Cons. Stato Sez. VI, Sent., 11-05-2011, n. 2793 Vincoli storici, archeologici, artistici e ambientali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La signora C. A. M., proprietaria dell’area sita nel Comune di Lecce e censita in catasto al foglio n. 248, p.lla 215, sottoposta dal 1970 a vincolo archeologico ai sensi della legge n. 1089 del 1939 (con decreto ministeriale 6 novembre 1970), con il ricorso n. 1675 del 2008 proposto al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, ha chiesto l’annullamento:

– della nota prot. n. 110333 del 17 settembre 2008 a firma del responsabile dell’Ufficio espropriazioni patrimonio del Comune di Lecce avente ad oggetto "Progetto definitivo per il completamento dei lavori di funzionalizzazione valorizzazione e fruizione del Parco Archeologico Rudiae" e dell’allegato decreto definitivo di espropriazione n. 825 del 15 settembre 2008 a firma congiunta del dirigente del Settore lavori pubblici e del responsabile dell’Ufficio espropriazioni del detto Comune, notificati il 22 settembre successivo;

– del verbale di immissione in possesso, mai notificato;

– della delibera della Giunta comunale di Lecce n.73 dell’11 febbraio 2008 avente ad oggetto: "Approvazione progetto definitivo relativo all’intervento di Funzionalizzazione, valorizzazione e fruizione del Parco Archeologico Rudiae. Importo progetto definitivo Euro 635.000,00" e dei suoi elaborati ed allegati progettuali.

2. Il TAR, con la sentenza n. 1037 del 2010, ha in parte dichiarato inammissibile il ricorso e in parte lo ha respinto, compensando tra le parti le spese del giudizio.

3. Con l’appello in epigrafe è chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado e l’accoglimento del ricorso di primo grado.

4. All’udienza del 19 aprile 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

1. Con la sentenza gravata n. 1037 del 2010, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sezione prima, ha dichiarato in parte inammissibile e in parte ha respinto il ricorso n. 1675 del 2008 proposto dalla signora C. A. M. avverso gli atti relativi alle procedure di esproprio di immobili ricadenti in area archeologica.

2. Nella sentenza si afferma:

– gli interventi posti a base della procedura di cui si tratta sono di contenuto tale da farli rientrare tra quelli previsti dall’art. 95 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio; di seguito Codice), e non dai successivi articoli 96 e 97 (recanti, rispettivamente, espropriazione "per fini strumentali" e "per interesse archeologico"), in quanto volti alla tutela di "un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi" (comma 1), per i quali lo stesso articolo prevede la possibilità per il Ministero per i beni culturali e ambientali di delegare il potere espropriativo agli enti locali (comma 2) e quindi, nella specie, al Comune di Lecce;

– il progetto non è stato valutato in modo generico, avendo il Ministero avuto a disposizione l’intera documentazione progettuale con nota della Soprintendenza archeologica del 7 marzo 2007 prima dell’emanazione del decreto del 12 aprile 2007 di dichiarazione della pubblica utilità dell’acquisizione degli immobili ai fini dell’applicazione del citato art. 95;

– non è fondata la censura di mancata partecipazione della ricorrente al procedimento risultando in atti tale partecipazione attraverso la presentazione, da parte sua, di una osservazione rigettata dal consiglio comunale di Lecce con deliberazione 14 settembre 2005, n. 63;

– correttamente il progetto è stato ascritto alle finalità del P.R.U.S.S.T., poiché, dato lo scopo del miglioramento della fruizione di un compendio archeologico, risulta volto allo "sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e sociale… (e) alla promozione turisticoricettiva";

– la chiara ricomprensione dell’intervento nella fattispecie disciplinata dall’art. 95 del d.lgs. n. 42 del 2004 rende evidente la superfluità della deliberazione 14 settembre 2005, n. 63, del consiglio comunale di Lecce, poiché recante una variante della destinazione urbanistica dell’area non necessaria nel quadro di una legittima espropriazione ai sensi dell’articolo citato;

– ne consegue anche, per altro profilo, il difetto di legittimazione e interesse della ricorrente a sollevare censure sulla modificazione del regime urbanistico o del regime proprietario di aree che non rientrano più nella disponibilità privata;

– il ricorso perciò è da dichiarare in parte infondato (quanto alle censure sull’esercizio del potere ai sensi dell’art. 95 del d.lgs. 42 del 2004) e in parte inammissibile per difetto di legittimazione ed interesse della ricorrente (riguardo alle residue censure).

