, la dedotta disparità di trattamento fra imputati assolti e imputati condannati trova anch’essa una ragionevole giustificazione nella originaria mancanza delle condizioni di applicabilità della misura.

In conclusione, i ricorsi debbono essere rigettati con conseguente condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento delle spese processuali.

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