Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-02-2011) 10-05-2011, n. 18316

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

anni Arricò avv. Raffaele Leone di Napoli e avv. Giuseppe Ricciulli di Napoli.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 11.2.2010, la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Napoli in data 31.3.2008, riduceva la pena ad E.L. ad anni 13 e mesi 6 di reclusione e confermava la suddetta sentenza del Tribunale di Napoli nei confronti di M.A., D.M.V. e P.V..

I predetti sono tutti imputati del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5, 8, il solo M. in qualità di dirigente ed organizzatore dell’associazione denominata clan Misso, la quale, in base al capo di imputazione, è stata operativa da epoca successiva al febbraio 2001, con condotte accertate negli ultimi mesi del 2005 e nei primi mesi del 2006, in ogni caso perduranti. Con la recidiva specifica reiterata per M.A., D.M.V. ed E.L.; con la recidiva generica per P.V..

Il Tribunale di Napoli aveva inflitto le seguenti pene per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. oggetto della contestazione:

– per M.A., anni 18 di reclusione (anni 16 e mesi 8 di reclusione per il delitto in contestazione, aumentati per la ritenuta continuazione con quanto giudicato dal GUP del Tribunale di Napoli con sentenza del 15.2.2001);

– per D.M.V., anni 15 e mesi 4 di reclusione (anni 13 e mesi 4 di reclusione per il delitto in contestazione, aumentati per la ritenuta continuazione con quanto giudicato dal Tribunale di Napoli con sentenza del 21.3.2000);

– per P.V., anni 7 di reclusione;

– per E.L., anni 14 e mesi 4 di reclusione (anni 13 e mesi 4 di reclusione per il delitto in contestazione, aumentati per la ritenuta continuazione con il solo capo A della sentenza del Tribunale per i Minorenni di Napoli in data 29.5.2001).

La Corte d’appello non accoglieva la richiesta dei difensori di M.A. di ritenere già giudicato il delitto associativo, quanto meno fino al 28.2.2007 (data della sentenza del GUP di Napoli, parzialmente riformata dalla sentenza della Corte d’appello di Napoli in data 7.4.2008, irrevocabile dall’11.2.2009, con la quale lo stesso M. era stato giudicato per il medesimo delitto e condannato alla pena di anni 10 e mesi 10 di reclusione), poichè riteneva che i periodi presi in esame dalla sentenza impugnata e da quella del GUP di Napoli non fossero coincidenti: quest’ultima aveva preso in considerazione la partecipazione del M. all’associazione fino al febbraio 2005, mentre la sentenza appellata aveva giudicato la condotta del M. fino al 31.3.2008, data della stessa sentenza impugnata.

Non accoglieva l’ulteriore richiesta dei difensori di M. – i quali avevano sostenuto che dalle stesse dichiarazioni dei collaboratori di giustizia risultava che il predetto dal 2005 non aveva più fatto parte dell’associazione – in quanto risultava dalle dichiarazioni di M.M., collaboratore di giustizia, che il fratello A., dopo essere uscito dal carcere nel 2004, aveva intenzione di uccidere T.S., all’epoca ancora affiliato ed amico del Clan Misso.

Il mancato recesso del M. e il ruolo ricoperto dallo stesso nell’associazione si evincevano – a giudizio della Corte territoriale – dalla partecipazione alla decisione e all’esecuzione, nel 1995 (rectius nel 2005), dell’agguato in danno di P.S..

Anche la cd. sentenza Risolo dimostrava l’appartenenza di M. al clan, almeno fino al febbraio 2006.

A riprova del ruolo direttivo mantenuto dall’imputato anche nell’anno 2006, la sentenza richiamava nel loro complesso le dichiarazioni dei collaboratori, riportate nella sentenza del Tribunale, dichiarazioni che avevano trovato riscontro in un’intercettazione telefonica dell’11.1.2006, nel corso della quale il M. aveva chiesto a C.M. di chiamare E.A.. Riteneva, infine, nell’esaminare l’ultimo dei motivi d’appello della difesa di M., che la pena inflitta allo stesso fosse insuscettibile di riduzioni di sorta, siccome ben perequata al reale disvalore del fatto ed alla negativa personalità dell’appellante.

