Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16-02-2011) 06-05-2011, n. 17794 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con decisione pronunciata il 27 gennaio 2007, il Tribunale di Catania pronunciò sentenza di condanna nei confronti di tutti gli imputati in epigrafe elencati per i delitti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 e/o di cui all’art. 74, commessi in (OMISSIS) tra gli ultimi mesi del (OMISSIS) e i primi mesi del (OMISSIS).

2. Con sentenza emessa in data 24 febbraio 2009, la Corte d’appello di Catania ha assolto As.An., As.Vi., Ca.Ro., Gr.Sa.Al., Mo.Vi. dai reati loro ascritti e V.C. dal reato di cui al capo C-ter ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73) per non aver commesso il fatto, ha ridotto la pena inflitta a A.S., M.C. e V.C., ha confermato la sentenza nei confronti degli altri imputati sopra elencati.

3. Ricorrono per cassazione gli imputati sopra elencati, con separati atti di impugnazione.

Ricorre altresì il Pubblico Ministero dolendosi dell’assoluzione dei gli imputati As.An., As.Vi., C. R., Gr.Sa.Af., Mo.Vi. e V. C..
Motivi della decisione

1. A.S. è stato condannato – previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante e alla recidiva – alla pena di undici anni di reclusione per i delitti di cui al capo E ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74) e al capo E-bis (cit. D.P.R., art. 73).

1.2. Deduce nullità della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità penale, assumendo che nella sentenza impugnata manca la motivazione sulle condotte materiali da cui desumere l’affectio societatis. La motivazione – assume il ricorrente – è fondata sulla personale deduzione del decidente secondo cui la conoscenza delle altrui attività comporta la partecipazione rilevante, senza indicazione del contributo causale stabile fornito all’associazione dall’imputato.

La Corte ha valutato, poi del tutto illogicamente, la circostanza che l’ A. è tossicodipendente.

1.2. Il ricorso merita accoglimento in relazione al delitto associativo ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74), mentre vanno rigettate le doglianze relative all’affermazione di responsabilità per il reato di cui al cit. D.P.R., art. 73.

Gli elementi indicati in sentenza – in cui vengono riportate integralmente le parti dell’informativa riguardanti le telefonate con le opinioni degli investigatori circa l’individuazione dei soggetti e le ragioni per cui avvengono le telefonate, ma senza una valutazione argomentata degli elementi elencati, sicchè le affermazioni di responsabilità restano meramente assertive ed apodittiche – sono idonei a sorreggere l’accusa di spaccio, ma non quella di partecipazione ad un sodalizio finalizzato al traffico di stupefacente (cit. D.P.R., art. 74). Il fatto di aver intrattenuto in alcune occasioni rapporti con il c., inerenti all’acquisto e vendita di droga, non è sufficiente a configurare la partecipazione ad un sodalizio, di cui non sono precisamente delineate neppure le connotazioni strutturali ed organizzative. Le conversazioni concernenti l’ A. fanno riferimento ad un paio di episodi, che non appaiono sufficienti e plausibilmente idonei, nella complessiva motivazione della sentenza, a provare il contributo di partecipazione ad un’associazione criminosa.

Va, pertanto, accolta la richiesta del Procuratore generale di annullamento con rinvio limitatamente al reato associativo, con rigetto del ricorso nel resto.

2. B.A. – condannato alla pena di dodici anni di reclusione per i reati di cui AL D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 e 74 (capi F ed F-bis dell’imputazione) – deduce, innanzitutto, l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per violazione degli artt. 268 e 271 c.p.p. a causa della carenza di motivazione dei decreti autorizzativi.

2.1. Il motivo è inammissibile. Osserva il Collegio, in conformità alla giurisprudenza consolidata di questa Corte in materia d’intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, che qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, ( art. 271 c.p.p., comma 1), è onere della parte indicare specificamente sia l’atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato sia la decisiva rilevanza che l’elemento probatorio tratto da tale atto ha avuto nella valutazione del giudice.

Nel caso in esame non viene indicato dal ricorrente nè lo specifico decreto autorizzativo di cui si censura la motivazione, nè quali profili sarebbero stati omessi nella motivazione, nè, infine, la decisività che lo specifico atto avrebbe, in ipotesi, avuto nell’apprezzamento della Corte territoriale.

