T.A.R. Emilia-Romagna Parma Sez. I, Sent., 10-05-2011, n. 127

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Riferisce la ricorrente, ministro di culto buddhista della Tradizione Zen Soto presso la Comunità religiosa dell’"Istituto Italiano Zen Soto Shobozan Fudenji" con sede in Salsomaggiore Terme, che in data 8 giugno 2009 ella presentava richiesta di approvazione governativa della nomina a ministro di culto, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1159 del 1929 e dell’art. 20 e segg. del r.d. n. 289 del 1930; che con nota del 12 agosto 2009 il Comando dei Carabinieri di Parma comunicava alla Prefettura di Parma l’insussistenza di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza; che con nota del 31 agosto 2009 la Prefettura di Parma comunicava il proprio parere favorevole al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione – Direzione centrale degli Affari dei culti del Ministero dell’Interno; che con decreto in data 30 aprile 2010 il Ministero dell’Interno negava l’approvazione governativa della nomina della ricorrente a ministro di culto buddhista dell’"Istituto Italiano Zen Soto Shobozan Fudenji" con sede in Salsomaggiore Terme; che con nota in data 5 maggio 2010 l’Amministrazione centrale provvedeva alla trasmissione alla Prefettura di Parma del decreto ministeriale del 30 aprile 2010; che di detto decreto veniva infine data notificazione alla ricorrente in data 31 maggio 2010.

Avverso i suindicati atti ha proposto impugnativa l’interessato, deducendo:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 10bis della legge n. 241 del 1990 per omessa comunicazione del preavviso di rigetto. Violazione del principio di imparzialità, trasparenza e buon andamento dell’azione amministrativa.

L’Amministrazione ha omesso la comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10bis della legge n. 241 del 1990 e ha così impedito all’interessata di controdedurre in merito alle ragioni poste a fondamento del provvedimento di diniego e di offrire elementi utili ad un eventuale riesame della propria posizione.

2) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere per difetto e genericità della motivazione ed illogicità ed apoditticità della stessa.

Il provvedimento impugnato si limita a motivare il diniego sulla base dell’assunto che "l’istituto del matrimonio non è previsto nell’intesa firmata dall’U.B.I. in data 4 aprile 2007, al quale l’Istituto aderisce". Si tratta di motivazione del tutto generica, in quanto non permette di individuare gli elementi ritenuti ostativi dall’Amministrazione dell’Interno, con il risultato che rimangono indecifrabili le ragioni sottese al decreto di rigetto.

3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 1159 del 1929 e degli artt. 20 e 21 del r.d. n. 289 del 1930. Violazione e falsa applicazione ed eccesso di potere per violazione del principio di laicità e dei principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 8 Cost. Eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà, erroneità ed insufficienza della motivazione; per mancata e/o erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto; per illogicità manifesta e disparità di trattamento; per difetto di istruttoria.

L’Amministrazione motiva il diniego adducendo che "l’istituto del matrimonio non è previsto nell’intesa firmata dall’U.B.I. in data 4 aprile 2007, al quale l’Istituto aderisce" e muovendo dall’erroneo assunto per cui l’approvazione della nomina sarebbe "necessaria per riconoscere effetti civili al matrimonio religioso" sulla base del rilievo che "le altre funzioni indicate nel Regolamento approvato con R.D. 289/1930 sono da ritenersi superate da principi costituzionali (artt. 3 e 4) ovvero, allo stato, non risultano attuali (artt. 7 e 8)". In realtà, dall’art. 3 della legge n. 1159 del 1929 e dagli artt. 20 e 21 del r.d. n. 289 del 1930, nonché dai principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 8 Cost., emerge come l’approvazione della nomina a ministro di culto rilevi non solo ai fini dell’istituto del matrimonio, ma anche in funzione dello svolgimento di altre attività strettamente connesse all’esercizio della libertà di culto, quali si evincono dagli artt. 3, 4, 7 e 8 del r.d. n. 289 del 1930, onde l’atto abilitativo incide sulla posizione giuridica dei ministri di culto conferendo loro un preciso status, valido per molteplici aspetti. Peraltro, l’intesa siglata dall’U.B.I. non è stata tradotta in legge e non ha dunque alcuna efficacia giuridica, sicché giammai l’Amministrazione dell’Interno potrebbe invocarla per giustificare il diniego di approvazione della nomina della ricorrente, tanto più che la mancata regolamentazione dell’istituto del matrimonio in quell’intesa non sarebbe comunque rilevante perché in ogni caso non ostativa al permanere delle specificità delle tradizioni buddhiste, neppure prese in esame dall’Autorità procedente nonostante quanto a suo tempo documentato dall’ente in sede di riconoscimento giuridico. Inoltre, si verrebbe in tal modo ad operare un’indebita discriminazione a danno della confessione religiosa della ricorrente, con palese disparità di trattamento rispetto alle altre confessioni.