La Corte d’appello non accoglieva i motivi d’appello presentati dalla difesa di D.M.V., ritenendo smentita la sua affermazione – di aver cambiato vita, trasferendosi a (OMISSIS), dopo la sua scarcerazione del 2003 – dalle chiamate in correità di M. M., M.E.Z. e M.G. riportate nella sentenza del Tribunale e da ritenersi integralmente recepite nella sentenza d’appello.

Riteneva che le dichiarazioni dei collaboratori, contrariamente a quanto dedotto nei motivi d’appello, risultavano determinanti ai fini probatori e che il complessivo impalcato accusatorio non fosse inficiato dalle lamentate imprecisioni in alcune dichiarazioni dei collaboratori.

Il quadro accusatorio era completato dalle dichiarazioni del collaboratore L.G., il quale aveva riferito di essere venuto in contatto con D.M., dopo l’arresto di M.P., e che lo stesso D.M. stava alla Sanità assieme a S. N.; da controlli di P.G. del 2.4.1998 e del 3.12.2003 dai quali era, risultato che D.M. era in compagnia di altri esponenti del clan; da intercettazioni nell’abitazione di T.S. del 24 gennaio e 13 e 19 febbraio 2006, dalle quali era emerso che D. M. era ancora al servizio dei M.; dalle intercettazioni nell’auto di C.M., dalle quali si evinceva che D. M. era nel mirino dei killer.

La Corte d’appello, infine, riteneva non suscettibile di riduzione la pena, in quanto la pena base era stata determinata in misura inferiore al minimo, nè concedibili le attenuanti generiche, essendo l’imputato anche recidivo.

Con riguardo all’appello della difesa di P.V. – secondo la quale vi era stato solo un legame di amicizia tra il predetto e M.G., caratterizzato da una vita in comune per alcuni mesi nel periodo in cui M.G. si doveva nascondere per contrasti insorti con componenti del suo stesso clan – la Corte territoriale riteneva che non potesse essere accolta la richiesta di assoluzione, in quanto il complesso degli elementi raccolti deponeva per la partecipazione dell’imputato alla contestata associazione.

Dalle dichiarazioni di M.M. e M.E.Z. si evinceva che P. era entrato a far parte del clan all’inizio del 2005, dopo la scarcerazione di M.G.; aveva partecipato ad omicidi e tentati omicidi: quello in danno di D. e S., quello nei confronti di B. ed anche al tentato omicidio di L.C.; faceva da scorta armata a M.G. e riceveva "la settimana"; svolgendo il predetto ruolo, era entrato in contatto con altri appartenenti al clan; aveva ospitato a casa sua M.E.Z. quando lo stesso era latitante; all’atto del suo arresto il 18.2.2006, era stato trovato in possesso di un fucile a pompa, lasciatogli da M.E. Z. poichè era in corso una faida con gli appartenenti ad altro clan. A suo carico vi erano anche l’intercettazione ambientale del 19.2.2006 nell’abitazione di T.S. e un’intercettazione telefonica del 27.1.2006, durante la quale P. era stato chiamato dalla fidanzata su un’utenza di M.G..

Gli era stata inflitta una pena inferiore al minimo di legge e gli elementi indicati dalla difesa non giustificavano la concessione delle attenuanti generiche.

Per quanto riguarda l’appello proposto dalla difesa di E. L., la Corte d’appello riteneva di non poter accogliere la richiesta di rinnovazione del dibattimento per sentire T. S. e V.C., i quali avevano riferito causali diverse per alcuni omicidi, in quanto le risultanze consentivano di decidere serenamente sulla posizione dell’ E..

