Cons. Stato Sez. IV, Sent., 10-05-2011, n. 2765 Sospensione dei lavori

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Giova innanzitutto evidenziare che la Gessica 90 S.r.l., in seguito divenuta A.C.E. S.r.l., in qualità di proprietaria di un fondo in zona agricola di circa otto ettari ubicato nel territorio del Comune di Ariccia, ha presentato all’Amministrazione Comunale nel corso dell’anno 2003 un progetto denominato "Programma integrato di intervento" a’ sensi della legge della Regione Lazio 26 giugno 1997 n. 22, avente ad oggetto la variazione della destinazione di zona per realizzare nel fondo medesimo interventi residenziali, un centro commerciale, uffici privati e pubblici, nonché un centro sportivo per circa 11.000 mq.

Con deliberazione n. 203 dd.17 ottobre 2003 la Giunta Comunale di Ariccia ha espressamente riconosciuto la natura infrastrutturale del progetto surriferito "a condizione che sia previsto nella sua attuazione a carico della società proponente e cessione alla pubblica amministrazione, la realizzazione del centro sportivo e del parco attrezzato, oltre che di tutte le aree previste nel progetto", e ha quindi inserito il progetto medesimo nel Patto Territoriale delle Colline Romane.

A seguito di ciò, l’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane, costituita su iniziativa della Provincia di Roma, ha attestato la conformità dell’intervento agli indirizzi del Patto.

A sua volta, con deliberazione n. 65 del 16 dicembre 2003 il Consiglio Comunale di Ariccia ha adottato la necessaria variante di P.R.G. riconoscendo la natura infrastrutturale del progetto "secondo quanto già definito dalla delibera di G.C. n. 203 del 17 ottobre 2003 e secondo le condizioni dettate nella stessa".

Con susseguente delibera dello stesso Consiglio n. 25 del 3 giugno 2004 è stato quindi approvato lo schema di convenzione tra Amministrazione Comunale e A.C.E. che prevedeva all’art. 7 "la realizzazione del centro sportivo a cura e spese della società richiedente…senza che ciò comporti scomputo agli oneri dovuti".

In data 15 marzo 2005 è stato sottoscritto l’Accordo di Programma tra la Regione Lazio ed il Comune di Ariccia, recante l’approvazione dell’intervento e della relativa variante urbanistica.

Tuttavia, con deliberazione n. 24 del 13 aprile 2005 il Consiglio Comunale di Ariccia non ha approvato nella sua interezza l’Accordo di Programma, ma ha stralciato dallo stesso l’anzidetto art. 7 , recante l’obbligo di realizzazione del centro sportivo.

In data 17 ottobre 2005 è stata sottoscritta la convenzione urbanistica tra il Comune di Ariccia e la A.C.E. S.r.l., nel cui testo non risulta a sua volta recepita la disposizione del predetto Accordo di Programma; e, sempre in data 17 ottobre 2005 sono stati rilasciati ad A.C.E. i permessi costruire nn. 70-77 aventi ad oggetto la realizzazione delle previste opere di urbanizzazione, nonché del complesso commerciale e degli edifici residenziali.

2.1.Con ricorso sub R.G. 2852/2008 il Comune di Ariccia ha proposto appello avverso la sentenza n. 1 dd. 2 gennaio 2008 resa dalla Sezione 1-quater del T.A.R. per il Lazio e relativa alle impugnative ivi proposte dalla ACE S.r.l. per l’annullamento di una serie di provvedimenti adottati dall’Amministrazione Comunale di Ariccia e riguardanti l’esecuzione dei lavori necessari alla realizzazione del complesso commerciale, direzionale e residenziale previsto dal programma integrato di intervento predisposto dalla medesima A.C.E. S.r.l. approvato con l’accordo di programma in data 15 marzo 2005, ratificato con delibera del Consiglio Comunale di Ariccia n. 34 dd.13 aprile 2005 ed approvato infine con decreto del Presidente della Giunta Regionale del Lazio n. 292 dd. 22 luglio 2005.

Trattavasi, segnatamente, delle ordinanze dei dirigenti comunali di area n. 128 del 21 luglio 2006 (sospensione lavori e di rimessa in pristino dello stato dei luoghi), e n. 204 del 27 marzo 2007 (annullamento dei permessi di costruire nn. 70-77).

La sentenza resa dal giudice di primo grado recava le seguenti statuizioni:

a) per quanto riguarda il ricorso principale, l’accoglimento dell’impugnativa avverso l’ordinanza del Dirigente responsabile n. 128 del 21 luglio 2006 che aveva ingiunto alla Società ricorrente di sospendere i lavori e rimettere in pristino lo stato dei luoghi per i permessi di costruire rilasciati il 17 ottobre 2005 per i lotti edificabili del comprensorio; la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnativa avverso la nota n. 19388/06 del 24 luglio 2006 mediante la quale lo stesso dirigente aveva dato notizia dell’avvio del procedimento per l’adozione dei provvedimenti conseguenti all’accertamento di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia in questione;

b) la dichiarazione di inammissibilità dei primi motivi aggiunti, proposti contro la nota di carattere interno del predetto dirigente n. 251/07 dd. 5 gennaio 2007, indirizzata al comandante della Polizia municipale e riguardante le opere accertate e già oggetto di sequestro in data 3 gennaio 2007;

c) la dichiarazione di improcedibilità dei secondi motivi aggiunti (peraltro, incidentalmente reputati fondati) rivolti nei confronti anche del Ministero per i beni e le attività culturali, della Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio, nonché dell’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane S.c.a r.l. e finalizzati all’annullamento della nota n. 6665/07 del 12 marzo 2007, recante l’ordine di sospensione dell’efficacia dei permessi di costruire predetti;

d) l’accoglimento dei terzi motivi aggiunti, proposti non soltanto nei riguardi di tutte le Amministrazioni summenzionate ma anche nei confronti della Regione Lazio e finalizzati all’annullamento della determinazione dirigenziale n. 204 del 27 marzo 2007, a sua volta avente ad oggetto l’annullamento in autotutela dei predetti permessi di costruire;

e) il rinvio ad altra udienza, per la insussistenza dei termini a difesa, dell’esame dei quarti motivi aggiunti, proposti a loro volta avverso la nota n. 12374 del 17 maggio 2007, mediante la quale il medesimo dirigente comunale ha invitato e diffidato la A.C.E. S.r.l. al rispetto delle prescrizioni dell’ordinanza cautelare n. 5209 dd. 14 settembre 2006, resa sempre dalla Sez. 1-quater del T.A.R. per il Lazio, disponendo che, in mancanza, i lavori di cui ai permessi di costruire già rilasciati non potevano essere riavviati, restando consentiti unicamente le indagini e i sondaggi archeologici e gli interventi di consolidamento;

f) l’accoglimento, infine, della domanda risarcitoria ivi proposta dall’A.C.E. S.r.l., con assegnazione al Comune di Ariccia del termine di sessanta giorni per proporre a tale Società, a’sensi dell’ art. 35 del D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, il pagamento di una somma di danaro secondo i criteri stabiliti dallo stesso giudice di primo grado.

Va sin d’ora opportunamente evidenziato che il giudice di primo grado ha emanato le suesposte statuizioni disattendendo, innanzitutto, le eccezioni pregiudiziali sollevate dal’Amministrazione Comunale e rilevando, in particolare, che se l’impugnativa proposta con il ricorso principale avverso la nota n. 19388/06 era invero inammissibile trattandosi di atto endoprocedimentale, poteva essere viceversa disaminata nel merito l’impugnativa proposta da A.C.E. avverso l’ordinanza n. 128/06, la quale è stata quindi ritenuta fondata per la riscontrata violazione dell’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento..

Lo stesso giudice di primo grado ha quindi disatteso le diverse eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Amministrazione Comunale in ordine ai terzi motivi aggiunti di ricorso, i quali sono stati accolti in quanto il provvedimento di annullamento dei titoli edilizi sarebbe stato adottato sulla scorta di presupposti di fatto e di diritto insussistenti.

Il giudice di primo grado ha – da ultimo – affermato che non poteva essere esaminata la nuova questione, prospettata con memoria dalla difesa del Comune e riguardante la circostanza di un incendio boschivo verificatosi in precedenza e reputata dall’Amministrazione Comunale come ostativa al rilascio dei titoli edilizi: e ciò in quanto il giudizio di annullamento proposto da Ace doveva investire la legittimità del provvedimento impugnato esclusivamente in relazione ai contenuti che connotavano il provvedimento stesso.

2.2. Nel proprio atto di appello la difesa del Comune ha puntualmente replicato alle argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado e, per quanto segnatamente attiene al risarcimento del danno, ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in quanto la relativa richiesta sarebbe ricollegabile ad una presunta violazione della convenzione tra le parti.

L’Amministrazione Comunale ha – altresì – comunque contestato la sussistenza dei presupposti per la proposizione a suo carico dell’azione risarcitoria.

3.1. Con ricorso sub R.G. 368 del 2009 il Comune di Ariccia ha proposto appello avverso la sentenza della Sez. I-quater T.A.R. per il Lazio n. 4256 dd. 15 maggio 2008, con la quale è stato disaminato e accolto il quarto ordine di motivi aggiunti presentati dalla A.C.E. s.r.l. contro la nota del dirigente responsabile di area n. 12374 in data 17 maggio 2007, relativa sia al rispetto delle prescrizioni dell’ordinanza cautelare n. 5209 dd. 14 settembre 2006, emessa sempre dalla Sezione 1-quater del T.A.R. per il Lazio, sia al divieto di riavviare i lavori edilizi già resi oggetto del surriferito giudizio di appello sub R.G. n. 2852 del 2008.

La statuizione di accoglimento, adottata dal giudice di primo grado previa estromissione dal giudizio della Regione Lazio, è stata motivata in riferimento al fatto che il Comune non avrebbe potuto vietare la prosecuzione di tutti i lavori fino all’ultimazione delle indagini archeologiche nel sito avendo la competente Sovrintendenza espressamente autorizzato la prosecuzione dei lavori per alcune aree, nel mentre la mancata verifica dei reciproci doveri, prospettata dall’Amministrazione Comunale, riguarderebbe l’applicazione delle prescrizioni della convenzione, ossia una questione che sfuggirebbe alle competenze proprie dell’Ente locale.

