Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-01-2011) 05-05-2011, n. 17397

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 21 aprile 2010 la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale della stessa città resa in data 22 giugno 2006 con la quale P.R. – imputato del reato di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, nn. 2 e 8 e L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 7 – era stato condannato alla pena di anni due mesi otto di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante oltre l’interdizione dai pp. uu. per anni tre, confisca del denaro, confisca di quant’altro in sequestro e distruzione fuorchè dei cellulari (la cui restituzione in favore dell’avente diritto veniva disposta), riduceva la pena inflitta dal primo giudice ad anno uno e mesi dieci di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, previo riconoscimento in termini di prevalenza delle già concesse circostanze attenuanti generiche, con l’ulteriore beneficio della sospensione condizionale della pena.

Con la detta sentenza la Corte territoriale disattendeva il principale motivo di appello inerente alla richiesta di assoluzione, argomentando che plurimi elementi confortavano il giudizio di colpevolezza espresso dal primo giudice e, in particolare, riteneva attendibili le dichiarazioni dell’imputato di reato connesso F. A. (nonostante l’appellante avesse evidenziato pregressi motivi di risentimento intercorsi con costui) sulla base dei plurimi riscontri esterni e della intrinseca credibilità del F., accentuata anche dalla sua spontanea ammissione, da subito, di contrasti con il P..

Precisava, ancora, la Corte di Appello che l’imputazione contemplata nel capo di imputazione era assolutamente corretta, in quanto era stata contestata la condotta di favoreggiamento consistita nella locazione di immobili a fini di prostituzione (in coerenza con quanto ammesso dallo stesso imputato) e non quella di sfruttamento della prostituzione. La Corte disattendeva anche le doglianze dell’appellante in punto di mancata revoca della pena accessoria prevista da una norma speciale e non applicata ai sensi dell’art. 29 c.p., riconoscendo soltanto la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche e concedendo, poi, in relazione all’avvenuta riduzione della pena, il beneficio della sospensione condizionale.

Propone ricorso avverso la detta sentenza l’imputato, denunciando contraddittorietà ed illogicità della motivazione per avere la Corte di Appello omesso di valutare circostanze decisive emergenti dalla sentenza (il riferimento è all’inattendibilità delle dichiarazioni del teste F., in relazione ai contrasti intercorrenti con il P.; alla inconsapevolezza, da parte sua dell’uso che le prostitute facevano degli immobili da egli dati in locazione; alla certa destinazione delle somme percepite, esclusivamente quale compenso per la locazione; alla inconsapevolezza dell’attività di prostitute svolta dalle donne locatrici degli appartamenti di sua proprietà).

Con un secondo motivo viene denunciata mancanza di motivazione in punto di valutazione dell’elemento soggettivo del reato di sfruttamento della prostituzione, sostenendo il ricorrente che il denaro ricevuto dalle ragazze era frutto della locazione e non dello sfruttamento. Viene, poi, denunciata violazione di legge nella misura in cui non sarebbe stato applicato dalla Corte il condono e disposta, invece, la sospensione condizionale della pena, meno favorevole.

Viene, infine, sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 606 c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non sarebbe consentito alla Corte di Cassazione di esaminare il fatto, tanto più che l’omessa considerazione di elementi o prove decisive avrebbe precluso il diritto di difesa. Il ricorso è manifestamente infondato.

Va in linea generale ribadito il principio in forza del quale la struttura motivazionale della sentenza di appello, laddove le due pronunce di primo e di secondo grado risultino concordanti nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a base delle rispettive decisioni, si salda e si integra con quella precedente di primo grado (Cass. Sez. 1, 26.6.2000 n. 8886; Cass. Sez. 1, 2.10.2003 n. 46350), con la conseguenza che è pienamente legittima da parte del giudice di secondo grado una motivazione per relationem, peraltro, nel caso di specie non esauritasi nel mero richiamo alla sentenza del GUP, ma estesa in modo specifico anche all’analisi delle singole condotte poste in essere dall’imputato.

La Corte ha, in particolare, esaminato correttamente ed esaustivamente, senza vizi di natura logica, i vari punti menzionati nell’atto di appello, fornendo risposte adeguate e coerenti sia in termini di attendibilità delle dichiarazioni del teste F. (che correttamente, ha ritenuto essere sostanzialmente sovrabbondanti rispetto ad un quadro probatorio già di per sè ritenuto, a ragione, assai consistente) sia in termini di esaustività del complessivo quadro probatorio. Al riguardo va osservato che il giudice di merito ha dato conto del consistente materiale probatorio raccolto a carico dell’imputato, non solo indicando specificamente tali elementi (dichiarazioni delle prostitute locatrici le quali chiamano direttamente in causa il P. quale soggetto che era solito accompagnarle sul "luogo di lavoro" e percepire anche somme per tale attività oltre che per la locazione settimanale degli appartamenti per consentire alle donne di ivi esercitare il meretricio;

dichiarazioni confessorie, seppure parziali (quanto al numero delle donne coinvolte) dell’imputato in occasione del suo interrogatorio dinnanzi al Pubblico Ministero; intercettazioni telefoniche;

perquisizioni e sequestri di materiale rinvenuto all’interno delle abitazioni concesse in locazione ed occupate dalle prostitute), ma rielaborando, rispetto al primo giudice, tali elementi in modo del tutto autonomo e pervenendo così, in termini di assoluta logicità, alle stesse conclusioni del Tribunale in punto di colpevolezza del P..