Dalle prove raccolte emergeva che il predetto era entrato a far parte dell’associazione come killer fin dalla metà degli anni novanta;

aveva commesso numerosi omicidi e faceva da scorta armata a M. G.. Convergevano su E. le dichiarazioni di più collaboratori, ciascuno dei quali aveva riferito su fatti di sangue commissionati allo stesso E.:

M.M. ne aveva descritto il ruolo ricoperto negli omicidi di "(OMISSIS)", di S. e di C.. M. E.Z. aveva riferito sulla partecipazione di E. al ferimento di "(OMISSIS)", all’omicidio di G.V., al tentato omicidio di M.F., al duplice tentato omicidio di S. e D..

Le propalazioni dei collaboratori erano confermate dagli esiti delle intercettazioni e dall’annotazione di P.G. dalla quale risultava che M.G. si era allontanato da Napoli dal 16 al 20.12.2005 accompagnato da E.L..

Le concordanti dichiarazioni dei collaboratori erano sufficienti per accertare il ruolo dell’ E. nell’associazione, a prescindere dall’esito favorevole di qualche processo.

A giudizio della Corte d’appello di Napoli, anche nei periodi in cui l’imputato era stato detenuto non si era mai spezzato il suo legame con l’associazione.

Non poteva esser accolta l’istanza difensiva di ritenere i due reati associativi, per i quali era stato condannato dal Tribunale, un unico reato permanente, poichè la prima sentenza di condanna aveva interrotto la permanenza.

La recidiva era stata correttamente contestata, in quanto erano passate in giudicato precedenti condanne, e in particolare il 29.5.2001 quella per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e la contestazione di cui al presente processo iniziava dal febbraio 2001 fino alla pronuncia della sentenza di primo grado.

Doveva, invece, essere accolta la doglianza dell’appellante per il mancato rispetto del disposto dall’art. 99 c.p., u.c., e quindi l’aumento per la recidiva doveva essere ridotto ad anni 4 e mesi 6.

Non poteva essere accolta la richiesta delle attenuanti generiche, per le comuni ragioni indicate riguardo agli altri appellanti, dovendosi tener conto che anche la mancanza di circostanze di segno positivo giustificano il diniego delle suddette attenuanti. Comunque, per l’ E., la mancata concessione era dovuta agli allarmanti precedenti penali.

Avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli in data 11.2.2010 hanno proposto ricorso per cassazione: i difensori di M. A., con motivi separati; il difensore di D.M.V. e lo stesso D.M. personalmente; il difensore di P.V. e i difensori di E.L., con motivi separati.

La difesa di M.A. ha chiesto l’annullamento della sentenza per violazione dell’art. 649 c.p.p., in quanto il predetto era stato già giudicato per gli stessi fatti con sentenza del 28.2.2007 del GUP di Napoli, come peraltro era stato rappresentato con i motivi d’appello.

Anche a voler ritenere che la condotta dell’imputato fosse proseguita dopo la suddetta sentenza del 28.2.2007 e fino alla data della sentenza impugnata, il M. comunque non poteva essere condannato due volte per lo stesso delitto commesso tra il febbraio 2001 e il 28.2.2007.

Era stato però dimostrato, con i motivi d’appello, che M. A. già nel 2005 aveva smesso di partecipare alle attività del clan Misso, come risultava anche dal fatto che nessuno dei collaboratori aveva coinvolto il M. in fatti accaduti dopo il suddetto anno; ma la sentenza impugnata, sul punto, non aveva affatto risposto con congrua motivazione, limitandosi a richiamare genericamente il contenuto della sentenza di primo grado. Le richiamate dichiarazioni di M.M., a cui aveva fatto riferimento la sentenza impugnata, oltre a non essere in alcun modo riscontrate sul punto, riguardavano un fatto del 2004, che quindi non era idoneo a dimostrare la partecipazione del M. all’associazione nel periodo successivo. Al M. non era stata mai contestata la partecipazione all’agguato in danno di P. S., e non era stato comunque spiegato nella sentenza impugnata in che modo dalla partecipazione al suddetto agguato si potrebbe inferire la partecipazione del M. al clan Misso dopo il 2005.