3.2. L’Amministrazione Comunale ha riproposto nel proprio atto di appello l’eccezione di improcedibilità, ovvero di inammissibilità dei motivi aggiunti predetti, rilevando in tal senso che al momento della loro notificazione era in corso la procedura conciliativa, nell’ambito della quale la parte privata aveva assunto l’impegno di non riavviare i lavori.

La medesima Amministrazione ha, peraltro, contestato anche nel merito le statuizioni rese dal giudice di primo grado sostenendo che, in effetti, mancavano le condizioni precedentemente poste dal T.A.R. in sede cautelare ai fini della realizzazione delle opere previste.

Per quanto attiene alla richiesta risarcitoria, infine, ha eccepito nuovamente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e la sussistenza dei presupposti per il risarcimento.

4.1. Con ricorso sub R.G. n. 4578/2009 il Comune di Ariccia ha proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. Lazio, Sez. I-quater n. 576 dd. 5 maggio 2009, relativa all’accoglimento del ricorso della ACE s.r.l. per l’esecuzione della sentenza dello stesso T.A.R. n. 1 dd. 2 gennaio 2008, oggetto del predetto appello sub R.G. 2852 del 2008 in quanto all’epoca quest’ultima pronuncia non risultava ancora sospesa dal Consiglio di Stato.

Nella sentenza n. 576 del 2009 testè citata si è infatti ritenuto che la mancata notifica del ricorso alle parti interessate non assumeva rilevanza, attesa la particolare disciplina delle procedure di ottemperanza, mentre si ravvisavano i presupposti per la nomina di un consulente tecnico ai fini di valutare la somma da corrispondere alla società ricorrente a titolo di risarcimento del danno, tenuto conto che, anche dopo la previa notifica della diffida ad adempiere, il Comune non aveva formulato alcuna proposta al riguardo.

4.2. Nel proprio atto di appello l’Amministrazione Comunale ha sostenuto che, trattandosi di sentenza non passata in giudicato, la mancata notificazione dell’atto introduttivo del giudizio costituirebbe . per contro – un difetto insanabile del contraddittorio.

L’Amministrazione Comunale ha pure dedotto il vizio di procedura costituito dalla tardiva notifica dell’avviso di fissazione della camera di consiglio, e ha affermato di non dovere alcuna somma a titolo di risarcimento del danno, stante l’asserita nullità dell’atto di acquisto dei terreni da parte della società ricorrente e stante, altresì, il sopravvenire di un successivo atto di annullamento dei permessi di costruire.

5.1.Con ricorso sub R.G. 830 del 2010 il Comune di Ariccia ha proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, n.11246 dd. 17 novembre 2009, con la quale sono stati accolti il ricorso e i motivi aggiunti proposti da ACE s.r.l. avverso: a) la deliberazione della Giunta Comunale n. 113 del 9 maggio 2008, relativa all’integrazione del "Catasto degli incendi boschivi e delle aree boscate e dei pascoli percorsi dal fuoco", istituito con delibera della stessa Giunta n. 72 del 31 marzo 2008, anch’essa impugnata, recependo la nota del Dirigente d’Area n. 11706 del 9 maggio 2008 e prendendo atto che il terreno sito nell’ambito comunale e di proprietà della A.C.E. S.r.l. risulterebbe essere stato percorso dal fuoco in data 9 agosto 2003; b) la deliberazione del Consiglio Comunale n. 66 del 29 luglio 2008, mediante la quale è stato approvato, ai sensi dell’art. 10 della L. 21 novembre 2000, n. 353 l’elenco dei soprassuoli già percorsi dal fuoco nell’ultimo quinquennio, per la parte relativa al terreno di proprietà della società ricorrente.

Il giudice di primo grado ha disaminato la disciplina legislativa in tema di incendio boschivo e dei conseguenti divieti edificatori, rilevando che il fondo di proprietà di A.C.E. risulterebbe coltivato ad ulivi e che pertanto non rientrerebbe nel concetto di "bosco"; sempre secondo il medesimo giudice mancherebbe, comunque, nella specie una prova certa sulla estensione dell’incendio su di un’area circoscritta nell’ambito della proprietà della medesima A.C.E.

5.2. Nel proprio atto di appello il Comune di Ariccia ha innanzitutto formulato una serie di deduzioni pregiudiziali, rispettivamente attinenti: a) alla omessa pronuncia del T.A.R. sull’eccezione di tardività del ricorso principale di primo grado; b) alla omessa pronuncia del T.A.R. sull’eccezione di inammissibilità del primo motivo del ricorso principale per carenza di interesse; c) sul difetto di giurisdizione, avendo il T.A.R. formulato un giudizio tecnico discrezionale sull’estensione dell’incendio, con ciò formulando un sindacato di merito sulle valutazioni spettanti alla pubblica amministrazione.

L’Amministrazione Comunale ha contestato, quindi, la fondatezza delle conclusioni del primo giudice sia in ordine al fatto storico dell’incendio, sia in ordine all’applicazione al caso concreto della L. n. 353 del 2000.

6.1. Da ultimo, con ricorso sub R.G. 831 del 2009 il Comune di Ariccia ha proposto appello avverso la sentenza del T.A.R. Lazio, Sez. II-bis n. 11242 dd. 17 novembre 2009, con la quale sono stati accolti il ricorso e i motivi aggiunti di ricorso proposti dalla A.C.E. s.r.l. avverso: a) la nota del Dirigente d’Area n. 19628 dd. 25 luglio 2008 relativa all’avvio del procedimento di verifica di legittimità e/o annullamento in autotutela dei permessi di costruire rilasciati nel 2005 alla medesima A.C.E. S.r.l. ai fini della realizzazione di un centro polifunzionale, in attuazione di un programma integrato di intervento, nonché di tutti gli atti pregressi; b) della nota dello stesso dirigente n. 20174 dd. 31 luglio 2008, relativa alla immediata cessazione, in via cautelare, dei lavori autorizzati con i predetti titoli abilitativi; c) di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale, ivi compresi quelli oggetto della pronuncia del T.A.R. impugnata dalla stessa A.C.E. con l’anzidetto appello sub R.G. 830 del 2010; d) della determinazione del medesimo Dirigente d’Area n. 797 dd. 8 ottobre 2008 recante l’annullamento in autotutela dei permessi di costruire predetti.

Il giudice di primo grado ha accolto le censure proposte da A.C.E. S.r.l. con argomentazioni corrispondenti a quelle dianzi esaminate in relazione al ricorso in appello proposto sub R.G. 830 del 2010.

6.2. L’appellante Amministrazione Comunale, a sua volta, ha riproposto a fondamento dei propri motivi di impugnazione i medesimi argomenti già esposti al § 5.2.

7. Alla pubblica udienza del 4 giugno 2010 tutti i sopradescritti cinque ricorsi sono stati trattenuti per la decisione.

8.1. Con decisione n. 4457 dd. 9 luglio 2010 questa Sezione ha previamente disposto la riunione di tutti i ricorsi anzidetti "in quanto oggettivamente e soggettivamente connessi, riguardando tutti un’unica, articolata vicenda relativa alla attuazione di un programma integrato di intervento nel Comune di Ariccia".

Sempre in via preliminare, la Sezione ha pure disposto l’estromissione dal

giudizio della Regione Lazio, "non venendo in discussione questioni specificamente attinenti a provvedimenti di detta Amministrazione".

8.2. La Sezione, quindi:

1) ha accolto l’appello proposto sub R.G. 2852/2008 e, per l’effetto, in riforma della sentenza ivi impugnata, ha respinto il ricorso proposto in primo grado;

2) pronunciando sull’appello proposto sub R.G. 368/2009, ha dichiarato improcedibile il ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado e, per l’effetto, ha annullato senza rinvio, la sentenza ivi appellata;

3) pronunciando sull’appello proposto sub R.G. 4578/2009, ha dichiarato improcedibile il ricorso proposto in primo grado e, per l’effetto, ha annullato senza rinvio la sentenza ivi appellata;

4) ha accolto l’appello proposto sub R.G. 830/2008 e, per l’effetto, in riforma della sentenza ivi impugnata, ha respinto il ricorso proposto in primo grado;

5) pronunciando sull’appello proposto sub R.G. 831/2009 ha dichiarato improcedibile il ricorso proposto in primo grado e, per l’effetto, ha annullato senza rinvio la sentenza ivi appellata.

6) ha condannato la soccombente ACE s.r.l. e l’interveniente Agenzia Sviluppo Provincia S.c.a.r.l. (nella proporzione rispettivamente di 2/3 e di 1/3 per ciascuna) a rifondere in favore dell’appellante Comune di Ariccia le spese di ambedue i gradi di giudizio, liquidate nella misura dimezzata di complessivi Euro 15.000,00 (quindicimila/00) oltre agli accessori di legge, dichiarando interamente compensate le spese di entrambi i gradi di giudizio per il Ministero per i beni e le attività culturali e per la Regione Lazio.

8.3. Giova a questo punto rilevare che, per quanto segnatamente attiene al ricorso proposto sub R.G. 2852 del 2008, la Sezione ha innanzitutto evidenziato che il giudice di primo grado aveva accolto le censure proposte in primo grado avverso l’ordinanza del Dirigente d’Area n. 128 del 2006 configurando la stessa quale provvedimento con un duplice contenuto e sottolineando l’irragionevolezza della contemporanea sospensione dei lavori e della rimessa in pristino, posto che la rimozione delle opere già realizzate implicherebbe comunque l’impossibilità di prosecuzione dei lavori.

La Sezione ha poi rimarcato che, sempre secondo l’apprezzamento del primo giudice, sarebbe stato violato l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, a’ sensi dell’art. 7 della L. 7 agosto 1990, n. 241, con conseguente applicazione nel caso di specie della disposizione del successivo art. 21-octies che segnatamente esclude l’annullamento dell’atto il cui contenuto si dimostri che non avrebbe potuto essere diverso.

