Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 20-04-2011) 09-05-2011, n. 18037

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

nvio della pronuncia impugnata.
Svolgimento del processo

1. Il Gup del Tribunale di Ravenna ha emesso sentenza di non luogo a procedere nei confronti di D.M. in ordine al reato di calunnia e procurato allarme.

La vicenda si era verificata a seguito della chiamata telefonica effettuata dal D. al servizio di emergenza dei Carabinieri, per segnalare la consumazione di un furto nella sua armeria, circostanza che aveva condotto gli agenti ad intervenire, portandoli ad accertare che in realtà nel negozio, fuori dall’orario di apertura al pubblico, vi erano l’amministratore, socio di minoranza della società intestataria dell’attività, unitamente all’acquirente del magazzino, ed era intervenuta la vendita senza il consenso dei titolari della maggioranza delle quote, tra cui D..

Il giudicante osserva che la circostanza che l’imputato non avesse esplicitato al telefono la sua conoscenza delle persone presenti, non consentiva di ravvisare la sussistenza del delitto di calunnia, potendo ipotizzarsi la consumazione di un delitto di furto aggravato, punibile a querela, in relazione al quale non era stata presentata istanza di punizione, dubitando altresì che potesse individuarsi il dolo del delitto nel comportamento tenuto. Esclude inoltre la sussistenza della contravvenzione di procurato allarme, valorizzando la circostanza che nella chiamata fossero state esposte circostanze reali, se pur diversamente qualificabili.

2. Ricorre il P.m. lamentando erronea applicazione della legge penale, nel presupposto che il reato denunciato fosse, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, procedibile d’ufficio, potendo essere contestato il reato di cui all’art. 625, n. 2, aggravato dall’art. 61 c.p., n. 5, oltre che, per gli oggetti che costituivano la refurtiva, i reati previsti dalla legge sulle armi; il dolo era stato escluso sulla base di congetture, contrariamente agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità. 3. Con il secondo motivo si denuncia violazione della legge penale sull’omessa valutazione di sussistenza della contravvenzione, senza considerare la difformità al reale di quanto denunciato, dimostrativa della volontà di propagare una notizia oggettivamente inesistente, integrativa dell’ipotesi d’accusa.

4. Ricorre la parte civile R., lamentando carenza ed illogicità della motivazione richiamando le circostanze di fatto, relative ai rapporti societari ed al rancore nutrito dall’imputato nei confronti dell’acquirente odierna parte civile, nonchè la consapevolezza del D. che nessun furto si stesse consumando nell’occasione della chiamata, circostanza che dimostra la volontà calunniatrice.

5. I ricorrenti sollecitano l’annullamento della pronuncia, con ogni consequenziale provvedimento.
Motivi della decisione

1. I ricorsi sono infondati.

Correttamente il primo giudice ha dubitato della ravvisabilità del dolo nel comportamento tenuto dal D., posto che, a fronte di pacifiche divergenze sulla gestione della società di cui D. era socio di maggioranza, ancorchè non amministratore, egli risulta essere stato escluso dalla decisione di cedere un punto vendita e, conseguentemente, poteva legittimamente ritenere che i suoi antagonisti, dati i contrasti preesistenti, volesse privalo dell’attività, in modo non corretto.

La mancanza di dolo è rivelata non solo dall’omessa indicazione di fatti contrastanti con la realtà -avendo D. evitato solo di riferire che conosceva le persone che erano all’interno del locale, dato che non incide sull’inveridicità della dichiarata sottrazione e sulla sua possibile qualificazione della sottrazione come reato- ma anche dal comportamento tenuto dall’interessato a seguito dell’intervento della forza pubblica, costituito dalla scelta di non presentare formale denuncia, pure essendo stato in tal senso sollecitato dai militari intervenuti, i quali, preso atto della situazione in corso, saggiamente ritennero di non procedere alla segnalazione, limitandosi a porre il D. al corrente della necessità di formalizzare la denuncia presso i loro uffici.

A fronte di tale pacifica ricostruzione in fatto, compiutamente emergente dalla sentenza impugnata, si ritiene che correttamente non sia stato ravvisato il dolo del reato, costituito dalla consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato. E’ bene rimarcare che in giurisprudenza si è ritenuto che la tendenziosità della denuncia – secondo un attributo che sembra far assumere rilievo esponenziale al momento volitivo – non dimostra di per sè la consapevolezza dell’ innocenza dell’accusato da parte del denunciante (Sez. 6, 2 luglio 1998 Perrotta). Precisandosi, ancora, come tale consapevolezza è in re ipsa, ma nel senso che è evidenziata dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che connotano la condotta tenuta, dalle quali è possibile, con processo logico-induttivo, risalire alla sfera intellettiva e volitiva dell’ agente: la sussistenza del dolo, in sintesi, si immedesima con l’accertamento della cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia (Sez. 6, 19 novembre 1998, Farina; Sez. 6, 14 maggio 1999, De Bartolomeo).

Alla luce delle chiavi interpretative evidenziate, tornando alla fattispecie concreta, si deve concludere che appare del tutto lecito che il cittadino, nel dubbio sulla legittimità del comportamento di terzi, si senta legittimato a chiedere il sostegno delle forze dell’ordine, per fronteggiare una situazione di possibile contrasto, come è avvenuto nel concreto ove, a fronte dei pregressi contrasti, e di precedenti situazioni di impossessamento di parte di merce, che avevano dato origine a querele, D. abbia sentito necessario essere coadiuvato dalle forze dell’ordine. Non risulta che nel corso della telefonate D. abbia enfatizzato le circostanze di fatto, esponendone alcune macroscopicamente false, essendosi limitato a segnalare la presenza nel magazzino di persone che si appropriavano di beni contro la sua volontà, circostanza che, sia pure con giustificazioni fondate esclusivamente sui contrasti esistenti tra i soci, risultano reali. L’omessa successiva formalizzazione della denuncia risulta univocamente dimostrativa della mancanza di volontà calunniosa.

In tale situazione di fatto ben difficilmente l’approfondimento dibattimentale avrebbe potuto consentire di accertare il dolo del reato, consistente nella consapevolezza dell’innocenza degli incolpati, non essendo stata neppure dedotta dalla parte privata la conoscenza del D. degli accordi intercorsi tra lui e l’amministratore della società, nè conseguentemente prospettata la dolosa ricostruzione della vicenda offerta alla pattuglia chiamata in soccorso in senso difforme dal reale.

2. Analogamente non risulta ricorrere nella fattispecie l’ipotizzato reato di procurato allarme, posto che D. non espose la verificazione di pericoli inesistenti: ponendosi nell’ottica del denunciante, il quale riteneva ingiustificata la sottrazione di armi, del cui deposito era responsabile in quanto contitolare dell’azienda, non appare possibile ritenere la prospettazione inveritiera di un pericolo, e conseguentemente valutare non corretta la decisione impugnata.

3. In ragione di quanto esposto i ricorsi devono essere rigettati;

per l’effetto la parte privata, in forza dell’art. 616 c.p.p. va condannata al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna la parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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