Con sentenza delle Sezioni Unite n. 34655 del 28.6.2005 è stato affermato che non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente, anche se in fase o grado diversi, nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M.. Quindi, quanto meno per il delitto associativo commesso fino al 28.2.2007, data della sentenza del GUP del Tribunale di Napoli che aveva giudicato della partecipazione del M. al clan Misso con lo stesso ruolo apicale, doveva essere pronunciata nel presente processo declaratoria di improcedibilità.

Con motivi di ricorso presentati da altro difensore del M., è stato chiesto l’annullamento della sentenza impugnata per assoluta carenza della motivazione, in quanto il giudice del gravame, con un generico rinvio al contenuto della sentenza di primo grado, si era sottratto all’obbligo motivazionale di indicare, da un lato, le ragioni per le quali aveva inteso condividere gli assunti contenuti in detta sentenza e, dall’altro, quelle per le quali non aveva ritenuto condivisibili i motivi dedotti dalla difesa con l’appello.

Con riguardo al mancato accoglimento della richiesta di declaratoria di improcedibilità perchè il M. era stato già giudicato per lo stesso fatto con sentenza del GUP del Tribunale di Napoli in data 28.2.2007, il ricorrente ha lamentato che la sentenza impugnata non aveva proceduto all’esame delle fattispecie concrete contenute nei diversi pronunciamenti, al fine di verificare se vi fosse o meno coincidenza tra loro, anche al di là del diverso dato temporale indicato nel capo di imputazione.

Le eventuali condotte rilevanti in prospettiva associativa, commesse dal M. dopo i fatti giudicati con la menzionata sentenza del GUP del Tribunale di Napoli, potevano essere ritenute, ex art. 81 capv., compiute nell’esecuzione del medesimo disegno criminoso, con le ovvie conseguenze in punto di trattamento sanzionatorio.

Nei motivi d’appello a firma dell’avv. Morcella, allegati ai motivi di ricorso, si era messo in evidenza che dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia M.M., ritenuto particolarmente attendibile, risultava che M.A. si era sostanzialmente dissociato dall’organizzazione a far data dal 2005.

Nella sentenza impugnata si era del tutto trascurato questo dato, a fronte di una sua evidente rilevanza probatoria al fine di definire il periodo di partecipazione dell’imputato all’associazione.

Anche per questo motivo è stato chiesto l’annullamento della sentenza impugnata.

Il difensore di D.M.V. ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata perchè la motivazione della stessa era del tutto carente e solo apparente; ha inoltre dedotto l’illogicità e contraddittorietà della stessa motivazione.

Ha premesso che nell’atto di appello si era lamentato dell’estrema genericità delle dichiarazioni accusatorie nei confronti del D. M. da parte dei collaboratori di giustizia già appartenenti al clan Misso, mettendo in evidenza che le stesse erano incompatibili con quelle rilasciate da altri cinque collaboratori, che avevano fatto parte del clan contrapposto nella "faida della Sanità", i quali avevano dichiarato di non conoscere il D.M.. Si era, inoltre, lamentato del fatto che il Tribunale non aveva correttamente valutato le conversazioni intercettate nell’abitazione di T. S., poichè non aveva considerato che gli interlocutori erano consapevoli di essere intercettati, nè aveva preso in considerazione la documentazione prodotta dalla difesa, dalla quale risultava che l’imputato, dopo essere stato scarcerato nel 2003, si era trasferito a Chioggia, senza avere più rapporti con i coimputati. La Corte d’appello non aveva dato alcuna risposta alle suddette obiezioni, limitandosi a ribadire che l’appartenenza del D.M. al clan Misso si evinceva dalle dichiarazioni dei collaboratori e che le stesse smentivano che dopo il trasferimento a Chioggia il D.M. avesse cambiato stile di vita. In particolare, il secondo Giudice nulla aveva detto sul tema dei cinque collaboratori antitetici rispetto a quelli valorizzati a carico; nulla aveva detto sugli elementi versati in causa, certificati anagrafici e controlli di P.G., che comprovavano l’effettivo trasferimento del D.M. a Chioggia dal 2003. il collaboratore L.G., le cui dichiarazioni erano state richiamate nella sentenza impugnata, si era limitato a confermare l’appartenenza del D.M. al clan Misso, senza riferire comportamenti penalmente rilevanti dello stesso.