Ciò posto, ad avviso della Sezione, dalla lettura dello stesso provvedimento impugnato ben emerge che lo stesso è stato adottato sulla base di due diverse ragioni: 1) in quanto i lavori erano stati avviati senza la preventiva esecuzione dei sondaggi archeologici imposti dall’art.3 dell’Accordo di Programma; 2) perché la società aveva nominato un proprio Direttore dei lavori ed un proprio Collaudatore,nel mentre tali nomine erano riservate all’Amministrazione Comunale come previsto dagli artt. 6 e 8 della Convenzione medesima.

La Sezione ha quindi evidenziato che, "in punto di fatto, la effettiva esistenza di tali ragioni ostative all’inizio dei lavori è stata confermata dalla stessa ordinanza del T.A.R. per il Lazio in data 14 settembre 2006 che aveva accolto "nei limiti di cui in motivazione" l’istanza di sospensiva proposta dalla società interessata, esclusivamente "al fine di consentire le necessarie ispezioni per indagini archeologiche nonché di permettere alle parti di verificare i termini dei reciproci doveri (tra i quali quelli inerenti la funzione di direzione dei lavori) nel quadro del patto territoriale di zona, cui pure le stesse hanno aderito". In tale prospettiva, specie in considerazione della necessità di prevenire possibili danni a beni archeologici per l’omessa preventiva esecuzione dei sondaggi previsti, il Comune non poteva omettere di attivarsi immediatamente con un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori, nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti all’Ente locale dall’art. 27 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non essendo sufficiente per far fronte all’urgenza di intervenire il solo provvedimento ripristinatorio, di esecuzione non immediata, previsto dal successivo art.31 dello stesso decreto. Né valgono le obiezioni formulate sul piano meramente formale dalla società resistente, atteso che non è questione, in questo caso, di una assenza di permesso ma, semmai, di una rilevante difformità rispetto alle modalità di esecuzione dello stesso; a ciò va aggiunto l’inadempimento rispetto all’obbligo di dare applicazione alla norma che riserva al Comune la nomina del direttore dei lavori, anch’essa evidentemente preordinata a salvaguardare l’interesse pubblico connesso alla corretta esecuzione dei lavori. La nomina precedentemente effettuata dalla società, d’altronde, non poteva essere considerata come tacitamente accettata dal Comune – come obiettato dalla medesima società – una volta stabilita pattiziamente una precisa regolamentazione della fattispecie. Contrariamente a quanto statuito dal primo giudice, dunque, la lamentata violazione di norme sul procedimento non poteva, nella specie, comportare l’annullamento dell’ordinanza in esame, ai sensi del citato art. 21-octies, dovendosi ritenere dimostrato che, considerando le preminenti esigenze di immediato intervento da parte dell’Amministrazione preposta alla tutela del territorio, il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Tale statuizione deve essere, pertanto, annullata in accoglimento del motivo d’appello dedotto al riguardo" (cfr. pag. 19 e ss. della decisione n. 4457 del 2010).

8.4. Sempre per quanto attiene al ricorso proposto sub R.G. 2852 del 2008, va evidenziato che il giudice di primo grado aveva ritenuto fondata l’impugnativa ivi proposta da A.C.E. con i terzi motivi aggiunti di ricorso e proposta avverso la summenzionata ordinanza n. 204 del 2007 recante l’annullamento dei permessi di costruire nn. 70 – 77, ritenendo che il ricorso all’autotutela non risultasse sufficientemente giustificato dai motivi indicati nell’ordinanza medesima.

Secondo la Sezione, viceversa, doveva essere disattesa l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dei motivi aggiunti predetti sollevata dal Comune appellante sul presupposto dell’intervenuta decadenza dei permessi di costruire predetti, e ciò in quanto, se è vero che la decadenza stessa "avviene "di diritto" al verificarsi dei presupposti di legge (art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) e la pronuncia di decadenza ha natura ricognitiva con effetto retroattivo, resta comunque fermo che nel caso di specie non è stato adottato, sia pure per le ulteriori ragioni che saranno di seguito trattate, il necessario atto formale dell’Amministrazione in proposito (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2007 n. 5228). Nel merito sono, invece, da condividere i motivi di appello che mettono in evidenza le ragioni che hanno effettivamente giustificato l’esercizio del potere di autoannullamento da parte del Comune riguardanti, da un lato, la non conformità del progetto della società interessata alle disposizioni della citata legge della Regione Lazio n. 22 del 1997 e, comunque alle procedure del Patto Territoriale delle Colline Romane; dall’altro la illegittimità dei permessi di costruire per l’avvenuto stralcio dell’art. 7 della convenzione originaria, inerente alla realizzazione del centro sportivo, con sostanziale violazione dell’Accordo di Programma. Si rende preliminarmente necessario sgombrare il campo dalle obiezioni di carattere formale delle controparti, accolte dal primo giudice, sollevate con riferimento al principio del "contrarius actus", sul presupposto che anche dopo il predetto stralcio l’intervento avrebbe mantenuto il necessario carattere infrastrutturale e l’accordo di programma già sottoscritto il 15 marzo 2005 non avrebbe subito alcuna modifica, non venendo meno gli obiettivi previsti. In primo luogo va puntualizzato che il provvedimento in esame riguarda propriamente l’annullamento di permessi di costruire, ossia gli atti di competenza esclusiva dell’Organo dell’Ente locale al quale viene in particolare attribuita la responsabilità della corretta gestione dell’attività edilizia sul suo territorio. In secondo luogo, non può non rimarcarsi che nell’ambito della complessa e articolata motivazione del provvedimento in discorso, si è pure evidenziato (pagg. 9 e 10) che il Comune di Ariccia ha avviato un procedimento di "rivisitazione" della programmazione urbanistica del territorio, ottenendo anche un contributo al detto fine dalla Regione ed in questo quadro ha revocato le varianti generali adottate nel 2003, nonché l’adesione prestata al ricordato Patto Territoriale delle Colline Romane. In terzo luogo, le ragioni di annullamento addotte, oltre a riportarsi al complesso delle valutazioni necessarie per tale "rivisitazione", ed alla stessa legittimità dell’Accordo di Programma – che si assume posto in essere senza che ne sussistessero i presupposti stabiliti dall’art. 2, comma 3, lettera a) della ripetuta legge regionale n. 22 del 1997 – si ricollegano a motivi di illegittimità e di pubblico interesse che appaiono in concreto esattamente evidenziati. A tal proposito, come sottolineato nell’appello, deve convenirsi che il programma integrato di intervento era caratterizzato proprio dalla clausola della realizzazione da parte della società proponente, a proprie cure e spese, del centro sportivo da cedere al Comune, oltreché dalla realizzazione di fabbricati abitativi. La connotazione di un intervento "integrato" – a suo tempo ritenuta decisiva per disporre la stessa variante urbanistica – si rapportava, dunque, alla presenza non solo di strutture di natura residenziale, ma anche e, soprattutto e inscindibilmente, alla realizzazione di un complesso di interesse pubblico, a servizio della collettività: in relazione a ciò, come ricordato sopra, la Giunta Comunale aveva espressamente condizionato il riconoscimento della natura infrastrutturale del progetto alla attuazione della parte dello stesso relativa al centro sportivo, mediante la delibera n.203 del 2003, fatta propria dal Consiglio Comunale con la delibera di variante urbanistica n. 65 del 2003, successivamente approvata in sede di Accordo di programma dalla Regione. In tale situazione non appare, invero, in alcun modo coerente lo stralcio dell’art. 7 della convenzione, conseguente alla delibera del Consiglio comunale n. 24 del 13 aprile 2005, che denota una evidente contraddizione interna nell’attività dell’Ente locale ma non può, comunque, comportare un mutamento sostanziale della natura del programma integrato di intervento (di cui ha reso inattuabili le previsioni nel loro complesso) facendo intravedere, piuttosto, profili di responsabilità di diversa natura, non sindacabili in questa sede. Né appare sostenibile la tesi, esposta nella sentenza appellata, secondo cui lo stralcio in parola avrebbe "semplicemente regolato in maniera differente i rapporti convenzionali" senza incidere sul progetto approvato che sarebbe rimasto immutato. E’ evidente, infatti, che la condizione essenziale per l’approvazione del programma era appunto quella della realizzazione del previsto centro sportivo da parte della società proponente "a proprie cure e spese",e che la eliminazione di tale parte del progetto è suscettiva di stravolgere sotto diversi profili le valutazioni inerenti al soddisfacimento degli interessi pubblici e le specifiche caratteristiche dell’iniziativa progettata ed approvata. Nel provvedimento impugnato sono, inoltre, richiamati gli interessi pubblici e privati a confronto e – con espressioni che appaiono pienamente condivisibili – si mette in evidenza, da un lato, che il lasso temporale intercorso dal rilascio dei permessi di costruire risulta essere di poco più di un anno; che i lavori sono allo stato iniziale; che la proposta della società di stralciare la realizzazione del centro sportivo costituiva una pretesa di esclusivo ed ingiustificato vantaggio per la parte privata; tutti elementi, questi, di cui la detta parte privata doveva essere necessariamente consapevole e, quindi, non può ora invocare un reale affidamento sul buon fine dell’iniziativa. Si sottolinea, dall’altro lato, che "l’aspettativa a realizzare l’intervento – tutt’altro che legittima alla luce di quanto rappresentato – deve necessariamente recedere dinanzi all’interesse pubblico alla conservazione e valorizzazione dei ritrovamenti archeologici ed alla nuova sistemazione urbanistica del territorio comunale già in atto con i provvedimenti sopra richiamati o, comunque, alla salvaguardia della vocazione agricola del terreno".In conclusione, il venir meno dei presupposti per il previsto intervento integrato si ripercuote necessariamente sugli atti posti in essere per la pretesa attuazione dello stesso, che invece, allo stato, risulta ormai di impossibile realizzazione, e le determinazioni comunali in tal senso appaiono esenti dai vizi riscontrati dal primo giudice e sono da ritenere valide ed efficaci e pienamente esecutive. Le contrarie statuizioni della sentenza appellata si palesano, pertanto, erronee e vanno annullate, in accoglimento delle censure dedotte al riguardo in sede di appello, con assorbimento di ogni altra questione prospettata al riguardo" (cfr. decisione cit., pag. 21 e ss.).

