Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-02-2011) 10-05-2011, n. 18069

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

l’accoglimento dei ricorsi.
Svolgimento del processo

1- A seguito di giudizio abbreviato riguardante più procedimenti riuniti – scaturiti da una complessa indagine per fatti di usura, estorsione e connessi reati fiscali – il Tribunale di Potenza, con sentenza in data 22 dicembre 2000, dichiarava:

– P.L. responsabile di usura e tentata estorsione in danno di Po.Ca. (capi a, b), nonchè di tre estorsioni continuate in danno dei fratelli S., di C.A. e di T.G. (capi c,m, r), condannandolo alla pena di anni 6 di reclusione e L. 4.600.000 di multa;

– Q.G. responsabile dell’estorsione in danno di C.A. (capo f), condannandolo alla pena di anni tre mesi quattro di reclusione e L. 2.000 di multa.

Con la stessa decisione i predetti, nonchè gli altri coimputati, venivano prosciolti dal contestato reato di cui all’art. 416 c.p. perchè il fatto non sussiste, mentre veniva dichiarato non doversi procedere per prescrizione in ordine ad altre imputazioni di usura e alle violazioni fiscali, coinvolgenti anche D.T.M. M., coniuge del P.; veniva, infine, disposta la confisca ai sensi della L. n. 356 del 1992, art. 12-sexies dei beni sequestrati ai coniugi P. – D.T. con provvedimento del G.i.p. del 13 marzo 1992 nel procedimento n. 1468/92. 2. – Sulle impugnazioni di P. e di Q., nonchè della D.T., che aveva chiesto di limitare la confisca ai soli beni riferibili al marito, la Corte d’appello di Potenza, con sentenza del 24 gennaio 2003, disattesa l’istanza di rinnovazione dibattimentale e respinta la richiesta di applicazione della pena concordata ai sensi dell’art. 599 c.p.p., comma 4, riformava la decisione di primo grado limitatamente alla misura della pena per il P., che riduceva ad anni cinque di reclusione ed Euro 826,00 di multa, revocava la confisca dei beni acquistati in epoca antecedente la commissione dei reati (beni di cui ai n. 12, 13, 14, 15, 16 e 17) e confermava per il resto la sentenza.

3. – Sui ricorsi degli imputati, la Corte di cassazione, con sentenza del 19 febbraio 2004, ritenendo fondate le doglianze prospettate nei confronti dell’ordinanza dibattimentale del 24 gennaio 2003, che aveva respinto sia la richiesta di "patteggiamento" in appello, sia la richiesta di acquisizione di documenti incidenti sul provvedimento di confisca, annullava con rinvio la decisione d’appello, senza prendere in esame gli altri motivi del ricorso.

4. – Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Salerno, quale giudice di rinvio, ha ritenuto di non potersi adeguare a quanto stabilito dalla cassazione in ordine al c.d. patteggiamento in appello, a seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 599 c.p.p., commi 4 e 5 ad opera della L. 24 luglio 2008, n. 125, sostenendo che l’eventuale ratifica dell’accordo darebbe luogo ad una decisione sommaria, in violazione delle regole del contraddittorio e, soprattutto, in violazione di una regola concernente l’ordo judiciorum, con l’esercizio di un potere non più attribuito al giudice, che dovrebbe delibare ed eseguire un negozio processuale non consentito.

E’ quindi passata ad esaminare i motivi d’appello originariamente proposti dagli imputati, confermando la responsabilità di P. e di Q. in ordine ai reati loro ascritti, riducendo la pena al primo, come del resto aveva fatto la prima Corte d’appello e ribadendo il trattamento sanzionatorio inflitto al secondo.

Per quanto riguarda la confisca dei beni dei coniugi P. – D.T., i giudici, dopo avere acquisito la documentazione originariamente richiesta dalle difese (processo verbale di constatazione del Nucleo di Polizia Tributaria; documentazione amministrativo – contabile relativa alla situazione patrocinale dei coniugi nel periodo 1985-1992), hanno disposto la revoca della confisca relativa ai beni acquistati in epoca compresa tra il (OMISSIS), confermando nel resto il provvedimento emesso ai sensi del L. n. 356 del 1992, art. 12-sexies, rilevando, tra l’altro, che la D.T. non avrebbe dimostrato la provenienza lecita degli immobili, che invece sono risultati fittiziamente cointestati con il marito.