4) Violazione delle disposizioni che regolano il corretto svolgimento del procedimento amministrativo. Eccesso di potere per omessa valutazione dei presupposti di fatto; per manifesta contraddittorietà; per carenza di istruttoria con riferimento al dato numerico dell’istituto. Violazione del principio di trasparenza e buon andamento dell’azione amministrativa ( art. 97 Cost.).

Nell’istruttoria relativa all’analoga domanda del rev. F.G. la Prefettura di Parma ha comunicato alla Direzione centrale degli Affari dei culti presso il Ministero dell’Interno che i frequentatori abituali dell’Istituto di appartenenza della ricorrente sarebbero circa trecento, laddove la consistenza dei fedeli legati ai centri dislocati nei vari punti d’Italia, e anche in Svizzera, ammonta a circa 5.000 persone, dato numerico che l’Amministrazione non ha verificato.

5) Violazione e falsa interpretazione dell’art. 3 della legge n. 1159 del 1929 e degli artt. 20 e 21 del r.d. n. 289 del 1930. Eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto nonché per illogicità manifesta e disparità di trattamento. Eccesso di potere per insufficienza, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Il provvedimento di diniego asserisce genericamente che "l’approvazione della nomina della ricorrente verrebbe a porsi in contrasto con la normativa una volta emanata la legge". Sennonché, l’Amministrazione ha in questo modo illegittimamente mancato di effettuare un accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti di legge, tanto più che alla stessa non spetta operare la valutazione dei "requisiti morali" del richiedente – valutazione non prevista dalla normativa che regolamenta l’approvazione delle nomine per i ministri di culto acattolico -, né ha considerato che la ricorrente non è comunque interessata da "pendenze" o da altre circostanze in qualche modo rilevanti.

Conclude dunque la ricorrente per l’annullamento degli atti impugnati.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Parma, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, resistendo al gravame.

L’istanza cautelare della ricorrente veniva accolta dalla Sezione alla Camera di Consiglio del 14 settembre 2010 (ord. n. 164/2010).

In attuazione di detta pronuncia giudiziale il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione – Direzione centrale degli Affari dei culti presso il Ministero dell’Interno dava successivamente avviso alla ricorrente, ai sensi dell’art. 10bis della legge n. 241 del 1990, dei motivi ostativi all’approvazione della nomina (nota prot. 00002764 del 14 ottobre 2010), per poi acquisire le relative osservazioni e infine adottare un nuovo provvedimento di diniego ( decreto in data 21 dicembre 2010).

Avverso le sopraggiunte determinazioni ha formulato "motivi aggiunti" (depositati il 15 febbraio 2011) l’interessata, riproponendo le questioni già dedotte con l’atto introduttivo della lite, e lamentando altresì che il nuovo diniego non indicherebbe le ragioni per le quali si è ritenuto di disattendere le osservazioni presentate a séguito della comunicazione ex art. 10bis della legge n. 241 del 1990, ma anche che le determinazioni conclusive sarebbero state assunte con grave ritardo e con conseguente rilevante pregiudizio per l’esercizio delle funzioni proprie di un ministro di culto buddhista.