Subito dopo, la Sezione ha rilevato "che la esecutività delle determinazioni relative all’annullamento dei permessi di costruire comporta dirette conseguenze sul contenzioso instaurato con i ricorsi in trattazione. In particolare, con riferimento al primo ricorso (R.G. 2852 del 2008) ora in esame, resta naturalmente caducata la condanna del Comune di Ariccia al risarcimento del danno in favore della società, mancando il presupposto del "danno ingiusto" richiesto al detto fine dalla legge (art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come novellato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205)", nel mentre "con riferimento al secondo ricorso (R.G. 368 del 2009) deve considerarsi che esso risulta rivolto contro la sentenza del T.A.R. che, in accoglimento dell’impugnativa (quarti motivi aggiunti) della società interessata, aveva disposto l’annullamentodella nota del Dirigente comunale n. 12374 del 17 maggio 2007, mediante la quale si limitava la possibilità di riavviare i lavori alle sole attività inerenti al completamento dei sondaggi archeologici; è evidente, tuttavia, che l’annullamento dei titoli edilizi preclude in radice la possibilità di conseguimento di un risultato utile dalla predetta impugnativa, da ritenersi allo stato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse diretto, immediato ed attuale ad una pronuncia al riguardo.Resta priva di concreto rilievo, in simile situazione, l’eccezione pregiudiziale di tardività dell’appello, sollevata dalla società odierna resistente. Analoghe conseguenze si verificano con riferimento al terzo gravame (R.G. 4578 del 2009) proposto avverso la sentenza del T.A.R. relativa alla esecuzione della precedente sentenza dello stesso tribunale n. 1 del 2008, ormai divenuta ineseguibile essendo stata annullata con l’accoglimento del primo appello. Anche per il quinto appello (R.G. 831 del 2010) si debbono trarre le stesse conclusioni, essendo rivolto avverso la sentenza del T.A.R. di accoglimento del ricorso della società in parola contro il nuovo atto di annullamento, per altre ragioni, degli stessi permessi di costruire in questione, adottato dal funzionario comunale competente con determinazione n. 797 dell’8 ottobre 2008: la esecutività delle precedenti determinazioni relative all’annullamento dei menzionati titoli edilizi, infatti, rende priva di qualsiasi effettivo interesse una decisione su tale ultima impugnativa" (cfr. decisione cit., pag. 26 e ss.).

Per quanto da ultimo attiene al ricorso proposto sub R.G. 830 del 2010, la Sezione ha denotato innanzitutto che esso riguarda vicende non strettamente correlate alla caducazione dei titoli edilizi già conseguiti, ricollegandosi semmai al ricorso ed ai motivi aggiunti proposti in primo grado da A.C.E. al fine di tutelare, principalmente, le potenzialità edificatorie delle aree di proprietà mediante impugnazione dei provvedimento assunti dal Comune di Ariccia in ordine ai pregressi incendi che erano ivi scoppiati.

La Sezione, a tale proposito, ha reputato di prescindere dall’esame delle eccezioni pregiudiziali sollevate dal Comune appellante con riguardo alla proponibilità ed alla procedibilità del ricorso proposto in primo grado da A.C.E., posto che quest’ultimo, in base ai motivi di appello, risultava comunque infondato nel merito.

In tal senso, la Sezione ha evidenziato che A.C.E "aveva impugnato dinanzi al T.A.R. la deliberazione della Giunta municipale di Ariccia n. 113 del 9 maggio 2008, di integrazione del "Catasto degli incendi boschivi e delle aree buscate e dei pascoli percorsi dal fuoco",nonché la presupposta deliberazione della stessa Giunta municipale n. 72 del 31 marzo 2008; con motivi aggiunti aveva quindi impugnato la deliberazione del Consiglio Comunale n. 66 del 29 luglio 2008 mediante la quale, disattendendosi le osservazioni della predetta società, è stato approvato l’elenco dei soprassuoli già percorsi dal fuoco nell’ultimo quinquennio, relativamente al terreno di proprietà della stessa società sito nel territorio comunale, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della L. 21 novembre 2000, n. 353. Con la sentenza appellata il tribunale ha rilevato che il dato storico dello svilupparsi di un incendio in data 9 agosto 2003 è obiettivamente desumibile dagli accertamenti svolti dagli organi comunali, dai Vigili del Fuoco e dagli altri enti competenti, mentre sussistevano elementi di incertezza in ordine al fatto che la perimetrazione dell’incendio comprendesse anche l’area di proprietà della società ricorrente. Peraltro, in punto di diritto, il primo giudice aveva ritenuto che, nella specie, stante la presenza di un uliveto nell’area in questione, non sussisterebbero i presupposti per l’applicazione della normativa dettata in materia di "incendiboschivi" dalla citata L. n. 353 del 2000. Il Collegio è dell’avviso che l’appello del Comune di Ariccia sia fondato. Anzitutto, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, non sono in realtà ravvisabili ragionevoli indizi per dubitare del fatto che l’area di proprietà della società interessata fosse stata effettivamente percorsa dall’incendio, in considerazione dell’accurata istruttoria compiuta dai competenti uffici comunali – non smentita in concreto neppure da precisi elementi ed argomentazioni in senso contrario contenuti nella perizia di parte ricorrente – risultando documentato che gli interventi della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco hanno sicuramente riguardato i terreni confinanti; che le conseguenze dell’incendio sulla proprietà in questione si sono manifestate anche con la riduzione della vegetazione, che nell’anno 2000 comprendeva trecento piante ultracentenarie, mentre, da una perizia relativa all’anno 2006, risulta la presenza di soli centocinquanta alberi in uno "stato vegetativo con chioma di area inferiore a quanto riscontrato nell’anno 2000";che gli esposti presentati da cittadini riguardavano proprio la ricorrenza di incendi sulla proprietà in questione. 2. – Chiarito quanto sopra, in punto di fatto, può ora passarsi all’esame delle disposizioni di legge da applicare nelle aree percorse dal fuoco, fortemente limitative delle possibilità edificatorie delle aree stesse. Ai sensi dell’art. 2 della ripetuta L. n. 353 del 2000, "Per incendio boschivo si intende un fuoco con suscettibilità a espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all’interno delle predette aree, oppure su terreni coltivati o incolti e pascoli limitrofi a dette aree". Nel successivo art. 10, comma 1, primo periodo, è poi espressamente stabilito che "Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni". Nella sentenza appellata si afferma, in sostanza, che seppure il surriportato art. 2 fornisca una definizione più ampia dell’incendio boschivo, le successive prescrizioni limitative poste dall’art. 10 riguarderebbero soltanto le ipotesi espressamente indicate relative agli incendi sulle zone boscate ed i pascoli, con esclusione, in particolare, delle zone arborate, come quella in questione già coltivata ad uliveto. Come puntualmente osservato dal Comune appellante, tuttavia, tale interpretazione restrittiva non può essere condivisa alla luce di una valutazione sistematica della normativa in materia e delle specifiche finalità di salvaguardia del territorio perseguite dalla legge. In base alla definizione fornita dal D.L.vo 18 maggio 2001, n. 227, riguardante il settore forestale, viene precisato all’art. 2, comma 1, che "i termini bosco, foresta e selva sono equiparati"; all’art. 6, comma 1, che "Nelle more della emanazione delle norme regionali…si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo…". Nella Regione Lazio le norme in materia di gestione delle risorse forestali sono state dettate dalla L.R. 28 ottobre 2002, n. 39, che all’art. 4, dopo aver fornito al primo comma una definizione di bosco sostanzialmente equivalente a quella del menzionato decreto legislativo, precisa al comma 2 quanto segue: "Sono assimilate ai boschi e soggiacciono alle relative disposizioni" non solo gli appezzamenti coperti da vegetazione arborea comprendente i castagneti da frutto e le sughere, ma pure "le aree ricoperte da vegetazione arbustiva, denominate arbusteti…" aventi determinate caratteristiche. Dal quadro normativo sopra delineato emerge con chiarezza che nell’ambito delle misure protettive dei boschi sono indubbiamente ricomprese numerose ipotesi di vegetazione non certo riconducibile a quella degli alberi di alto fusto, includendosi anche la vegetazione qualificabile come macchia, oltreché coltivazioni da frutto di vario genere. Per quanto concerne specificamente gli alberi di olivo, che come è noto possono raggiungere volumi ed altezze considerevoli e che, sotto tale profilo, possono già di per sé accomunarsi agli alberi di alto fusto, non sembra superfluo ricordare che è comunque ancora vigente la disciplina dettata dal decreto luogotenenziale 27 luglio 1945, n. 475, recante il divieto di abbattimento di tali alberi se non in numero limitato e con specifica autorizzazione delle autorità competenti. Tutto ciò considerato, appare evidente che le finalità di salvaguardia del territorio e delle sue entità naturalistiche indispensabili alla vita non possono essere ristrette a limitate ipotesi di particolari tipi di bosco e di pascoli, come ritenuto in prime cure, ponendosi una simile conclusione non solo in stridente contrasto – per quanto ora particolarmente interessa – con la normativa riguardante la speciale salvaguardia degli uliveti, ma pure in evidente contraddizione con la vigente disciplina generale in materia forestale, che ammette l’estensione della tutela addirittura alla sola sterpaglia, come ben messo in evidenza anche dalla giurisprudenza del giudice penale (cfr. Cass. Sez. I. penale, 4 marzo 2008, n. 14209). Per le ragioni sopra esposte le determinazioni comunali impugnate in primo grado risultano esenti dai vizi dedotti dalla società ricorrente e, pertanto, in accoglimento dell’appello proposto dal Comune di Ariccia e in riforma dell’appellata sentenza del T.A.R. Lazio n. 11246 del 2009, il ricorso in primo grado deve essere respinto" (cfr. decisione cit., pag. 28 e ss.).

9.1.Avverso la sopradescritta decisione della Sezione n. 4457 del 2010 A.C.E. propone ora a’ sensi dell’art. 106 e ss. c.p.a. il ricorso per revocazione in epigrafe, deducendo al riguardo le seguenti censure.