3. Nell’appello, e nelle memorie difensive successivamente depositate, affermata la legittimazione attiva della ricorrente in quanto proprietaria del bene espropriato con un procedimento illegittimo, si deduce che:

– erroneamente nel caso in esame è stato applicato il procedimento espropriativo di cui all’art. 95 del Codice volto, se non vi siano altri strumenti idonei, a migliorare le condizioni della tutela per la migliore fruizione pubblica del bene, mentre si sarebbe dovuto applicare quello disciplinato dal successivo art. 97, della espropriazione per interesse archeologico, e perciò di esclusiva competenza statale, senza alcuna facoltà di delega al Comune;

– dagli atti emerge infatti chiaramente che gli interventi previsti (scavi archeologici, costruzione di una struttura a fini di didattici e di accoglienza, recinzione del Teatro e delle aree) sono funzionali ad opere implicanti la trasformazione urbanistica del territorio, autorizzabili soltanto dal Ministero, ai sensi dell’articolo 97 del Codice, in quanto titolare del relativo procedimento, avendo esercitato perciò il Comune poteri che non gli competono e chiesto inoltre che il progetto fosse finanziato a carico del P.R.U.S.S.T dopo averlo approvato in variante dello strumento urbanistico (delibera del consiglio comunale n. 63 del 2005);

– l’incongruenza del procedimento adottato è ulteriormente confermata: a) dal mancato coinvolgimento dei privati nella finalità di valorizzazione del patrimonio culturale, pure previsto dalla normativa in luogo del solo strumento espropriativo; b) dal fatto che la Soprintendenza per i beni archeologici con la nota del 7 marzo 2007 ha espresso soltanto un parere di massima senza disporre del progetto, non avendo contezza quindi della tipologia degli interventi da eseguire, e perciò della esclusiva competenza del Ministero in materia con il connesso obbligo di applicare la normativa generale sugli espropri; non vi è prova, inoltre, che il Ministero abbia avuto a disposizione la necessaria documentazione progettuale prima dell’adozione del decreto di dichiarazione della pubblica utilità; c) dalla mancanza di una specifica comunicazione alla proprietaria dell’area prima della conclusione del procedimento finalizzato alla dichiarazione di pubblica utilità, violando il principio della partecipazione dei privati (nella specie proprietaria e comodatario) al procedimento; d) dalla non riferibilità degli interventi progettati alle finalità del P.R.U.S.S.T., che sono volte al diverso scopo della riqualificazione territoriale e urbana;

– in questo quadro non risulta superflua la variante urbanistica approvata dal Comune, proprio perché necessaria secondo la disciplina del procedimento espropriativo generale pertinente al caso in esame;

– sussistono perciò i vizi di violazione di legge dedotti con il ricorso di primo grado, che vengono riproposti, in parte non esaminati dal TAR, tutti connessi alla erroneità del riferimento del procedimento adottato all’art. 95 del Codice;

– dovendosi infine ritenere in contrasto con gli articoli 9 e 118 della Costituzione l’art. 95, comma 2, del Codice, con la possibile questione di legittimità costituzionale, se interpretato come idoneo ad autorizzare enti pubblici, territoriali e non, all’espropriazione di immobili di interesse archeologico in lesione della esclusiva competenza dello Stato in materia, fondata sulla natura di interesse generale nazionale alla tutela di un patrimonio identitario, come è quello archeologico, propria perciò soltanto dello Stato per assicurarne l’esercizio unitario, come è correttamente presupposto nella normativa di cui all’art. 97 del medesimo Codice.