Non si era preso in considerazione il fatto segnalato nei motivi d’appello che le intercettazioni effettuate nell’abitazione di T.S. erano falsate dalla consapevolezza degli interlocutori di essere intercettati.

Dalla motivazione della sentenza impugnata non risultava che fossero stati presi in considerazione gli specifici elementi positivi che deponevano per il riconoscimento delle attenuanti genetiche, quali la marginalità del ruolo nell’associazione e l’incertezza degli stessi capi dell’associazione in ordine all’effettiva affiliazione del D. M..

Nei motivi aggiunti di ricorso presentati personalmente da D.M. V., lo stesso ha affermato che, dopo essersi trasferito a Chioggia con la famiglia, dopo essere stato scarcerato nel 2003, aveva troncato i rapporti con l’organizzazione criminale di cui, prima di essere arrestato, aveva fatto parte. Le accuse nei suoi confronti da parte di tre collaboratori di giustizia erano generiche e contraddittorie tra loro.

Nella sentenza impugnata era stata confermata la sua appartenenza al clan Misso dopo l’anno 2003 con una motivazione del tutto carente ed illogica, poichè non erano state colmate le carenze probatorie della sentenza del Tribunale di Napoli, denunciate con l’atto di appello.

Gli erano state negate le attenuanti generiche, sulla base di un generico giudizio negativo sulla personalità, senza tener conto degli elementi positivi che pure erano stati illustrati nei motivi d’appello, infliggendogli una pena per il solo reato associativo del tutto sproporzionata alla modestia del suo ruolo.

Infine, gli era stata applicata la nuova disciplina della recidiva, introdotta dalla L. 5.12.2005 n. 251, in ragione di precedenti condanne riportate prima dell’entrata in vigore della suddetta legge, e quindi in violazione dell’art. 2 c.p..

Per questi motivi ha quindi chiesto l’annullamento della sentenza impugnata.

Il difensore di P.V., nei motivi di ricorso, ha sostenuto che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto delle dichiarazioni rese da M.G., nella parte in cui lo stesso aveva sostanzialmente escluso che P.V. avesse fatto parte dell’associazione. La mancata contestazione di reati fine al P. doveva essere considerata una conferma della mancata partecipazione dell’imputato al contesto associativo.

Con un secondo motivo, il ricorrente ha dedotto un vizio nella motivazione della sentenza in relazione allo specifico motivo d’appello con il quale era stata chiesta la concessione delle attenuanti generiche.

La richiesta era fondata soprattutto sul raffronto con la posizione del coimputato C., al quale – in una situazione addirittura sovrapponibile – erano state concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti.

Il Giudice d’appello non aveva in alcun modo risposto al suddetto specifico motivo d’appello.

Con un primo motivo di ricorso la difesa di E.L. ha dedotto l’inosservanza dell’art. 192 c.p.p. e la mancata assunzione di una prova decisiva, poichè la Corte d’appello aveva respinto la richiesta, contenuta nei motivi d’appello, di rinnovazione parziale del dibattimento al fine di acquisire prove sopravvenute, ovvero esaminare i collaboratori di giustizia T.S. e V.C. i quali avevano riferito causali e modalità diverse in ordine ad eventi omicidiari attribuiti all’ E. sulla base di dichiarazioni rese da M.G., M.E. Z. e M.M..

Con un secondo motivo ha dedotto erronea applicazione dell’art. 2 c.p., poichè non era stata applicata all’ E., per la medesima ipotesi associativa, la precedente normativa più favorevole, applicata invece in altro procedimento a M.G..