2.2. Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio motivazione, in riferimento alla partecipazione associativa e all’addebito di spaccio di droga. Deduce che il ruolo del B. nella presunta associazione è ricavato da una sola conversazione e da una ripresa fotografica all’esterno di un bar, ove era avvenuto un incontro, e dalla registrazione di una voce fuori microfono arbitrariamente attribuita al B.. Quanto poi al capo F-bis (cit. D.P.R., art. 73) manca del tutto la motivazione; censura infine la sentenza per avere la Corte interpretato erroneamente la lettera- confessione del B., in cui egli ammette solo lo spaccio, ma nega il delitto associativo.

2.3. Va accolto il motivo relativo alla ritenuta responsabilità per il delitto di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, che è fondata sostanzialmente sulla partecipazione del B. all’incontro del (OMISSIS) al (OMISSIS), dove si discusse di una fornitura di droga. Il fatto che egli fosse in contatto con il Ni. per ragioni di droga non è elemento di per sè idoneo a provare l’adesione al sodalizio nè emergono dalla motivazione della sentenza altri rilevanti elementi che, unitamente alla documentata partecipazione a tale incontro, diano conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della partecipazione dell’imputato all’associazione finalizzata al commercio di stupefacenti.

2.4. Del tutto infondata è, invece, la doglianza relativa alla ritenuta colpevolezza per la fattispecie di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, risultando l’attività di spaccio ampiamente provata dalle talune telefonate in sentenza evidenziate, attività peraltro sostanzialmente ammessa nella lettera-confessione del B., sul piano logico correttamente valutata dai giudici di merito.

In accoglimento della richiesta del Procuratore generale, la sentenza va annullata limitatamente al reato associativo, con rinvio al giudice di merito per nuovo giudizio su tale capo, rimanendo assorbiti il terzo e il quarto motivo, che deducono vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche e censure con riferimento alla motivazione per relationem.

3. Bl.Ag. – condannato alla pena di sei anni e due mesi di reclusione e Euro 27.000 di multa per il reato di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 – deduce vizio di motivazione e violazione degli artt. 192 e 546 c.p.p., rilevando che l’addebitato spaccio di droga è ricavato dalla sola telefonata del 30 ottobre 2003 tra D.M. e Bu., in cui si riferisce della lamentela circa la qualità scadente di stupefacente acquistata da tale " T.", identificato arbitrariamente nel Bl.. La circostanza che il Bl. sia il titolare del conto corrente su cui è stato emesso l’assegno utilizzato per il pagamento della droga non è idonea ad identificare nel Bl. il " T." della telefonata, giacchè l’imputato ha fornito una diversa e valida giustificazione circa la dazione del predetto assegno.

3.1. Il ricorso – al limite dell’ammissibilità giacchè prospetta una ricostruzione fattuale alternativa a quella operata dalla Corte territoriale – non merita accoglimento. La motivazione fornita dalla Corte catanese non lascia adito a dubbi circa l’identificazione del ricorrente nel " T." di cui alla riferita telefonata, identificazione suffragata da una successiva telefonata tra gli stessi interlocutori relativa alla difficoltà incontrate dal D. M. per riscuotere l’assegno tratto sul conto corrente dell’imputato, come è provato dagli accertamenti bancari eseguiti dalla polizia giudiziaria presso la sede centrale del Banco di Sicilia.

3.2. Del tutto generico e, perciò, inammissibile è la doglianza sul diniego della richiesta della circostanza attenuante prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, esclusa dai giudici di merito con motivazione giuridicamente corretta ed indenne da vizi logici.

4. Bu.Ro. – condannato alla pena di undici anni e sei mesi di reclusione per i reati di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 e 74 (capi D ed D bis dell’imputazione) – deduce sette motivi di impugnazione.

4.1. Denuncia, innanzitutto, nullità della sentenza violazione dell’art. 65 c.p.p., e art. 178 c.p.p., lett. c), con relativo vizio di motivazione, lamentando imprecisione e scarsa chiarezza del capo d’imputazione, con conseguente nullità del decreto di citazione in giudizio.