4. Le censure così riassunte sono infondate per i motivi che seguono.

4.1. Il Codice prevede negli articoli 95, 96 e 97 tre fattispecie di espropriazione che, volte tutte ad assicurare l’interesse pubblico alla salvaguardia del patrimonio culturale, si distinguono per l’articolazione di tale interesse secondo fini specifici idonei, in ciascuna delle fattispecie, a legittimare il sacrificio della proprietà privata.

L’ablazione della proprietà è infatti consentita, con l’art. 95 ("Espropriazione di beni culturali", relativa a "beni immobili e mobili"), se sussiste "un importante interesse" al fine di "migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi" (comma 1), con l’art. 96 ("Espropriazione per fini strumentali"), se l’esproprio di "edifici ed aree" è necessario per "isolare o restaurare beni culturali immobili" per "assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescere il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso", con l’art. 97 ("Espropriazione per interesse archeologico", di "immobili"), "al fine di eseguire interventi di interesse archeologico o ricerche per il ritrovamento delle cose indicate nell’articolo 10" (e perciò di rinvenire anche reperti non archeologici).

Le specificità della fattispecie dell’art. 95 sono quindi le seguenti: oggetto dell’esproprio è un bene già qualificato come bene culturale che può anche essere un bene mobile; scopo primario dell’espropriazione è anzitutto l’acquisizione del bene, per la sua migliore fruizione, e non la realizzazione di un’opera con effetto di trasformazione del territorio (comma 1); il Ministero ha la facoltà di autorizzare gli enti locali, su loro richiesta, ad effettuare l’espropriazione, ferma la dichiarazione di pubblica utilità da parte del Ministero stesso (comma 2).

Nelle due altre fattispecie: il bene da espropriare non è di per sé tale ma è in rapporto con un bene culturale (in atto ai sensi dell’art. 96, ovvero in via potenziale ai sensi dell’art. 97) ed è sempre un bene immobile; lo scopo primario è quello di eseguire un’opera o un intervento con trasformazione dell’area; il procedimento non prevede fasi in capo ad enti territoriali non regionali.

A tali specificità della fattispecie dell’art. 95 si correla la specialità del relativo procedimento di espropriazione rispetto a quello disciplinato in via generale dal d.P.R. n. 327 del 2001, relativo alla espropriazione di immobili, o diritti relativi, per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, come risulta confermato dall’art. 100 del Codice, che riferisce l’applicazione delle "disposizioni generali in materia di espropriazione per pubblica utilità", in quanto compatibili, ai "casi di espropriazione disciplinati dagli articoli 96 e 97", non citando l’art. 95, e dall’art. 52 del d.P.R. n. 327 del 2001, che, in riferimento ai pertinenti articoli del Testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali vigente all’epoca, dispone che "Nei casi di espropriazione per fini strumentali e per interesse archeologico, previsti dagli articoli 92, 93 e 94 del testo unico approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, si applicano in quanto compatibili le disposizioni del presente testo unico", non venendo anche qui citata la corrispondente disposizione sulla espropriazione dei beni culturali (art. 91).

4.2. In questo quadro la questione centrale della controversia è se il procedimento espropriativo di cui qui si tratta rientri nella previsione dell’art. 95 ovvero, come sostenuto dal ricorrente, in quella di cui all’art. 97.

Il Collegio ritiene corretta la prima ipotesi, sia perché il bene oggetto dell’espropriazione è già qualificato come bene culturale, essendo stata l’area in questione vincolata, in ragione del suo "particolare interesse archeologico", con decreto ministeriale del 6 novembre 1970, sia, in particolare, in considerazione della tipologia degli interventi previsti in concreto, le cui caratteristiche li individuano come volti al perseguimento di "un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni".

Tali interventi consistono infatti, essenzialmente, nella ripresa degli scavi archeologici e stratigrafici, nella recinzione delle aree della zona del così detto Anfiteatro e nella realizzazione del "Centro per l’archeologia a Rudiae e Laboratorio all’aperto per ragazzi", articolato, quest’ultimo, in una parte all’aperto, con aula e laboratorio didattico e lo spazio per l’accesso all’area archeologica, e in una al coperto, con la biglietteria e il "bookshop" (e connessi servizi aggiuntivi), comprendente l’apprestamento di ausili per la migliore conoscenza del sito.