9.2. Innanzitutto, ad avviso di A.C.E. sarebbe ravvisabile un errore di fatto nella decisione predetta laddove segnatamente si afferma che "il programma integrato di intervento era caratterizzato proprio dalla clausola della realizzazione da parte della società proponente, a proprie cure e spese, del centro sportivo da cedere al Comune, oltreché dalla realizzazione di fabbricati abitativi. La connotazione di un intervento "integrato" – a suo tempo ritenuta decisiva per disporre la stessa variante urbanistica – si rapportava, dunque, alla presenza non solo di strutture di natura residenziale, ma anche e, soprattutto e inscindibilmente, alla realizzazione di un complesso di interesse pubblico, a servizio della collettività: in relazione a ciò, come ricordato sopra, la Giunta Comunale aveva espressamente condizionato il riconoscimento della natura infrastrutturale del progetto alla attuazione della parte dello stesso relativa al centro sportivo, mediante la delibera n. 203 del 2003, fatta propria dal Consiglio Comunale con la delibera di variante urbanistica n. 65 del 2003, successivamente approvata in sede di Accordo di programma dalla Regione" (cfr. pagg. 23 e 24 decisione cit.)..

Secondo A.C.E., mai la costruzione dell’impianto in questione sarebbe stata proposta come gratuita, posto che il testo originario della proposta ab origine avanzata da Gessica 90 S.r.l. e approvata dalla Giunta Comunale testualmente recita: "Centro Sportivo della consistenza di circa 11.000 mc, destinato ad accogliere una piscina regolamentare ed una pluralità di attività sportive. Tale struttura si ipotizza essere realizzata con risorse private regolamentate da convenzione che prevede la concessione di gestione per 40 anni al privato proponente e la successiva cessione gratuita all’amministrazione comunale"; il che, pertanto, ad avviso di A.C.E. equivarrebbe, invero, alla previsione di nessun esborso di danaro per l’Amministrazione Comunale, neppure sotto la forma dello scomputo di oneri di urbanizzazione, ma ad una "corrispettività e onerosità individuabile pacificamente attraverso la richiesta di gestire il Centro sportivo per 40 anni" (cfr. pag. 24 ricorso per revocazione): "e da qui l’evidente errore" di questo giudice "sulla presunta gratuita da cui parte tutto il ragionamento" della decisione medesima, "mosso dal falso ed erroneo presupposto che "qualcosa" che doveva essere costruito gratuitamente, finisse per essere "remunerato". Vi è quindi un primo errore di "prospettiva" (asserita gratuità) da parte del Consiglio di Stato che poi si riflette sull’idea di scorporo e, dunque, sull’essenzialità ai fini della tenuta del sinallagma contrattuale (inteso come scambio di contropartite tra il pubblico e il privato ai fini della dichiarazione di infrastrutturalità e della tenuta dell’interesse pubblico) e, in ultima analisi … sull’idea stessa dell’"infrastrutturabilità"" (cfr. ibidem).

Secondo la tesi di A.C.E., lo "scorporo" dell’iniziativa del Centro sportivo sarebbe, di fatto, "inesistente", posto che la decisione sull’accettazione o meno della propria proposta di costruzione dell’impianto a fronte della concessione dello stesso per 40 anni sarebbe stata rinviata sin dalla prima deliberazione consiliare (la n. 65 del 2003) per poi essere ulteriormente rinviata per effetto del c.d. "stralcio" disposto con la susseguente deliberazione consiliare n. 24 del 2005.

A tale riguardo A.C.E. evidenzia che il testo dell’art. 7 stralciato della Convenzione è il seguente: "(1)La Società, in attuazione del Programma Integrato di Intervento, nonché in conformità alle disposizioni particolari contenute nel presente atto e successivamente alla formale sottoscrizione della specifica Convenzione, si impegna alla realizzazione del Centro Sportivo corrispondente allo stralcio funzionale "D", a cura e spese della stessa sull’area comunale senza che ciò comporti scomputo degli oneri dovuti. (2) La gestione del Centro sportivo da parte della Società, sarà oggetto di apposita convenzione-concessione da approvarsi con specifico atto del Consiglio Comunale antecedentemente alla stipula della presente convenzione"; viceversa, il testo dello stesso articolo, per effetto della stralcio, così recita: "La Società, in attuazione del Programma Integrato di Intervento, nonché in conformità alle disposizioni particolari contenute nel presente atto e successivamente alla formale sottoscrizione della specifica Convenzione, si impegna alla realizzazione del Centro Sportivo corrispondente allo stralcio funzionale "D", a cura e spese della stessa sull’area comunale secondo le disposizioni progettuali approvate senza che ciò comporti scomputo degli oneri dovuti. La gestione del Centro sportivo da parte della Società sarà oggetto di apposita successiva convenzione-concessione da approvarsi con specifico e successivo atto di Consiglio Comunale per determinarne i modi e le caratteristiche di concerto con la Società".

Dal raffronto testuale delle due stesure dell’articolo in esame A.C.E. ricava, pertanto, la conseguenza che lo "stralcio" in questione non sarebbe da intendersi in senso tecnico, ossia quale materiale eliminazione di un’obbligazione a carico del privato, con conseguente modificazione del sinallagma convenzionale dell’intero progetto (come, per l’appunto, asseritamente inteso in modo erroneo da questo giudice), ma quale duplice rinvio a favore dell’Amministrazione Comunale, al fine di condividere la forma di gestione dell’impianto, fermi restando gli obblighi pattuiti e proposti nel progetto presentato dalla stessa A.C.E. e fatto proprio dapprima dalla Giunta Comunale e poi dal Consiglio Comunale, ed essenzialmente consistente: 1) nella cessione dell’area destinata a servizi pubblici (impianto sportivo); 2) nella realizzazione dell’opera senza scomputo; 3) nella gestione per 40 anni da parte della Società costruttrice.

Sempre secondo la prospettazione di A.C.E., per effetto dello "stralcio" sopradescritto sarebbe stata quindi posta in essere tra le parti una clausola del tutto funzionale agli interessi dell’Amministrazione Comunale, la quale in tal modo avrebbe anche potuto determinarsi sia disponendo un altro tipo di intervento, con ciò mutando la tipologia di servizio, sia ricercando altro costruttore, sia accettando la proposta di A.C.E. di costruire l’impianto con il corrispettivo della sua gestione per 40 anni.

Ciò sarebbe comprovato, sempre secondo la tesi di A.C.E., dalla circostanza che il terreno destinato all’impianto medesimo è già stato ceduto gratuitamente all’Amministrazione Comunale, la, quale – comunque – secondo entrambe le surriportate formulazioni (pur tra loro alternative) dell’art. 7 avrebbe dovuto rilasciare al costruttore una concessione-costruzione mediante apposita convenzione, non essendo in alcuna delle formulazioni medesime previsto il rilascio di una concessione di beni ovvero la stipulazione di una convenzione di costruzione e gestione, ma il solo rinvio ad una futura convenzione.

Riassumendo, quindi, la realizzazione del Centro sarebbe stata in ogni caso considerata "neutrale" dalle parti in quanto comunque remunerata dalla sua gestione, nel mentre sarebbe stata valorizzata soltanto – e correttamente – la cessione della proprietà dell’area dal soggetto privato a quello pubblico.

Ad avviso di A.C.E. questo giudice avrebbe anche errato nel rilievo da lui dato all’impianto sportivo ai fini della dichiarazione di infrastrutturalità.

Secondo la ricorrente il carattere infrastrutturale e l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione del Centro sportivo ben sarebbero stati evidenziati, infatti, nelle premesse della deliberazione giuntale n. 203 del 2003, e ciò in puntuale conformità ai parametri del Patto così come riconosciuti dal Tavolo di Concertazione dd. 11 giugno 2004 e dallo schema di convenzione n. 25 dd. 3 giugno 2004, dal quale ultimo consta che anche in termini di superfici tra le aree fondiarie da cedere all’Amministrazione Comunale quella dedicata ai servizi pubblici sportivi è pari a 6.928 mq. su un totale di 15.905 mq., di cui 2.647 mq. destinati ad uffici pubblici e 6.330 mq. destinati a completamento residenziale pubblico, e che per quanto attiene alle aree destinate a standard urbanistici, su un totale di 32.508 mq., 11.590 mq. erano destinati a viabilità carrabile e pedonale, 7.756 mq. a parcheggi e 14.162 mq. a verde pubblico attrezzato.

Viceversa – rimarca sempre la ricorrente – nella decisione qui impugnata per revocazione il carattere di infrastrutturalità e l’interesse pubblico dell’intervento sarebbero riconosciuti soltanto nei riguardi della realizzazione del Centro sportivo, non prevista a carico di A.C.E. se non dopo la decisione dell’Amministrazione Comunale sui tempi della concessione della gestione dell’impianto: e ciò, per l’appunto, secondo la tesi della medesima A.C.E. dovrebbe quindi riguardarsi quale errore di fatto rilevante agli effetti della revocazione della decisione da essa qui impugnata.

Concludendo la disamina del primo motivo di impugnazione, A.C.E. contesta pure il passaggio della decisione in qui testualmente si afferma che "nel provvedimento impugnato sono, inoltre, richiamati gli interessi pubblici e privati a confronto e – con espressioni che appaiono pienamente condivisibili – si mette in evidenza, da un lato, che il lasso temporale intercorso dal rilascio dei permessi di costruire risulta essere di poco più di un anno; che i lavori sono allo stato iniziale; che la proposta della società di stralciare la realizzazione del centro sportivo costituiva una pretesa di esclusivo ed ingiustificato vantaggio per la parte privata; tutti elementi, questi, di cui la detta parte privata doveva essere necessariamente consapevole …" (cfr. ivi, pag. 25).

In tal senso, A.C.E. afferma che il periodo di tempo sarebbe stato, per contro, sufficiente a realizzare buona parte dell’intervento programmato, posto che i permessi di costruire sono stati rilasciati il 17 ottobre 2005, che l’atto con il quale è stato avviato il procedimento di verifica della loro legittimità risale al 4 febbraio 2007 e che dalle foto del cantiere asseritamente assunte il 21 maggio 2009 e depositate in atti evidenzierebbero che a tale data le costruzioni non erano "allo stato iniziale" ma realizzate a rustico.