Il riferimento all’art. 65 c.p.p. è palesemente errato, intendendo il ricorrente verosimilmente dedurre la violazione dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) e invocare la nullità del decreto di citazione a giudizio, prevista dal citato articolo, comma 2, quando "manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal comma 1 lettere c) f)".

Il motivo è inammissibile. La nullità del decreto di citazione a giudizio per la mancata o imprecisa o non chiara enunciazione del fatto oggetto dell’imputazione, prevista dall’art. 429 c.p.p., comma 2, deve ritenersi sanata qualora non sia stata dedotta entro il termine stabilito, a pena di decadenza, dall’art. 491 c.p.p., comma 1. Tale omissione non attiene all’intervento dell’imputato nè alla sua assistenza o rappresentanza, per cui la nullità che ne deriva deve ricomprendersi non tra fra quelle di ordine generale, previste dall’art. 178 c.p.p., lett. c), bensì tra quelle relative, previste dall’art. 181 c.p.p.. Ne consegue che detta nullità deve essere eccepita – a pena di preclusione – subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti.

Nel caso in esame, risulta dalla sentenza di primo grado e dallo stesso atto d’appello che la nullità fu eccepita nel corso della discussione finale e "successivamente con una memoria depositata dopo l’emissione del dispositivo" e, perciò, ben oltre il termine previsto dall’art. 491 c.p.p., comma 1, con la conseguenza che l’intervenuta sanatoria ne impedisce la successiva deduzione.

4.2. Inammissibile è anche il secondo motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 18 c.p.p.: il provvedimento di separazione dei procedimenti, in conseguenza dell’ammissione al rito abbreviato di alcuni imputati di uno stesso delitto associativo, è legittimo perchè non incide sui diritti di difesa degli imputati (Cass. n. 21956//2005, Laraspata).

In ogni caso, nessuna nullità è prevista per l’eventuale violazione delle norme ordinatoria in materia di separazione dei procedimenti (Cass. n. 11411/1993, Petrangelo).

4.3. Inammissibile è anche è il terzo motivo, con cui il Bu. deduce l’ìnutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per violazione degli artt. 267 e 268 c.p.p. e si duole che la Corte d’appello non abbia motivato sul punto.

In mancanza di specifico motivo d’appello, la Corte territoriale non aveva alcun obbligo di motivazione esplicita. In ogni caso, il motivo è generico, in quanto il ricorrente non specifica quali decreti sarebbero nulli, nè le ragioni della nullità, nè in cosa consisterebbe il difetto di motivazione, nè, infine, la decisiva rilevanza degli elementi probatori derivanti dalle intercettazioni nella valutazione dei giudici di merito.

4.4. Fondato è invece il quarto motivo, con cui il ricorrente deduce la nullità della sentenza per inosservanza del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74 e relativo vizio di motivazione.

Si contesta l’assenza di tutti gli elementi costitutivi dell’associazione: pluralità di associati, divisione dei compiti, organizzazione, stabilità del vincolo, indicazione di un programma comune. Il ricorrente, in particolare, osserva che la qualità di fornitore non implica affectio societatis.

Il Collegio osserva che il delitto di associazione finalizzata al commercio di sostanze stupefacenti, previsto dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, può essere ravvisato anche nel vincolo che lega il fornitore agli acquirenti delle sostanze illecite, quando l’attività dei soggetti coinvolti è posta in essere avvalendosi continuativamente e consapevolmente delle risorse dell’organizzazione, con la coscienza di farne parte, in modo tale che l’attività di fornitura e di acquisto della droga rappresenti un contributo causale volontario alla realizzazione del fine di profitto del sodalizio criminoso.

Va tuttavia precisato che l’esistenza dell’associazione non può essere meccanicamente ed automaticamente desunta da una serie di operazioni, sebbene frequenti, di compravendita delle sostanze stupefacenti concluse tra le stesse persone, richiedendosi, da parte dei soggetti coinvolti la consapevolezza di operare in qualità di aderenti all’organizzazione criminale e nell’interesse della stessa.