Rispetto a tali argomentazioni, le proposizioni contenute nel primo motivo di ricorso, in quanto circoscritte al fatto, implicano quella rilettura in chiave alternativa degli atti processuali, inibita in sede di legittimità.

La Corte ha, altrettanto esaurientemente e correttamente, dato una qualificazione al fatto assolutamente coincidente con il capo di imputazione, così superando il rilievo difensivo, poi riproposto con l’odierno ricorso, che muove da un presupposto inesistente: vale a dire la contestazione del reato di sfruttamento della prostituzione, in realtà mai formulata, come è agevole evincere da una semplice lettura del capo di imputazione.

In proposito è bene ricordare che all’odierno ricorrente sono state contestate due distinte condotte (concessione in locazione di locali destinati all’esercizio del meretricio dietro compenso in denaro e accompagnamento sui luoghi di lavoro delle prostitute) che, ricompresse sotto i paragrafi 2 e 8 della L. n. 75 del 1958, art. 3, possono anche essere assimilate in unica condotta favoreggiatrice:

nessuna di esse infatti, implica quella di sfruttamento della prostituzione che poggia su basi ben diverse, rappresentate dalla partecipazione parassitaria ai guadagni derivanti dall’attività, che non ha mai formato oggetto, anche in minima parte, di considerazioni sia da parte del GUP che della Corte di Appello.

Anche su tale punto il motivo prospettato dalla difesa del ricorrente è palesemente inconsistente, essendosi la difesa dell’imputato limitata a ricordare quali siano gli elementi costitutivi del reato contestato.

Elementi che la Corte ha opportunamente evidenziato – alla luce delle prove esaminate – giungendo poi coerentemente a confermare sia la condotta favoreggiatrice propriamente detta sia quella della locazione degli immobili a scopo di farvi esercitare la prostituzione così come enunciato nel capo di imputazione.

In questa sede basta solo rammentare che il dolo richiesto è, anche per la condotta di locazione, generico (e non specifico) in quanto la norma incriminatrice non esige che lo scopo rientri nella finalità dell’agente, essendo sufficiente la destinazione obiettiva del locale alla prostituzione, con la conseguenza che la cessione in locazione, accompagnata dalla consapevolezza, in capo al locatore, dell’uso cui l’appartamento verrà adibito è idonea ad integrare la fattispecie (Cass. Sez. 3, 30.9.1999 n. 12787, Occhipinti, Rv. 215634).

A fronte di tali argomentazioni, ancora una volta il ricorrente prospetta una diversa lettura degli avvenimenti, improponibile in sede di legittimità, laddove reitera la censura di omessa motivazione da parte della Corte in ordine alle finalità perseguite dal ricorrente attraverso la locazione degli immobili, avendo anche su tale specifico punto la Corte fornito motivazione ampia e convincente.

Peraltro, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la condotta di favoreggiamento della prostituzione, può estrinsecarsi nei modi più svariati, ben potendo sostanziarsi nel porre a disposizione di una prostituta, anche a titolo di locazione, un appartamento, in quanto ciò costituisce attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione stessa (Cass. Sez. 3, 23.5.2007 n. 35373, Galindo Ortiz, Rv. 237400;

Cass. Sez. 3, 4.12.2008 n. 810, Tornei, Rv. 242284).

Anche in punto di mancata applicazione dell’indulto non si profila alcuna violazione di legge, posto che era stato il difensore ad invocare il beneficio della sospensione condizionale della pena senza il minimo accenno all’indulto che ben può essere applicato in sede di esecuzione.

La questione di costituzionalità è palesemente destituita di fondamento: nei termini in cui essa è stata proposta, non si ravvisa alcuna incompatibilità della norma processuale con il dettato costituzionale, nè sotto il profilo della irragionevolezza della disposizione, nè sotto il profilo della lesione del diritto di difesa.

La novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) consente il riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame per la deduzione di vizi attinenti alla motivazione e riguarda, ovviamente, anche atti a contenuto probatorio.

Ma quel che è certo è che il sindacato della Cassazione resta pur sempre quello di legittimità senza quindi alcuna possibilità di riesame critico delle risultanze istruttorie, prerogativa esclusiva del giudice di merito, dovendosi quindi escludere che la riforma introdotta con la L. n. 46 del 2006 abbia ampliato e rimodulato il concetto di sindacato di legittimità (Cass. Sez. 6, 18.12.2006 n. 752, Rv. 235732).

L’effetto della riforma quindi non consente spazi ulteriori di cognizione oltre quelli propri del giudizio afferente alla logicità, effettività e coerenza della motivazione: dalla prospettazione della questione non emerge affatto quella irragionevolezza della norma prospettata dalla difesa, posto che nel sistema vigente non è consentito l’esperimento del c.d. "terzo grado di giudizio" (inteso quale giudizio di merito, stante la netta distinzione tra una fase di merito nella quale possono trovare ingresso doglianze riguardanti la valutazione del materiale probatorio sottoposto nel modo più ampio possibile alla valutazione del giudizio ed una fase di verifica della correttezza del percorso motivazionale che dia conto della completezza, logicità e non contraddittorietà della motivazione).

Nei termini in cui la censura viene formulata, essa preluderebbe ad una inammissibile e non prevista estensione della cognizione del giudice di legittimità che ragionevolmente il legislatore ha voluto impedire, pur con la rielaborazione del concetto di travisamento del fatto in termini di travisamento della prova.

Alla stregua delle argomentazioni di cui sopra, il ricorso va pertanto, dichiarato inammissibile.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma – ritenuta congrua – di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, trovandosi il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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