9.3. Con un secondo ordine di censure A.C.E. riconduce ad errore di fatto l’omessa disamina, da parte di questo giudice, della censura da essa proposta in primo grado e poi proposta in sede di appello in ordine alla nullità per difetto assoluto di attribuzioni, a’ sensi dell’art. 21-septies della L. 7 agosto 1990, n. 241, ovvero all’annullabilità per incompetenza , della determina dirigenziale n. 204 del 2007 recante l’annullamento dei permessi di costruire.

Nella prospettazione di A.C.E. il tecnico comunale che ha adottato la determina di cui trattasi avrebbe illegittimamente sovrapposto le proprie valutazioni a quelle del Consiglio Comunale, non essendo a proprio avviso sufficiente ad ovviare ciò l’assunto della decisione qui impugnata secondo il quale "il provvedimento in esame riguarda propriamente l’annullamento di permessi di costruire, ossia gli atti di competenza esclusiva dell’Organo dell’Ente locale al quale viene in particolare attribuita la responsabilità della corretta gestione dell’attività edilizia sul suo territorio. In secondo luogo, non può non rimarcarsi che nell’ambito della complessa e articolata motivazione del provvedimento in discorso, si è pure evidenziato (pagg. 9 e 10) che il Comune di Ariccia ha avviato un procedimento di "rivisitazione" della programmazione urbanistica del territorio, ottenendo anche un contributo al detto fine dalla Regione ed in questo quadro ha revocato le varianti generali adottate nel 2003, nonché l’adesione prestata al ricordato Patto Territoriale delle Colline Romane" (cfr. ivi, pag. 23).

9.4. Con un terzo ordine di censure A.C.E. ripropone in buona sostanza la tesi dell’incompetenza a provvedere da parte del dirigente comunale e contesta quale ulteriore errore di fatto della decisione in esame l’assunto, testè riportato, secondo il quale l’Amministrazione Comunale avrebbe – per l’appunto – "revocato le varianti generali adottate nel 2003, nonché l’adesione prestata al ricordato Patto Territoriale delle Colline Romane": circostanza, questa, asseritamente non veritiera in quanto tali atti risulterebbero a tutt’oggi pienamente validi ed efficaci.

9.5. Con un quarto ordine di censure A.C.E. afferma che questo giudice sarebbe incorso in un errore anche per quanto attiene alla questione dell’incendio boschivo.

In tal senso A.C.E. rimarca che al riguardo il giudice di primo grado aveva escluso che l’area in questione potesse ricondursi a bosco in quanto destinata dal vigente strumento urbanistico ad area "agricola speciale" – E5, destinata alla realizzazione di impianti industriali per la zootecnia, e aveva a comunque affermato che "dalla copiosa documentazione e dalle perizie dei consulenti tecnici del Comune deve escludersi che vi sia stato un incendio su un’area definita e circoscritta per estensione nell’ambito della proprietà della Società A.C.E. S.r.l., tale da poter individuare in modo chiaro le particelle interessate e la densità arborea e quindi costituire un presupposto tecnico per l’adozione della delibera recante l’iscrizione delle aree del catasto incendi e del conseguente provvedimento di autotutela impugnati" (cfr. sentenza del T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, n.11246 dd. 17 novembre 2009, pagg. 16 e 17).

9.6. Con un quinto e ultimo ordine di censure la ricorrente riconduce ad errore di fatto anche gli assunti della decisione resa da questo giudice secondo i quali l’ordinanza dirigenziale n. 128 dd. 21 luglio 2006 di sospensione lavori e di ripristino dello stato dei luoghi risulterebbe legittima in quanto "il Comune non poteva omettere di attivarsi immediatamente con un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori, nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti all’Ente locale dall’art. 27 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380" (cfr. ivi, pag. 20) e che "il provvedimento è stato adottato sulla base di due diverse ragioni: 1) in quanto i lavori erano stati avviati senza la preventiva esecuzione dei sondaggi archeologici imposti dall’art.3 dell’Accordo di Programma; 2) perché la società aveva nominato un proprio Direttore dei lavori ed un proprio Collaudatore,nel mentre tali nomine erano riservate all’Amministrazione Comunale come previsto dagli artt. 6 e 8 della Convenzione" (cfr. ibidem, pag. 19).

La ricorrente a tale riguardo afferma che tali assunti sarebbero erronei avuto innanzitutto riguardo alla circostanza che spetta alla Soprintendenza Archeologica esprimersi in ordine ai vincoli storico-artistici e che, nel caso di specie, la Soprintendenza stessa si è – per l’appunto – espressa sia in sede di conferenza di servizi consentendo i lavori di cui è causa con un parere di massima positivo, sia con successive prescrizioni che sono state puntualmente eseguite (cfr. consulenza tecnica di parte a firma dell’Arch. Luca Sevieri del 24 settembre 2007).

La ricorrente rimarca, inoltre, che i sondaggi archeologici sono stati regolarmente effettuati e che in data 18 dicembre 2006 la Soprintendenza ha emanato il proprio definitivo nulla-osta, tranne che per i lotti F1 e F6 nei quali sono proseguiti i sondaggi.

La ricorrente riconduce – altresì – ad errore di fatto di questo giudice l’avvenuta considerazione quale rilevante difformità del permesso di costruire l’asserita violazione della norma

convenzionale che riserva al Comune la nomina del Direttore lavori.

In tal senso la ricorrente afferma che la nomina del Direttore dei lavori delle opere di urbanizzazione era oggetto di una pattuizione meramente privatistica e, come tale, sarebbe quindi del tutto insuscettibile di formare oggetto dell’esercizio di poteri autoritativi ed unilaterali da parte del Comune, posto che a’ sensi dell’art. 14, comma 1, della Convenzione stipulata in data 17 ottobre 2005 ogni controversia al riguardo doveva essere assoggettata a giudizio arbitrale

Pertanto, se il Comune di Ariccia non riteneva perfezionata la nomina del Direttore dei lavori afferente alle opere di urbanizzazione di cui è causa, poteva eventualmente avvalersi di tale clausola arbitrale, non potendo per contro esercitare al riguardo poteri autoritativi ed unilaterali

La ricorrente rileva, inoltre, che la norma convenzionale surriferita riguarda, di per sé, soltanto il primo dei permessi di costruite relativo alle opere di urbanizzazione e non tutti i permessi di costruire annullati e rimarca che sulla regolarità deva nomina del Direttore dei lavori si era comunque pronunciata l’Agenzia di Sviluppo della Provincia di Roma, soggetto responsabile del Patto Territoriale delle Colline Romane, concludendo per l’adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dalle parti.

Secondo la tesi della ricorrente, in considerazione del principio della tipicità

degli atti amministrativi l’asserita difformità consistente nella nomina del Direttore dei lavori da parte propria – nomina, peraltro, avallata tacitamente dallo stesso Comune, come risulta dagli atti di causa – nonché l’asserito avvio dei lavori senza l’esecuzione dei sondaggi archeologici non potrebbe per certo ricondursi a violazione da parte del permesso di costruire delle prescrizioni di legge, ovvero di regolamento o degli strumenti urbanistici, essendo tali fattispecie le che sole possono consentire l’adozione di una sanzione di demolizione; né sarebbe previsto dal nostro ordinamento un provvedimento tipico, in materia edilizia insieme di sospensione e di demolizione.

A.C.E. conclusivamente afferma che, omettendo di statuire sulla suddetta censura ritualmente proposta in primo grado e riproposta in appello, questo giudice sarebbe incorso in vizio revocatorio per omessa pronuncia.

10. Si è costituita in giudizio l’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane S.c.a r.l., concludendo per l’accoglimento del ricorso.

11. Si è parimenti costituito in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali chiedendo la reiezione del ricorso.

12. Alla pubblica udienza del 12 aprile 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

13.1. Tutto ciò premesso, il ricorso va respinto.

In linea di principio, anche per la definizione della presente fattispecie va innanzitutto ribadito che

l’errore di fatto assumibile quale presupposto per la revocazione, per effetto del rinvio all’art. 396 e all’ art. 395, n. 4, c.p.c. già contenuto nell’art. 36 della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 e ora nell’art. 106 c.p.a. deve ricadere su atti o documenti processuali, con la conseguenza che non sussiste vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita – ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice (cfr. sul punto, ex plurimis, anche la recente sentenza n. 503 dd. 24 gennaio 2011 resa da questa stessa Sezione).

L’errore di fatto revocatorio si configura, inoltre, come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa; e, oltreché sostanziarsi nell’anzidetta erronea affermazione dell’esistenza di un fatto documentalmente escluso ovvero nell’altrettanto erronea inesistenza di un fatto documentalmente provato, deve comunque attenere ad un punto non controverso sul quale la decisione non abbia espressamente motivato e deve configurarsi – altresì – quale elemento decisivo della statuizione da revocare, necessitando cioè un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa (cfr. ibidem); ossia, l’errore di fatto revocatorio, proprio perché deve essere elemento determinante della decisione, può ammissibilmente essere invocato soltanto qualora sussista un rapporto di causalità necessaria fra l’erronea o l’omessa percezione fattuale e documentale e la pronuncia in concreto adottata dal giudice, con la conseguenza dell’irrilevanza dell’errore quando la statuizione si fondi su fatti, seppur erronei, che non siano decisivi in se stessi ai fini del decidere, ma debbano essere valutati in un più ampio e complesso quadro probatorio (cfr. ibidem).

Per tutto quanto sopra, l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio straordinario della revocazione è soltanto quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto: ostacolo che promana da una pura e semplicemente errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, dovendosi in ogni caso escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 1 dicembre 2010 n. 8385), posto che la lettura e l’interpretazione dei documenti di causa appartiene all’insindacabile valutazione del giudice e non può essere censurata quale errore di fatto, a’ sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 19 marzo 2007 n. 1298).