Nel caso in esame le affermazioni della sentenza sono alquanto sbrigative in ordine alla sussistenza dei requisiti costitutivi dell’associazione e, per quanto concerne il Bu., la sua partecipazione è desunta dalle forniture da lui effettuate, senza una sicura individuazione dell’affectio societatis, pur apoditticamente affermata.

4.5. Il quinto motivo, con cui si deduce "violazione dell’art. 190 c.p.p. segg. e artt. 111, 24 e 27 Cost.", è inammissibile sotto diversi profili. Innanzitutto, perchè non si riesce a cogliere il capo della sentenza a cui le doglianza sono riferite, se all’affermazione di colpevolezza per il delitto associativo o agli episodi di spaccio ritenuti ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73.

In secondo luogo, perchè non viene indicata a quali punti della sentenza è riferita la violazione dell’art. 190 c.p.p., in tema di diritto alla prova, nè v’è possibilità di individuare a quali altri articoli del codice di rito il ricorrente si riferisce con l’indicazione " artt. 190 c.p.p. ss.". Infine, per quanto concerne la conversazioni telefoniche intercettate, non è consentita in sede di legittimità la rilettura nuova e diversa lettura delle conversazioni intercettate.

4.6. Del tutto generica e, perciò, inammissibile è la sesta censura, in tema di diniego della richiesta della circostanza attenuante prevista dal cit. D.P.R., art. 73, comma 5, (tale dovendo intendersi l’indicazione del ricorrente all’attenuante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75), circostanza esclusa dai giudici di merito con motivazione giuridicamente corretta ed indenne da vizi logici.

4.7. Il ricorso va, in conclusione, accolto limitatamente all’affermazione di responsabilità per il delitto associativo, con relativo rinvio al giudice di merito per nuovo giudizio, assorbito l’ultimo motivo relativo alle circostanze attenuati generiche.

5. C.M.R. – condannata alla pena di nove anni e sei mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi A (art. 416 bis c.p.), C ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74) e C-ter ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73), aggravati dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 – ricorre deducendo vizio di motivazione con riferimento ai capi C e C-ter e alla circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, e lamentando la mancanza di risposte alle deduzioni avanzate con l’atto di appello.

5.1. Premesso che, in mancanza d’impugnazione sul capo A) dell’imputazione, la sentenza è divenuta indiscutibile sulla dichiarata colpevolezza per il delitto di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, osserva il Collegio che l’impugnazione è inammissibile con riferimento al capo C-ter. Questa capo d’imputazione è menzionato nella rubrica riassuntiva a pag. 1 del ricorso, senza essere sostenuto da alcuna ragione di doglianza nella parte argomentativa, che si limita a censurare la motivazione relativa all’affermazione di responsabilità per il delitto associativo di cui al D.P.R. cit., art. 74 e per la circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, senza alcun riferimento alla parte della sentenza che, con adeguata e logica motivazione, dichiara la donna responsabile di concorso in vari episodi di reato ex D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73. 5.2. hi ordine al delitto previsto dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74 e all’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, il ricorso è fondato. La sentenza non fornisce adeguate risposte agli specifici motivi d’appello, con riferimento alla consapevole partecipazione dell’imputata non già ad un concorso in episodi di compravendita di droga, ma ad una associazione dedita al commercio di stupefacenti, della quale viene apoditticamente affermata la sussistenza dei requisiti ritenuti necessari dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, senza concreto riferimento agli elementi di fatto idonei a provare l’accordo permanente volto ad un programma indeterminato di commercio illegale di droga, l’organizzazione con carattere di stabilità e ripartizione di ruoli tra gli associati, la consapevolezza dei soggetti coinvolti di contribuire ad attuare il programma criminoso.

Nella sentenza d’appello, inoltre, risultano introdotti elementi di rilevante contraddittorietà, perchè, da un lato, si afferma che il ca., con la partecipazione, dell’imputata, aveva dato vita ad un’autonoma organizzazione dedita al commercio di stupefacenti da cui derivavano illeciti ricavi che approvvigionavano "il clan di appartenenza" diretto dal CA. (pagg. 11 e 12) e, dall’altro, si evidenzia in modo reiterato che il ca. lamentava una situazione di abbandono da parte del CA. e degli affiliati del clan, invocando l’intercessione della C. presso il capo per ottenere persino il danaro necessario a pagare l’onorario dell’avvocato.