All’udienza del 20 aprile 2011, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione.
Motivi della decisione

Negatale l’approvazione governativa della nomina a ministro di culto buddhista dell’"Istituto Italiano Zen Soto Shobozan Fudenji" con sede in Salsomaggiore Terme, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1159 del 1929, la ricorrente impugna le determinazioni assunte dal Ministero dell’Interno, cui imputa la mancanza della comunicazione ex art. 10bis della legge n. 241 del 1990, l’insufficienza ed erroneità della motivazione, l’incompletezza dell’istruttoria, l’inesatta applicazione della normativa in materia, l’indebito rilievo assegnato ai profili morali della persona, la violazione dei principi costituzionali in tema di tutela delle confessioni religiose. Rinnovato, poi, il procedimento per effetto della pronuncia cautelare della Sezione, l’Amministrazione ha opposto alla ricorrente un nuovo diniego, oggetto di impugnativa con "motivi aggiunti" imperniati su censure in gran parte coincidenti con quelle originarie, oltre che sulla lamentata assenza di motivate valutazioni circa le osservazioni presentate a séguito della comunicazione ex art. 10bis della legge n. 241 del 1990 e sul complessivo ritardo nel provvedere in ordine all’istanza dell’interessata. Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati.

Rileva preliminarmente il Collegio che, secondo quanto di recente osservato dal Consiglio di Stato in sede consultiva (Sez. I, 23 settembre/22 ottobre 2009 n. 2758/2009 – 6357/2009), l’approvazione governativa della nomina di un ministro di culto diverso da quello cattolico, prevista dall’art. 3 della legge n. 1159 del 1929, non occorre per il compimento degli atti di culto – che rientrano nella sfera di autonomia della corrispondente confessione religiosa -, ma è richiesta nei limiti in cui a quegli atti l’ordinamento generale riconosce effetti giuridici, allorquando cioè al ministro di culto vengano conferiti facoltà, poteri, esoneri dai limiti cui deve sottostare ogni cittadino; che è allora giustificato, senza con ciò pregiudicare la libertà di professione dei culti acattolici costituzionalmente garantita, che le funzioni del ministro ricadano in parte qua sotto la ricognizione ed il controllo dello Stato attraverso il provvedimento di "approvazione", il quale, lungi dal sacrificarne l’attività pastorale, amplia piuttosto la sfera dei poteri del ministro ricollegando agli atti posti in essere nell’esercizio del suo ministero effetti diretti nell’ordinamento dello Stato; che, per essere finalizzata a conferire poteri di natura pubblicistica non spettanti alla generalità dei cittadini, la valutazione dell’Amministrazione si sostanzia in un apprezzamento discrezionale, ancorato da un lato all’accertamento dell’affidabilità, serietà e moralità della persona che riveste la carica pastorale e dall’altro lato alla verifica della sussistenza di una comunità di fedeli qualitativamente e quantitativamente consistente, oltre che al riscontro della serietà del fine perseguito e delle esigenze da soddisfare con l’approvazione della nomina; che, in questo quadro, non v’è ragione per delimitare ad una o più province l’ambito territoriale di svolgimento delle funzioni, trattandosi di un provvedimento costitutivo di status adottato dall’Amministrazione centrale e con effetti estesi all’intero territorio nazionale, mentre il previsto parere del solo prefetto della circoscrizione di residenza del ministro di culto ha lo scopo di acquisire le informazioni sulla persona, ai fini della valutazione della personalità del soggetto che deve provvedere all’attività oggetto di approvazione governativa. Deriva da ciò, innanzi tutto, che la competenza territoriale a conoscere delle controversie relative a simili atti spetta al TAR del Lazio, sede di Roma, non ricorrendo l’ipotesi dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, cod.proc.amm. ("…Il tribunale amministrativo regionale è comunque inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede") e, nel precedente regime, dell’art. 3, comma 2, della legge n. 1034 del 1971 ("Per gli atti emessi da organi centrali dello Stato o di enti pubblici a carattere ultraregionale, la cui efficacia è limitata territorialmente alla circoscrizione del tribunale amministrativo regionale… la competenza è del tribunale amministrativo regionale medesimo"), così come è stato ripetutamente avvertito dalla giurisprudenza per gli atti inerenti il riconoscimento/diniego dello status di una persona, se ed in quanto provenienti da un organo centrale dello Stato e aventi efficacia non circoscritta ad un dato ambito territoriale (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 24 aprile 2009 n. 2561, per il caso del diniego di cittadinanza italiana). Ora, come è noto, la giurisprudenza è stata chiamata chiarire se il nuovo regime di competenza territoriale inderogabile, ivi compresa la rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza, si applichi solo ai giudizi promossi dopo l’entrata in vigore del "codice del processo amministrativo" o sia applicabile anche ai giudizi in corso alla data del 16 settembre 2010, essendosi infine pronunciata per la prima soluzione (v. Cons. Stato, Ad. plen., ord. 7 marzo 2011 n. 1); il che, per quanto detto, comporta che il Collegio deve nella fattispecie dichiarare il difetto di competenza della Sezione adita, limitatamente all’impugnativa del provvedimento di diniego adottato il 21 dicembre 2010 e censurato con atto di "motivi aggiunti", e quindi indicare quale competente a decidere la controversia il TAR del Lazio, sede di Roma, ai sensi dell’art. 15, comma 1, e dell’art. 16, comma 2, cod.proc.amm. (circostanza prospettata alle parti in udienza ex art. 73, comma 3, cod.proc.amm.), mentre sfugge alla rilevabilità d’ufficio il difetto di competenza inerente l’impugnativa del provvedimento ministeriale di diniego del 30 aprile 2010 per essere questa intervenuta prima che entrasse in vigore il "codice del processo amministrativo".