Con un terzo motivo ha dedotto la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui non aveva considerato che i due reati associativi per i quali l’ E. era stato condannato, ritenendo la continuazione tra gli stessi, concretizzavano invece un unico reato associativo, non avendo di fatto la sentenza del Tribunale per i Minori di Napoli del 29.5.2001 interrotto la permanenza del reato, e quindi – secondo il ricorrente – la contestazione successiva di cui al presente processo doveva essere inglobata nella suddetta condanna inflitta dal Tribunale per i Minori.

Con un quarto motivo ha dedotto l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 81 c.p., in quanto la Corte d’appello non aveva riconosciuto la continuazione anche con i reati fine in materia di armi per i quali l’ E. era stato condannato con la menzionata sentenza del Tribunale per i Minori.

L’unicità del disegno criminoso era evidente, poichè i delitti in materia di armi erano stati commessi per espletare il ruolo di guardaspalle che era stato contestato all’ E. nell’ambito dell’associazione.

Con un quinto motivo ha dedotto l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 99 c.p., comma 4, in quanto era stata ritenuta la recidiva reiterata, nonostante non vi fosse stata una precedente dichiarazione di recidività con pronuncia passata in giudicato.

Con altri motivi di ricorso la difesa di E.L. ha insistito sul difetto di motivazione della sentenza impugnata, perchè la stessa si era limitata a prendere in considerazione solo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza curarsi di indicare i dati oggettivi ed esterni a tali dichiarazioni in grado di confermarne l’attendibilità. Nei motivi d’appello, inoltre, erano state segnalate contraddizioni tra le dichiarazioni dei collaboratori, a proposito dell’omicidio Ma. e di altri fatti attribuiti all’ E., alle quali non era stata data alcuna risposta dal Giudice di secondo grado.

Tra l’altro, era stato segnalato nell’atto di appello che ben cinque collaboratori estranei al clan Misso, ma che per i rapporti che avevano con questo clan ne conoscevano i componenti, avevano negato di conoscere l’ E., ma anche su questo punto la sentenza impugnata non aveva dato alcuna risposta. E’ stata dedotta, infine, la carenza di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, poichè la Corte d’appello non aveva indicato le specifiche ragioni per le quali aveva confermato la pena stabilita dal primo Giudice e non aveva esaminato le specifiche ragioni indicate nei motivi d’appello a sostegno della richiesta delle attenuanti generiche e comunque di una riduzione della pena inflitta dal Tribunale di Napoli.

CONSIDERATO IN DIRITTO Sono fondati i motivi di ricorso presentati nell’interesse di M. A..

La sentenza impugnata riconosce che il predetto imputato è stato condannato per lo stesso fatto reato di cui all’art. 416 bis c.p. anche con la sentenza del GUP del Tribunale di Napoli in data 28.2.2007 (parzialmente modificata dalla sentenza della Corte di appello di Napoli in data 7.4.2008, passata in giudicato l’11.2.2009), ma ha ritenuto che, non essendo del tutto coincidenti i periodi di attività contestati nelle due sentenze, non potesse trovare applicazione il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p..

L’errore in cui è incorso il giudice dell’appello è di tutta evidenza: nessuno può essere condannato due volte per lo stesso fatto-reato, e M.A., a seguito della sentenza impugnata, risulta condannato due volte quanto meno con riferimento al periodo in cui vi è coincidenza tra il periodo di partecipazione all’associazione preso in esame dalla suddetta sentenza del GUP di Napoli e quello preso in esame nel presente processo.

Nel caso in cui la Corte territoriale avesse accertato che la partecipazione del M. all’associazione fosse proseguita oltre i fatti giudicati con la sentenza del GUP del Tribunale di Napoli in data 28.2.2007, avrebbe dovuto limitare il giudizio alla porzione di condotta successiva a quella presa in esame dalla predetta sentenza, valutando l’eventuale sussistenza, ai fini della continuazione, di un unico disegno criminoso tra il fatto-reato già giudicato e la porzione di condotta successiva di cui al presente processo.