5.3. Per quanto concerne la circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit., il ricorso lamenta a ragione che la Corte d’appello non spiega come la C. abbia potuto approvvigionare l’associazione del CA., senza che questi, capo dell’associazione e legato alla donna, ne fosse a conoscenza.

Osserva il Collegio che una volta stabilito che l’associazione dedita al traffico degli stupefacenti faceva capo al Ca. ed era autonoma rispetto all’associazione mafiosa del CA., la sentenza si limita genericamente a ritenere l’approvvigionamento del sodalizio mafioso in modo del tutto presuntivo, senza spiegare in che modo l’attività del ca., coadiuvato dalla C., abbia agevolato l’associazione del CA..

La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio al giudice di merito.

6. G.M., condannato alla pena di sei anni e sei mesi di reclusione e Euro 26.200 di multa per il reato di cui al capo E- septies, deduce violazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73. 6.1. Il ricorso è fondato. Nei motivi d’appello il G. aveva specificamente contestato la possibilità che gli potesse essere attribuito, come aveva fatto la sentenza di primo grado, un ruolo di staffetta o di apripista, in relazione ai tempi dell’operazione illecita ricostruita dai giudici.

La Corte territoriale ha ritenuto che dai tempi delle vicenda, documentata dalle intercettazioni e dal diretto intervento della polizia, non si potesse escludere che "prima del controllo delle FF.OO nei confronti del G., questi abbia fatto da apripista dei complici, i quali verosimilmente decidevano di cambiare percorso".

Rileva il Collegio che tale conclusione appare fondata sull’individuazione di grave e univoca idoneità indiziante nella "preoccupazione esternata dai soggetti coinvolti nel viaggio in esame allorquando i predetti venivano a conoscenza del controllo operato dalla FF.OO. nei confronti dell’autovettura del G.".

La valorizzazione di un dato di opinabile apprezzamento, come un sentimento di "preoccupazione" che può avere le più svariate origini e motivazioni, non appare compatibile con criterio dettato dal legislatore per la legittimità della sentenza di condanna, che deve essere pronunciata "se l’imputato risulti colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio" ( art. 533 c.p.p., comma 1, come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 5).

La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio al giudice di merito.

7. M.C. – condannato dalla Corte d’appello per il reato di cui al capo F-bis ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73), ritenuto in continuazione con fatto precedentemente giudicato, alla pena di un anno e sei mesi di reclusione e Euro 3.000 di multa (complessivamente alla pena di sette anni e 4 mesi di reclusione e Euro 32.000 di multa) – deduce con il primo motivo l’inutilizzabilità delle conversazioni telefoniche di cui al Decreto n. 121 del 2003: il decreto di convalida del GIP, che deve intervenire entro le 48 ore, non reca la firma del cancelliere attestante la data del deposito, sicchè non è provato che il decreto sia intervenuto nel termine stabilito, con la conseguenza che il decreto deve ritenersi caducato e le intercettazioni inutilizzabili.

7.1. Il motivo è infondato, come correttamente hanno già ritenuto i giudici di merito.

L’art. 111 c.p.p., comma 2 dispone che "se l’indicazione della data di un atto è prescritta a pena di nullità, questa sussiste soltanto nel caso in cui la data non possa stabilirsi con certezza in base ad elementi contenuti nell’atto medesimo o in atti a questo connessi".

Pur mancando la sottoscrizione del cancelliere, sul decreto vi è l’attestazione dell’avvenuto deposito con la data ed il timbro dell’ufficio. Inoltre vi è l’attestazione di cancelleria, che ha estratto copia del tabulato informativo che regola il passaggio dei fascicoli da cui risulta che il fascicolo è stato restituito dall’ufficio GIP alla Procura il 24/12/2003 ore 13, prima cioè del decorso della 48 ore, sicchè il provvedimento di convalida deve ritenersi tempestivo.