5. – Contro quest’ultima decisione tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

5.1. – Nell’interesse di P. il difensore di fiducia ha proposto i seguenti motivi:

– violazione dell’art. 629 c.p. e vizio di motivazione in ordine alle vicende delle contestate estorsioni ai danni di Po., dei fratelli S. e di C., in quanto i giudici di merito sarebbero incorsi in una travisamento del fatto non emergendo dagli atti alcuna minaccia posta in essere;

– vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, negate senza considerare che si tratta di fatti risalenti, che l’imputato negli anni successivi ha manifestato la volontà di reinserirsi nel contesto sociale e che si è adoperato per risarcire i danni arrecati alle vittime;

– violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, che è stata negata sull’erroneo presupposto della mancata prova dell’integrale risarcimento dei danni alle persone offese, risarcimenti comprovati, invece, dalle stesse persone offese, che hanno confermato le quietanze liberatorie rilasciate;

– violazione degli artt. 157 e 160 c.p., in quanto la Corte territoriale ha erroneamente calcolato, ai fini del computo del termine di prescrizione per il reato di cui al capo a), la sospensione determinata dall’adesione del difensore del P. all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle Camere Penali.

5.2. – Con lo stesso ricorso, inoltre, il difensore, anche nell’interesse della D.T., ha contestato il capo della sentenza relativa alla confisca dei beni, rilevando che la sentenza ha omesso ogni motivazione circa la sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio dei coniugi, incorrendo peraltro in una errata valutazione sul valore dei quadri d’autore rinvenuti, che sarebbero in realtà opere grafiche a tiratura limitata di valore assai modesto.

Inoltre, con riferimento alla confisca dei beni di cui la D.T. è comproprietaria con il marito, si rileva che, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la difesa avrebbe dimostrato la provenienza lecita di detti beni, essendo la D. T. una imprenditrice commerciale. Sotto altro profilo si rileva che la confisca non avrebbe potuto esser disposta nei suoi confronti non avendo riportato alcuna condanna ed essendo, in origine, il sequestro stato disposto ai sensi dell’art. 240 c.p..

5.3. – Nell’interesse del Q. sono stati dedotti i seguenti motivi:

– errata qualificazione del fatto relativo alla vicenda "(OMISSIS)" nel reato di estorsione anzichè in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con conseguente intervenuta estinzione del reato per prescrizione;

– erronea applicazione della legge penale, in quanto il fatto avrebbe dovuto essere ritenuto nella forma del tentativo;

– travisamento del fatto, in relazione al ritenuto conseguimento del profitto;

– Violazione dell’art. 133 c.p. sulla determinazione del trattamento sanzionatorio.
Motivi della decisione

6. – Preliminarmente deve rilevarsi l’estinzione dei reati contestati al P. ai capi a) e b) dell’imputazione, relativa al procedimento penale n. 90/95, per intervenuta prescrizione nelle more del ricorso per cassazione (ottobre 2010).

Si tratta dei reati di usura e di tentata estorsione, che risultano consumati nell'(OMISSIS), sicchè deve ritenersi per entrambi ormai decorso il termine massimo di prescrizione, pari a 15 anni, calcolato ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p.p., nella formulazione antecedente alla modifica apportata dalla L. n. 251 del 2005 – in quanto il procedimento risultava già pendente in appello alla data di entrata in vigore della nuova normativa -, anche tenuto conto del periodo di sospensione del termine pari ad un anno e sei giorni (per quanto riguarda il reato di usura deve considerarsi che all’epoca dei fatti era punito con la pena della reclusione da uno a sei anni).

Ne consegue che, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1, la sentenza impugnata deve essere annullata in relazione ai due reati menzionati, non potendosi procedere nei confronti dell’imputato per la suddetta causa di estinzione e dovendosi escludere che il ricorso sia fondato su motivi inammissibili all’origine, stante i contenuti delle censure mosse, il cui argomentare, però, consente di escludere la prova evidente dell’insussistenza del fatto, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.

6.1.- Nel resto il ricorso del P. è infondato.

Per quanto concerne le estorsioni consumate e contestate ai capi c), m) e r) del procedimento n. 60/96, la sentenza impugnata ha coerentemente fondato l’affermazione della responsabilità dell’imputato sulle dichiarazioni accusatorie delle vittime delle estorsioni, cioè i fratelli S. (capo c), C.A. (capo m) e T.G. (capo r), i quali hanno riferito delle minacce ricevute dal P. funzionali a riottenere le somme che aveva loro prestato con interessi usurari, minacce di morte e di danni alle persone, che in alcuni casi alludevano a vere e proprie rappresaglie qualora non fossero stati rispettati i termini di pagamento. I giudici di merito hanno ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni delle persone offese, mettendo in risalto la coerenza e il dettaglio della narrazione, nonchè evidenziando, in un caso, l’esistenza di riscontri rappresentati dalla trascrizione delle conversazioni intercorse tra l’imputato e una delle vittime ( T.).

Il ricorrente contesta tale ricostruzione dei fatti e, con particolare riferimento all’estorsione nei confronti dei fratelli S., assume che non vi sarebbe stata alcuna minaccia, ma solo un invito al rispetto delle scadenze di pagamento del prestito, escludendo poi che nella specie possa configurarsi il reato di cui all’art. 629 c.p., in quanto la minaccia non sarebbe stata comunque idonea a condizionare la autodeterminazione dei soggetti passivi.