13.2. Ciò posto, va innanzitutto evidenziato che con il primo motivo di revocazione A.C.E., in buona sostanza, afferma la sussistenza di un errore di fatto rilevante agli effetti della revocazione medesima perché: a) pur ammettendo che la realizzazione del Centro sportivo era stata proposta "a propria cura e spese", la realizzazione non era affatto "gratuita" in quanto l’esborso sostenuto per la costruzione sarebbe stato compensato mediante la gestione del Centro stesso con concessione gratuita per 40 anni; b) lo scorporo della disciplina finalizzata alla realizzazione del Centro sarebbe inesistente poiché il contenuto della disciplina medesima sarebbe stato determinato da altri provvedimenti; c) la realizzazione del Centro risulterebbe del tutto "neutrale" rispetto alla generale economia degli accordi stipulati tra l’Amministrazione Comunale ed A.C.E. in quanto quest’ultima si sarebbe in ogni caso ripagata l’intervento attraverso la susseguente gestione dell’impianto; d) il carattere di infrastrutturalità del progetto complessivamente proposto da A.C.E. risulterebbe non soltanto dalla realizzazione del Centro sportivo, ma anche da altri aspetti contenutistici del progetto medesimo, tra i quali il reperimento di spazi da destinare a servizi e residenze di natura pubblica.

I presupposti per la revocazione non sussistono in quanto nella decisione impugnata questo giudice si è puntualmente fatto carico di considerare i diversi contenuti dell’art. 7 della Convenzione assunti prima e dopo lo stralcio, nonché le conseguenze tratte in proposito dalla medesima A.C.E., già da essa corposamente illustrate nel giudizio di appello e qui ora pedissequamente riproposte, secondo le quali – come visto innanzi – con la nuova disciplina sarebbe stata posta in essere tra le parti una clausola del tutto funzionale agli interessi dell’Amministrazione Comunale, la quale avrebbe quindi potuto anche determinarsi accettando la proposta di A.C.E. di costruire l’impianto con il corrispettivo della sua gestione per 40 anni, fermo peraltro restando che la realizzazione del Centro stesso sarebbe stata in ogni caso considerata "neutrale" dalle parti in quanto comunque remunerata dalla sua gestione, nel mentre sarebbe stata valorizzata la cessione della proprietà dell’area dal soggetto privato a quello pubblico.

L’avvenuta considerazione dell’esegesi comparata sui due testi dell’art. 7 della Convenzione risulta, inoppugnabilmente, dai passaggio della decisione impugnata nei quale, testualmente, si afferma che, tra i vari elementi di valutazione che hanno comportato l’annullamento in autotutela dei permessi di costruire, va menzionato – per l’appunto "l’avvenuto stralcio dell’art. 7 della convenzione originaria, inerente alla realizzazione del centro sportivo, con sostanziale violazione dell’Accordo di Programma", in ordine al quale, come visto innanzi, "si rende preliminarmente necessario sgombrare il campo dalle obiezioni di carattere formale delle controparti, accolte dal primo giudice, sollevate con riferimento al principio del "contrarius actus", sul presupposto che anche dopo il predetto stralcio l’intervento avrebbe mantenuto il necessario carattere infrastrutturale e l’accordo di programma già sottoscritto il 15 marzo 2005 non avrebbe subito alcuna modifica, non venendo meno gli obiettivi previsti. …" e "non appare, invero, in alcun modo coerente lo stralcio" predetto, "conseguente alla delibera del Consiglio comunale n. 24 del 13 aprile 2005", posto che esso "denota una evidente contraddizione interna nell’attività dell’Ente locale ma non può, comunque, comportare un mutamento sostanziale della natura del programma integrato di intervento (di cui ha reso inattuabili le previsioni nel loro complesso) facendo intravedere, piuttosto, profili di responsabilità di diversa natura, non sindacabili in questa sede. Né appare sostenibile la tesi, esposta nella sentenza appellata, secondo cui lo stralcio in parola avrebbe "semplicemente regolato in maniera differente i rapporti convenzionali" senza incidere sul progetto approvato che sarebbe rimasto immutato. E’ evidente, infatti, che la condizione essenziale per l’approvazione del programma era appunto quella della realizzazione del previsto centro sportivo da parte della società proponente "a proprie cure e spese",e che la eliminazione di tale parte del progetto è suscettiva di stravolgere sotto diversi profili le valutazioni inerenti al soddisfacimento degli interessi pubblici e le specifiche caratteristiche dell’iniziativa progettata ed approvata. Nel provvedimento impugnato sono, inoltre, richiamati gli interessi pubblici e privati a confronto e – con espressioni che appaiono pienamente condivisibili – si mette in evidenza, da un lato, che il lasso temporale intercorso dal rilascio dei permessi di costruire risulta essere di poco più di un anno; che i lavori sono allo stato iniziale; che la proposta della società di stralciare la realizzazione del centro sportivo costituiva una pretesa di esclusivo ed ingiustificato vantaggio per la parte privata; tutti elementi, questi, di cui la detta parte privata doveva essere necessariamente consapevole e, quindi, non può ora invocare un reale affidamento sul buon fine dell’iniziativa. Si sottolinea, dall’altro lato, che "l’aspettativa a realizzare l’intervento – tutt’altro che legittima alla luce di quanto rappresentato – deve necessariamente recedere dinanzi all’interesse pubblico alla conservazione e valorizzazione dei ritrovamenti archeologici ed alla nuova sistemazione urbanistica del territorio comunale già in atto con i provvedimenti sopra richiamati o, comunque, alla salvaguardia della vocazione agricola del terreno".In conclusione, il venir meno dei presupposti per il previsto intervento integrato si ripercuote necessariamente sugli atti posti in essere per la pretesa attuazione dello stesso, che invece, allo stato, risulta ormai di impossibile realizzazione, e le determinazioni comunali in tal senso appaiono esenti dai vizi riscontrati dal primo giudice e sono da ritenere valide ed efficaci e pienamente esecutive. Le contrarie statuizioni della sentenza appellata si palesano, pertanto, erronee e vanno annullate, in accoglimento delle censure dedotte al riguardo in sede di appello, con assorbimento di ogni altra questione prospettata al riguardo" (cfr. decisione cit., pag. 21 e ss.).

Risulta, pertanto, di solare evidenza che l’assunto secondo il quale le parti, mediante lo stralcio, avrebbero inteso soltanto disciplinare in modo diverso i propri rapporti mantenendo di fatto ferma la realizzazione del Centro e la cessione gratuita del relativo sedime da parte del privato è stata considerata appieno da questo giudice nel contesto della decisione ora impugnata e che, nondimeno, la disciplina "stralciata" e quella che l’ha sostituita non sono state ritenute equivalenti, posto che intuitivamente un conto è l’obbligo del privato , promanante da un’ "apposita convenzione-concessione da approvarsi con specifico atto del Consiglio Comunale antecedentemente alla stipula della … convenzione" , come per l’appunto scritto nell’originario e poi "stralciato" testo dell’art. 7 della convenzione medesima, ed un altro è l’impegno alla realizzazione del Centro che, secondo il nuovo testo dello stesso art. 7, sorge soltanto dopo la "formale sottoscrizione" delle parti di un’ulteriore, "specifica Convenzione", susseguente a quella, per così dire, "di base" e nella quale, oltre a tutto, si prefigura una terza ed eventuale "convenzione-concessione" per la gestione del Centro.

Nel primo testo, infatti, il rapporto tra le parti in ordine alla realizzazione dell’infrastruttura di pubblico interesse risultava inequivocabilmente disciplinato da un preventivo rapporto di convenzione-concessione addirittura antecedente alla stipula della Convenzione urbanistica; nel secondo testo la realizzazione dell’infrastruttura pubblica è prefigurata con Convenzione a parte ma susseguente, meramente accessoria rispetto a quella urbanistica e comunque non sicuramente identificatrice di un rapporto di concessione di lavori viceversa ben emergente nel testo originario della Convenzione urbanistica medesima e – in quanto tale – presupposto come già operante tra le parti e, quindi, assolutamente prioritario per il pubblico interesse: e da qui, dunque, il materiale venir meno del precedente quadro dei rapporti delineato dal sovrastante Accordo di Programma.

Risulta altrettanto evidente la conseguente perdita, in tale contesto, dell’originaria valenza di infrastrutturalità del progetto segnatamente relativo al Centro, proprio perché non più garantita dalla preventiva disciplina della concessione di lavori, fermo comunque restando che nella decisione impugnata il Centro stesso non è mai stato indicato quale unica infrastruttura del progetto complessivamente predisposto da A.C.E.

Allo stesso tempo, risulta altrettanto assodato che anche gli assunti di A.C.E. – comunque non nuovi, in quanto già proposti in sede di giudizio di primo e di secondo grado – relativi all’asserita insussistenza dello "scorporo" della disciplina finalizzata alla realizzazione del Centro e all’altrettanto asserita "neutralità" rispetto alla generale economia degli accordi da essa stipulati con l’Amministrazione Comunale sono stati puntualmente considerati proprio laddove nella decisione qui impugnata si nega l’equivalenza sostanziale tra l’originaria e la susseguente stesura dell’art. 7 della Convenzione: "scorporo", infatti, vi è stato in quanto l'(ulteriore) Convenzione per realizzare il Centro da antecedente è divenuta successiva rispetto a quella urbanistica, e la pretesa "neutralità" dei costi per la realizzazione del Centro medesimo non è più necessariamente ancorata alla previsione di una concessione gratuita per 40 anni previamente pattuita dalle parti.

Né, da ultimo, A.C.E. può contestare – ora – la non veridicità degli assunti motivazionali contenuti nel provvedimento di annullamento dei permessi di costruire emesso in autotutela dal competente Dirigente comunale per quanto segnatamente attiene alla sufficienza del tempo per realizzare l’intervento programmato mediante prove fotografiche risalenti, comunque, ad epoca successiva sia all’atto di avvio del relativo procedimento, sia al provvedimento di annullamento, posto che – come è ben noto – la legittimità dell’atto amministrativo va in defettibilmente valutata nel quadro di fatto e di diritto sussistente al momento della sua adozione, irrilevanti essendo le vicende fattuali successive all’adozione del medesimo provvedimento, pur se collegate alla sua adozione nell’ambito di una medesima vicenda complessiva (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato , Sez. VI, 23 dicembre 2010 n. 9336).

Da tutto quanto precede si ricava pertanto la conclusione per cui A.C.E. ha inteso, in buona sostanza, inammissibilmente tramutare sul punto la revocazione in una sorta di terzo grado di giudizio.