Venendo, allora, all’esame delle questioni proposte con l’atto introduttivo della lite, assume carattere assorbente delle altre la censura imperniata sull’assenza della comunicazione ex art. 10bis della legge n. 241 del 1990 ("Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti… Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale…"). Come è noto (v., ex multis, TAR Liguria, Sez. II, 14 novembre 2008 n. 1990), la ratio del c.d. "preavviso di rigetto" risiede nell’esigenza di instaurare un vero e proprio contraddittorio endoprocedimentale, in cui il privato è posto in condizione di addurre gli elementi che arricchiscano il patrimonio conoscitivo dell’Amministrazione e chiariscano tutte le circostanze ritenute utili al conseguimento del risultato finale, senza essere costretto ad adire immediatamente le vie giurisdizionali; pertanto, in quanto norma di garanzia partecipativa, la stessa impone la rigorosa indicazione di tutti i profili motivazionali che dovrebbero suffragare il provvedimento finale negativo, onde permettere al richiedente la presentazione delle osservazioni e la produzione dei documenti riferibili alla totalità degli aspetti che l’Amministrazione considera ostativi al rilascio del provvedimento invocato. Nella fattispecie, al contrario, l’Autorità procedente si era astenuta dalla prescritta comunicazione, e ciò aveva evidentemente impedito all’interessata di controdedurre sul punto. Del resto, come si è detto, allorché provvede sull’istanza ex art. 3 della legge n. 1159 del 1929, l’Amministrazione compie un apprezzamento discrezionale, correlato a vari profili di giudizio e per questo sensibile agli apporti collaborativi del privato, che ben potrebbe prospettare elementi e considerazioni utili all’adozione della determinazione conclusiva.

Di qui la fondatezza della doglianza relativa alla violazione dell’art. 10bis della legge n. 241 del 1990 e, assorbite le restanti censure (v., tra le altre, TAR Friuli – Venezia Giulia 21 aprile 2008 n. 246 per il carattere necessariamente assorbente di simile censura rispetto alle altre), l’annullamento del decreto ministeriale del 30 aprile 2010.

Tenuto conto della peculiarità della controversia, si ravvisa la sussistenza delle eccezionali condizioni di legge per la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’EmiliaRomagna, Sezione di Parma, pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:

– quanto all’atto introduttivo della lite, ne dichiara la fondatezza nei limiti di cui in motivazione e pertanto, in accoglimento della domanda della ricorrente, annulla il decreto del Ministero dell’Interno in data 30 aprile 2010;

– quanto all’atto di "motivi aggiunti", ai sensi dell’art. 15, comma 1, e dell’art. 16, comma 2, cod.proc.amm., dichiara d’ufficio il difetto di competenza territoriale della Sezione adita e indica quale giudice competente il TAR del Lazio, sede di Roma.

Compensa le spese di lite, ma con la rifusione alla ricorrente (ai sensi dell’art. 13, comma 6bis, del d.P.R. n. 115/2002) del contributo unificato pari a Euro 500,00 (cinquecento/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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