Del resto, proprio nel presente processo il Tribunale di Napoli aveva operato nel modo suddetto, ritenendo la continuazione tra il reato associativo di cui al presente processo (il cui periodo va dal febbraio 2001 al 31.3.2008, data della sentenza del Tribunale) e lo stesso reato associativo (partecipazione al Clan Misso) giudicato dal Tribunale di Napoli con sentenza in data 15.2.2001. La sentenza impugnata ha anche respinto il motivo d’appello della difesa del M., con il quale si sostiene che il predetto dal 2005 non aveva più fatto parte dell’associazione di stampo mafioso di cui trattasi, con una motivazione che appare carente, in quanto indica – per dimostrare la partecipazione del M. all’associazione fino al marzo 2008 – solo fatti frammentari, inidonei a dimostrare logicamente che il M. ha partecipato alle attività dell’associazione fino alla predetta data.

La Corte territoriale avrebbe dovuto indicare sia i fatti accertati sia le specifiche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili, dai quali aveva desunto che il M., anche dopo il 2005, aveva continuato a partecipare alle attività dell’associazione.

Invece, si è limitata a riportare una dichiarazione di M. M., che però riguardava un fatto accaduto nel 2004, e a fare un generico riferimento a un attentato in danno di P. S., accaduto nel 2005, e a un’intercettazione telefonica del gennaio 2006, senza precisare le ragioni per le quali da questi fatti si sarebbe dovuto inferire che M. era rimasto organico al Clan Misso fino al marzo 2008.

Si deve aggiungere che la sentenza impugnata ha affrontato in modo non consentito al giudice dell’appello le specifiche obiezioni contenute nei motivi d’impugnazione, richiamando genericamente i contenuti della sentenza del primo giudice, in quanto, per costante giurisprudenza di questa Corte, la motivazione per relationem è viziata quando il giudice del gravame si limita a respingere i motivi di impugnazione specificamente proposti dall’appellante e a richiamare la contestata motivazione del giudice di primo grado in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sull’inconsistenza ovvero sulla non pertinenza delle relative censure (V. Sez. 4 sent. n. 4314 del 22.12.1995, Rv. 204175;

Sez. 6 sent. n. 35346 del 12.6.2008, Rv. 241188; Sez. 3 sent. n. 24252 del 13.5.2010, Rv. 247287). Essendo stati accolti i suddetti motivi di ricorso, non deve essere preso in esame il motivo logicamente subordinato riguardante la quantificazione della pena.

Analoghe considerazioni valgono anche con riguardo ai ricorsi proposti dalle difese di D.M.V. e di E.L..

La Corte territoriale non poteva respingere lo specifico motivo d’appello del D.M. – che sosteneva di essersi trasferito a (OMISSIS), dopo essere stato scarcerato nel 2003, e che aveva prodotto una serie di documenti a sostegno dell’effettività del suo trasferimento – richiamando genericamente le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, senza spendere una parola sulla documentazione prodotta dall’imputato.

Nè la partecipazione del D.M. all’associazione, dopo l’anno 2003, si può desumere dai frammentari elementi indicati nella sentenza impugnata (alcune dichiarazioni rese dal collaboratore L.G.; un paio di controlli di Polizia, dei quali non è specificato il contenuto e uno dei quali peraltro risalente al 1998;

il generico contenuto di alcune intercettazioni ambientali), poichè non sono state esplicitate nè chiarite le ragioni per le quali da detti elementi si dovrebbe ricavare che il D.M. ha continuato a partecipare, anche dopo l’anno 2003, alle attività dell’associazione indicata nel capo di imputazione. Gli ulteriori motivi proposti dal predetto ricorrente non possono essere esaminati, dovendosi preliminarmente definire i contorni della partecipazione del D. M. all’associazione.