13.3. Con il secondo motivo di revocazione A.C.E. ha dedotto l’asseritamente omessa trattazione nella decisione impugnata delle censure di incompetenza assoluta ovvero relativa del dirigente del Comune che aveva adottato la determinazione n. 204 del 2007, recante l’annullamento in via di autotutela dei permessi di costruire ad essa rilasciati: censure che la medesima A.C.E. aveva dedotto innanzi al giudice di primo grado e riproposto in sede di appello.

Anche tale motivo va respinto, posto che a pag. 27 della decisione qui impugnata il funzionario comunale che ha provveduto al riguardo, anche con la susseguente determinazione n. 797 del 2008, viene testualmente definito "competente" (cfr. ivi, pag. 27): né potrebbe essere altrimenti, posto che per il principio del contrarius actus l’autotutela deve essere esercitata dall’autorità che era competente ad adottare il provvedimento risultato poi illegittimo.

13.4. Come detto innanzi, con il terzo ordine di censure A.C.E. sostanzialmente ripropone la tesi dell’incompetenza a provvedere da parte del dirigente comunale e contesta quale ulteriore errore di fatto della decisione in esame l’assunto secondo il quale l’Amministrazione Comunale "revocato le varianti generali adottate nel 2003, nonché l’adesione prestata al ricordato Patto Territoriale delle Colline Romane" (cfr. ibidem): circostanza, questa, asseritamente non veritiera in quanto tali atti risulterebbero a tutt’oggi pienamente validi ed efficaci.

Il Collegio, a sua volta, evidenzia che nell’invero ampia motivazione che supporta la determina n. 204 del 2007 si prende – tra l’altro atto – che con deliberazione consiliare n. 33 dd. 27 luglio 2006 ha revocato le deliberazioni consiliari n. 76 dd. 23 dicembre 2003 e n. 14 dd. 18 gennaio 2005, recanti l’adozione della Variante al P.R.G. e l’adesione al Patto Territoriale anzidetto e che la rimozione di tali atti presupposti rendeva ben possibile, se non addirittura necessitata, l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela dei permessi di costruire da parte del dirigente a ciò competente.

Pertanto, anche tale ordine di censure va respinto.

13.5. Con il quarto ordine di censure A.C.E. contesta invece il contenuto della decisione impugnata per quanto attiene alla vicenda dell’incendio e all’applicabilità al caso di specie della L. n. 353 del 2000.

Qui l’intento della ricorrente di ricavarsi un terzo grado di giudizio risulta con tutta evidenza, posto che le sue deduzioni si traducono in una diversa interpretazione delle stesse disposizioni legislative disciplinanti la fattispecie.

L’art. 10 della L. n. 353 del 2000 dispone che le zone boscate e i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco "non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni".

La nozione di "destinazione" contenuta nella disposizione legislativa testè riferita identifica, con ogni evidenza, la destinazione d’uso urbanistica del bene, la quale lo individua sotto il profilo funzionale, specificandone la destinazione che è impressa al riguardo dalla vigente strumentazione urbanistica: concetto, questo, ben diverso dalla volumetria edificabile, che viceversa attiene alla determinazione della quantità di corpo fabbricato realizzabile in una determinata area (c.d. "carico urbanistico").

Venendo al caso di specie, risulta altrettanto assodato che su di un’area a destinazione agricola, sulla quale secondo la disciplina vigente al momento dell’incendio è possibile al più costruire un fabbricato di mc. 180.000 destinato alla macellazione non è per certo legittima la realizzazione di edifici residenziali e commerciali anche di volumetria inferiore ma del tutto incoerenti con la destinazione urbanistica dell’area medesima.

Ma anche a prescindere da tale notazione di fondo, all’evidenza ex se preclusiva per l’accoglimento degli argomenti di A.C.E., va denotato che la medesima ricorrente riconduce ad errore di fatto l’interpretazione di questo giudice delle risultanze istruttorie relative al fatto storico dell’incendio e dell’effettivo coinvolgimento nello stesso del fondo in questione, così come puntualmente illustrati nella decisione impugnata.

Ivi infatti – tra l’altro – è stato evidenziato che "non sono in realtà ravvisabili ragionevoli indizi per dubitare del fatto che l’area di proprietà della società interessata fosse stata effettivamente percorsa dall’incendio, in considerazione dell’accurata istruttoria compiuta dai competenti uffici comunali – non smentita in concreto neppure da precisi elementi ed argomentazioni in senso contrario contenuti nella perizia di parte ricorrente – risultando documentato che gli interventi della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco hanno sicuramente riguardato i terreni confinanti; che le conseguenze dell’incendio sulla proprietà in questione si sono manifestate anche con la riduzione della vegetazione, che nell’anno 2000 comprendeva trecento piante ultracentenarie, mentre, da una perizia relativa all’anno 2006, risulta la presenza di soli centocinquanta alberi in uno "stato vegetativo con chioma di area inferiore a quanto riscontrato nell’anno 2000" (cfr. ivi, pag. 29 e ss.) e che la disciplina legislativa vigente assoggetta al regime delle aree boscate anche quelle "arborate, come quella in questione già coltivata ad uliveto" (cfr. ibidem, pag. 31 e ss.).

Deve dunque concludersi nel senso che la ricorrente altro non ha fatto che riproporre a nuova (ed inammissibile) interpretazione di questo stesso giudice i medesimi elementi di fatto e di diritto già esaustivamente disaminati nel precedente giudizio di appello.

13.6. Con il quinto e ultimo ordine di censure A.C.E. reputa la sussistenza di un errore di fatto nella decisione impugnata per quanto segnatamente attiene all’ordinanza n. 128 dd. 21 luglio 2006, con la quale il competente dirigente comunale aveva disposto la sospensione dei lavori e ordinato il ripristino dello stato dei luoghi.

L’errore di fatto sussisterebbe, ad avviso di A.C.E., in quanto nella decisione impugnata si afferma che l’emanazione dell’ordinanza predetta rientrerebbe nei poteri attribuiti all’Amministrazione Comunale a’ sensi dell’art. 27 del D.P.R. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ignorando – altresì – la circostanza che la prerogativa dell’Amministrazione medesima di nominare il direttore dei lavori deriverebbe da un atto convenzionale disciplinante i propri rapporti con la medesima A.C.E. e recante, a sua volta, una clausola compromissoria che sottrarrebbe a questo giudice ogni sindacato al riguardo.

Secondo A.C.E., inoltre, in considerazione del principio della tipicità degli atti amministrativi l’asserita difformità consistente nella nomina del Direttore dei lavori da parte propria – nomina, peraltro, avallata tacitamente dallo stesso Comune, come risulta dagli atti di causa – nonché l’asserito avvio dei lavori senza l’esecuzione dei sondaggi archeologici non potrebbero consentire, per se stanti, l’adozione di una sanzione di demolizione; né sarebbe previsto dal nostro ordinamento un provvedimento tipico, in materia edilizia insieme di sospensione e di demolizione.

Secondo la ricorrente, questo giudice avrebbe omesso di statuire su tale ultima censura ritualmente proposta in primo grado e riproposta in appello, e in relazione a ciò sarebbe quindi incorso in vizio revocatorio per omessa pronuncia.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che nella decisione impugnata testualmente si afferma che "specie in considerazione della necessità di prevenire possibili danni a beni archeologici per l’omessa preventiva esecuzione dei sondaggi previsti, il Comune non poteva omettere di attivarsi immediatamente con un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori, nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuiti all’Ente locale dall’art. 27 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non essendo sufficiente per far fronte all’urgenza di intervenire il solo provvedimento ripristinatorio, di esecuzione non immediata, previsto dal successivo art. 31 dello stesso decreto" e che – soprattutto – non valgono in contrario "le obiezioni formulate sul piano meramente formale dalla società resistente, atteso che non è questione, in questo caso, di una assenza di permesso ma, semmai, di una rilevante difformità rispetto alle modalità di esecuzione dello stesso; a ciò va aggiunto l’inadempimento rispetto all’obbligo di dare applicazione alla norma che riserva al Comune la nomina del direttore dei lavori, anch’essa evidentemente preordinata a salvaguardare l’interesse pubblico connesso alla corretta esecuzione dei lavori. La nomina precedentemente effettuata dalla società, d’altronde, non poteva essere considerata come tacitamente accettata dal Comune – come obiettato dalla medesima società – una volta stabilita pattiziamente una precisa regolamentazione della fattispecie" (cfr. pag. 20 della decisione impugnata)

Risulta, pertanto, per tabulas che a questo giudice non è sfuggita l’origine pattizia dell’obbligo del Comune di nominare il direttore dei lavori, e che questo stesso giudice ha reputato che la nomina direttamente effettuata dalla medesima A.C.E. non fosse stata comunque accettata tacitamente dall’Amministrazione Comunale; dal che, dunque, conseguiva naturaliter l’esigenza per la stessa Amministrazione di attivarsi mediante l’esercizio dei propri poteri di vigilanza ad essa riconosciuti in via generale dall’anzidetto art. 27 del D.P.R. approvato con D.P.R. n. 380 del 2001.

Né, da ultimo, andava assorbentemente sottaciuto che, in relazione all’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990, "considerando le preminenti esigenze di immediato intervento da parte dell’Amministrazione preposta alla tutela del territorio, il contenuto del provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (cfr. pag. 21 della decisione impugnata).

Anche l’ultimo motivo di ricorso, pertanto, va respinto.

14. Le spese e gli onorari del giudizio seguono la soccombenza di lite, e sono liquidati nel dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sul ricorso in revocazione in epigrafe, lo respinge.

Condanna la ricorrente A.C.E. S.r.l. e l’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane S.c.a.r.l. al pagamento a favore del Comune di Ariccia delle spese e degli onorari del giudizio, complessivamente liquidati nella misura di Euro 20.00,00.- (ventimila/00), di cui Euro 18.000,00.- (diciottomila/00) a carico della ricorrente ed Euro 2.000,00.- (duemila/00) a carico dell’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline S.c.a.r.l.

Compensa ogni rispettiva ragione di lite tra A.C.E. S.r.l. e l’Agenzia Sviluppo Provincia per le Colline Romane S.c.a.r.l. con il Ministero per i beni e le attività culturali.

Dichiara irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 e successive modifiche.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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