7.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 268 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 e relativo vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello fondato la responsabilità dell’imputato su una conversazione telefonica non trascritta mediante perizia e di cui non furono acquisiti i brogliacci sull’accordo delle parti. Si lamenta ancora che la Corte d’appello attribuisce al M. una conversazione telefonica, che invece intercorre tra Ni. e Gu..

Quest’ultima censura è inammissibile in quanto attiene a valutazioni di fatto, non sindacabili in questa sede in presenza di una adeguata e plausibile motivazione.

L’altra doglianza è infondata, giacchè la prova è costituita dalla registrazione e non già dalla perizia nè dal brogliaccio, cosicchè tutte le relative contestazioni sono ininfluenti.

7.3. Inammissibile è il terzo motivo, che deduce violazione dell’art. 192 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, assumendo il ricorrente che dalle conversazioni telefoniche intercettate non è possibile stabilire se il M. effettivamente ricevette la droga in quantità idonea a escludere l’uso esclusivamente personale.

Trattasi di valutazioni di fatto alternative rispetto alla ricostruzione operata dai giudici di merito, che hanno decrittato il linguaggio simulato degli interlocutori telefonici (tra cui il M.), dandone conto con motivazione plausibile, che si sottrae alla sindacabilità ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

7.4. Infondata è la censura, dedotta per violazione degli artt. 192, 268 e 526 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5 e relativo vizio di motivazione. Osserva il ricorrente che la Corte territoriale, nell’escludere il cit. D.P.R., art. 73, comma 5 non ha tenuto conto della condizione di tossicodipendente e che, perciò, una parte dei quantitativi era utilizzata per fini personali.

La censura è inammissibile perchè attiene a valutazione di merito, avendo il giudice d’appello, senza ignorare lo stato di tossicodipendenza del M., ritenuto che la frequenza e sistematicità della commercializzazione escludono la ricorrenza del fatto di lieve entità. 7.5. Non merita accoglimento neppure il motivo con cui il ricorrente denuncia l’omessa motivazione sul diniego della valutazione di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti e sulla recidiva: in presenza di un motivo d’appello assolutamente generico, e perciò inammissibile, la Corte territoriale non aveva alcun obbligo di risposta.

7.6. Infondato è anche l’ultimo motivo (violazione degli artt. 133 e 649 c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 e relativo vizio di motivazione) con cui si censura che, pur avendo la sentenza riconosciuto la continuazione con la sentenza 22/12/2004, ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta di ne bis in idem.

L’aver affermato la continuazione implica da parte della Corte d’appello il rigetto della richiesta di ne bis in idem. Va, peraltro, rimarcato che nel presente procedimento l’imputato risponde di una serie di operazioni di compravendita di droga, mentre nella sentenza datata 22/12/2004 si prende in considerazione un solo episodio illecito, l’ultimo prima dell’arresto: non poteva pertanto ricorrere bis in idem.

8. N.F. – condannato alla pena di quattro anni di reclusione e Euro 18.000 di multa per il reato di cui al capo E-ter ( art. 110 c.p., e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73) – deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione per essergli stata addebitata la mera partecipazione, con ruolo di staffetta, ad un trasporto di droga in data 14.11.2003. 8.1. Il ricorso è fondato. Osserva il Collegio che alle specifiche doglianze sollevate dall’appellante la Corte territoriale ha risposto in maniera elusiva, non avendo plausibilmente spiegato l’addebitato contributo di partecipazione al trasporto di droga.

La partecipazione del N. – in mancanza di elementi derivanti da intercettazione telefonica e in presenza di un esito negativo delle perquisizione veicolare, effettuata nell’immediatezza del fatto – appare fondata su di una ricostruzione accusatoria, che da ipotesi plausibile non appare essere stata riscontrata come dato reale. E ciò tanto più che la sentenza indica come grave e univoco indizio di colpevolezza la preoccupazione suscitata nei soggetti coinvolti nell’affare illecito dalla notizia del controllo operato dalla polizia sul veicolo del N.. Alle osservazioni sopra formulate con riferimento all’analoga motivazione utilizzate per il G. (v. 6.1.), deve aggiungersi che proprio dalla ricostruzione della sentenza emerge che gli altri "soggetti coinvolti nell’affare illecito", impegnati nel trasporti della droga, avevano ben poco da preoccuparsi sapendo che il veicolo del N. poteva essere controllato senza alcun rischio.