Con riguardo ai ricorsi presentati nell’interesse di E. L., deve essere accolta la doglianza relativa alla richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento, respinta dalla Corte territoriale senza fornire una adeguata motivazione.

La richiesta di rinnovazione del dibattimento era stata avanzata nei motivi d’appello per esaminare in qualità di imputati in procedimento connesso T.S. e V.C., i quali avevano deciso di collaborare con la giustizia dopo la chiusura del dibattimento di primo grado e avrebbero potuto riferire sul ruolo dell’ E. nell’ambito dell’associazione, della quale i predetti avevano fatto parte, in modo diverso da come avevano riferito M. G., M.E.Z. e M.M., i collaboratori di giustizia sui quali si erano basati i giudici di primo grado.

Non si può, in effetti, rifiutare di prendere in esame prove sopravvenute e di contenuto rilevante per il giudizio, prove che la difesa non poteva presentare al giudice di primo grado, con la sola motivazione che le risultanze già acquisite avrebbero consentito di decidere serenamente sulla posizione dell’ E.. Peraltro, l’art. 603 c.p.p., comma 2, impone al giudice dell’appello la rinnovazione del dibattimento, nel caso in cui prove rilevanti per la decisione siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado.

Non sono fondati, invece, gli altri motivi di ricorso presentati nell’interesse di E.L. dall’avv. Mauro Dezio.

Non il secondo motivo, perchè la normativa più favorevole, in base alle regole dettate dall’art. 2 c.p., si applica avendo riguardo al tempus commissi delicti e non alla normativa asseritamente applicata in altro procedimento penale a M.G..

Non il terzo motivo, perchè la giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che la sentenza di condanna per un reato associativo interrompe giuridicamente la protrazione del delitto di partecipazione a quella stessa associazione criminosa, sicchè il successivo tratto di condotta partecipativa è autonomamente apprezzabile e può essere valutato in continuazione con quella oggetto della sentenza di condanna già intervenuta (V. ex multis Sez. 1^ sent. n. 15133 del 3.3.2009, Rv. 243789).

Non il quarto motivo, poichè non può essere ritenuto sussistente il nesso della continuazione tra il delitto associativo e il reato in materia di armi, essendo stato escluso detto nesso nella sentenza del Tribunale per i minorenni di Napoli in data 15.2.2001, già passata in cosa giudicata.

Non il quinto motivo, poichè questa Corte, con giurisprudenza costante, ha stabilito che la recidiva reiterata può essere riconosciuta in sede di cognizione anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice (V. ex multis Sez. 2^ sent. n. 18701 del 7.5.2010, Rv. 247089). Dovendo essere riconsiderata la condotta dell’imputato, non possono ovviamente essere presi in esame i motivi riguardanti le attenuanti generiche e la determinazione della pena.

Appare, invece, inammissibile il ricorso presentato nell’interesse di P.V., in quanto con lo stesso sono stati dedotti solo motivi di fatto, non apprezzabili in sede di legittimità.

La Corte di appello ha indicato in modo esauriente, con un percorso motivazionale privo di errori logico giuridici, gli elementi di prova dai quali ha dedotto la partecipazione del P. all’associazione.

La richiesta delle attenuanti generiche non è giustificata dal mero raffronto della posizione del P. con quella di C. V., imputato nello stesso processo, in quanto sono numerose e diverse per ogni imputato le considerazioni che inducono il giudice di merito a riconoscere o negare le attenuanti generiche.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto da P.V. consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 2000), al versamento della somma alla Cassa delle Ammende indicata nel dispositivo, ritenuta congrua da questa Corte.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M. A. limitatamente alla condotta associativa giudicata con la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 7.4.2008, essendo l’azione penale preclusa dal giudicato.

Annulla altresì la stessa sentenza nei confronti di M.A. in relazione alla residua condotta e nei confronti di E. L. e di D.M.V. e rinvia per nuovo giudizio sui capi relativi ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

Dichiara inammissibile il ricorso di P.V. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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