Da ciò emerge che scopo degli interventi non è quello dell’avvio ex novo, ai sensi dell’art. 97, del solo scavo archeologico in area non ancora qualificata come bene culturale, ma quello della ripresa degli scavi in area già individuata come tale nel quadro di un progetto che, per mezzo di opere di messa in sicurezza e riqualificazione, e, in particolare, di servizio per l’accesso all’area e la conoscenza delle sue caratteristiche storiche e culturali, chiaramente funzionalizza la ripresa degli scavi alla finalità di assicurare la fruizione pubblica del compendio.

Questa finalità della fruizione pubblica è propria della funzione di tutela come individuata nello stesso Codice (art. 3, comma 1) e per il cui raggiungimento ben può essere necessario apportare modifiche al bene, non tali però da attingere la dimensione e la qualità dell’opera pubblica, da cui l’area esce trasformata, poiché limitate a concretare, come è nella specie, le condizioni necessarie per consentire la fruizione del bene culturale; e a ciò è strumentale lo speciale procedimento espropriativo di cui all’art. 95, previsto proprio allo scopo di rendere la fruizione pubblica migliore grazie all’espropriazione del bene stesso.

4.3. Non possono essere accolte le ulteriori censure:

a) sul mancato coinvolgimento dei privati, poiché non previsto come criterio prioritario e cogente e, comunque, non risultando alcun elemento di concreta disponibilità degli stessi idonea a surrogare l’intervento tecnicamente e finanziariamente impegnativo contenuto nel progetto;

b) sulla indisponibilità da parte della Soprintendenza e del Ministero di un progetto puntuale degli interventi, risultando dagli atti che, dopo solleciti, il Comune ha inviato "ai fini dell’emanazione del decreto di dichiarazione di pubblica utilità" alla Direzione generale del Ministero, alla Soprintendenza e alla competente Direzione regionale, il progetto, espressamente indicato come definitivo, corredato di tutti gli elaborati, con la nota n. 31883 del 12 marzo 2007, e perciò un mese prima dell’adozione del decreto di dichiarazione della pubblica utilità, non essendo stata data alcuna prova che il progetto non sia stato ricevuto;

c) sulla mancata comunicazione alla proprietaria dell’avvio del procedimento di espropriazione, eseguita invece con la nota del competente ufficio comunale n. 23539 del 28 febbraio 2005;

d) sulla non pertinenza degli interventi alle finalità del P.R.U.S.S.T., non risultando invero incoerente con lo scopo specifico di tale strumento programmatorio, individuato nello "sviluppo sostenibile del territorio", la riqualificazione di una importante area archeologica al fine della sua migliore fruizione pubblica.

4.4. E’ manifestamente infondata, infine, la questione di legittimità costituzionale prospettata riguardo all’art. 95, comma 2, del Codice, trattandosi di normativa recante un procedimento di cui è prevista la piena titolarità in capo al Ministero, essendo, da un lato, sua facoltà e non obbligo l’autorizzazione all’esproprio da parte degli enti ivi indicati e, dall’altro, restando comunque ad esso l’adozione del provvedimento di dichiarazione della pubblica utilità, che costituisce l’atto fondamentale del procedimento poiché qualificativo dell’interesse alla sua attivazione, ciò che appare in consonanza, per il profilo dell’azione amministrativa, con la riserva della tutela dei beni culturali alla legislazione esclusiva dello Stato disposta nell’art. 117 della Costituzione, cui, come detto, il procedimento in questione si correla direttamente.

5. Per quanto considerato l’appello è infondato e deve essere perciò respinto.

Le spese del secondo grado seguono, come di regola, la soccombenza. Esse sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, n. 5491 del 2010, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado del giudizio, che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento/00) a favore del Ministero per i beni e le attività culturali e del Ministero delle infrastrutture e in euro 1.500,00 (millecinquecento/00) a favore del Comune di Lecce.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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