La sentenza va annullata con rinvio al giudice di merito.

9. S.M. – condannato alla pena di due anni e due mesi di reclusione e Euro 27.000 di multa per il reato di cui al capo F-bis ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73) – deduce l’errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., evidenziando l’arbitrarietà della interpretazione data dai giudici d’appello a conversazioni che in sede di riesame del provvedimento cautelare, erano state interpretate come lecite.

9.1. Il ricorso è fondato. La sentenza attribuisce a due conversazioni dell’imputato una interpretazione univoca senza fornire adeguata e persuasiva motivazione.

L’interpretazione fornita dalla Corte dei termini "cavallo e veterinario", indicati come dissimulanti droga appare soggettiva, tanto più che uno dei due interlocutori lavorava nell’ambito degli allevamenti di cavalli ed era stato in contatto con un veterinario.

Soprattutto non viene indicato alcun dato esterno che conforti tale interpretazione, nè la circostanza che i termini delle conversazione non apparivano consoni alla situazione di fatto è sufficiente per inferire che si trattasse di droga. La spiegazione sul punto è, pertanto, priva di argomenti logicamente plausibili, tanto più che, in sede cautelare, i giudici erano giunti ad una diversa conclusione sulla base degli stessi elementi. E’ vero che le valutazioni operata in sede di provvedimenti cautelari non vincolano il giudice della cognizione di merito, ma è altrettanto vero che si ha il dovere di spiegare logicamente le ragioni per cui ritiene di valutare diversamente gli stessi elementi di fatto.

La sentenza va, perciò, annullata con rinvio al giudice di merito.

10. Il ricorso del pubblico ministero nei confronti degli imputati As.An., As.Vi., Ca.Ro., G. S.A., Mo.Vi. e V.C., assolti dalla Corte d’appello, va dichiarato inammissibile, in accoglimento della motivata richiesta del Procuratore generale d’udienza.

Sotto la rubrica del vizio di motivazione, in realtà il ricorrente pubblico propone motivi di fatto, non apprezzabili in questa sede di legittimità, e richiede a questa Corte una rilettura e una nuova valutazione degli elementi probatori, con particolare riferimento al contenuto delle conversazioni intercettate, il cui testo è inutilmente trascritto nel ricorso, essendo inibito al giudice di legittimità procedere all’apprezzamento degli elementi probatori.

Più che denunciare vizi logici di motivazione, il pubblico ministero illustra, come base per le censure, la sua ricostruzione dei fatti e la sua valutazione degli elementi probatori a carico egli imputati assolti. Dalle trascrizioni delle conversazioni egli deduce: il ruolo del Gr. di partecipe al sodalizio; l’adesione della Ca. alle finalità dell’associazione con lo scopo di contribuire al programma criminoso; la consapevolezza del V. della finalizzazione al commercio della droga del denaro da lui prestato;

il riferimento del Mo., nel colloquio con Bu., ad affari illeciti attinenti alla droga; il coinvolgimento di As.

A. e As.Vi. nel commercio degli stupefacenti.

Quale che sia il grado di plausibilità delle prospettazioni del ricorrente, nessuna valutazione questa Corte può sovrapporre all’apprezzamento operato dai giudici di merito. Nè, d’altra parte, nella valutazione della Corte d’appello degli elementi probatori, espressa con motivazione completa e indenne da vizi logici, è stato evidenziato alcuno dei vizi per cui è dato ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 601 c.p.p., comma 1, lett. e).
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di G. M., N.F. e S.M. e, limitatamente al reato di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, nei confronti di A.S., B.A., Bu.Ro. e C.M.R., nonchè, nei confronti della C., anche in ordine alla circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania.

Rigetta nel resto i ricorsi di A.S., B. A., Bu.Ro. e C.M.R..

Rigetta i ricorsi di Bl.Ag. e M.C., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero nei confronti di As.An., As.Vi., C. R., Gr.Sa.Al., Mo.Vi. e V. C..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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