In relazione a quest’ultimo aspetto deve rilevarsi come, secondo un costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, la pretesa usuraria viene considerata sempre penalmente e civilisticamente illecita, sicchè anche la minaccia di ottenere il pagamento del prestito facendo ricorso a mezzi astrattamente consentiti dall’ordinamento – come ad esempio l’attivazione di garanzie che l’autore dell’usura si sia fatto rilasciare dalla vittima – integra il delitto di estorsione, in quanto l’usuraio non può ricorrere al giudice per ottenere il soddisfacimento del proprio credito, nè può pensare di far valere un diritto tutelabile con un’azione giudiziaria, negatagli in considerazione dell’illiceità della pretesa (Sez. 2, 17 giugno 1986, n. 1207, Sarachella; Sez. 6, 16 ottobre 1995, n. 1626, Pulvirenti; Sez. 2, 6 febbraio 2008, n. 1208, Sartor; Sez. 2, 31 marzo 2008, n. 16658, Colucci; Sez. 2, 29 settembre 2009, n. 41481, Pierro). Nel reato di estorsione l’elemento dell’ingiusto profitto viene individuato in qualsiasi vantaggio che l’autore intenda conseguire e che non si ricolleghi ad un diritto, con la conseguenza che può essere perseguito tanto con uno strumento antigiuridico, quanto con uno apparentemente legale, ma avente uno scopo illecito.

I tre episodi in esame si inquadrano perfettamente nell’ipotesi di estorsione cui fa riferimento la giurisprudenza citata: il P. ha, infatti, minacciato le sue vittime di azionare i titoli di garanzia in suo possesso e di porli all’incasso al fine di indurli a saldare il debito usurario, in alcuni casi minacciando le stesse vittime anche di morte e di danni alle persone, per cui deve ritenersi che, del tutto correttamente, i giudici di merito abbiano ritenuto sussistente l’estorsione.

6.2. – Con riferimento all’estorsione di cui al capo m), il ricorrente ha, inoltre, dedotto il travisamento della prova riguardo alle dichiarazioni rese da C.A. nell’udienza del 15 maggio 2000, sostenendo che la sentenza impugnata non avrebbe considerato che in quella udienza la persona offesa non avrebbe mai detto di avere ricevuto minacce dal P., nè che questi abbia mai detto che avrebbe incassato i titoli datigli in garanzia.

Il denunciato travisamento non sussiste: il ricorrente omette di considerare che il giudice di primo grado aveva già rilevato la non totale coincidenza tra le prime dichiarazioni del C. e quelle rese nel maggio del 2000, dichiarazioni quest’ultime che non sono state ritenute credibili a causa del notevole lasso di tempo trascorso dai fatti, dando invece rilevanza alle altre dichiarazioni che sono state ritenute pienamente attendibili perchè più vicine ai fatti. Ne consegue, che il giudice d’appello ha fatto riferimento alle stesse dichiarazioni cui si è riferito il Tribunale, per cui vengono a mancare gli stessi presupposti per sostenere che vi sia stato un travisamento della prova, essendosi invece trattato di una valutazione sulla attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, valutazione che appare logicamente motivata e che per questo non può essere oggetto di censura in sede di legittimità. 6.3. – Ai limiti dell’inammissibilità è il motivo con cui il ricorrente lamenta la mancata applicazione delle circostanze generiche, esclusione che la Corte d’appello ha correttamente motivato in relazione alla gravità delle condotte contestate, alla reiterazione delle stesse in un vasto arco di tempo, ai precedenti penali dell’imputato, indicativi di una sua particolare inclinazione a delinquere.

6.4. – Deve poi ritenersi inammissibile il motivo con cui si è dedotto il travisamento del fatto in relazione alla motivazione con cui è stata giustificata l’esclusione della circostanza di cui all’art. 62 c.p., n. 6. Secondo il ricorrente dagli atti risulterebbe l’avvenuto risarcimento dei danni, mentre la sentenza avrebbe escluso tale circostanza in quanto non sarebbe stata allegata idonea documentazione.

Si osserva che, a prescindere dalla circostanza della dimostrazione dell’avvenuto risarcimento, la sentenza impugnata ha comunque ritenuto di non dover applicare l’invocata attenuante in considerazione della tardività del risarcimento, avvenuto solo nelle more del giudizio d’appello, sicchè la questione dedotta dal ricorrente diventa, sotto questo punto di vista, del tutto irrilevante.

6.5. – Deve, infine, ritenersi superato l’ultimo motivo, riguardante la posizione di P., dalla rilevata prescrizione, intervenuta nelle more del ricorso per cassazione.

7. – Infondati sono i motivi presentati nell’interesse del P. e della D.T., riguardanti la disposta confisca dei beni.

La sentenza contiene una articolata motivazione in ordine alle ragioni del provvedimento ablatorio, giustificato con riferimento alla notevole sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio di cui i due imputati potevano disporre, ponendo in stretto collegamento i lauti profitti acquisiti e i reati di usura attribuiti al P., marito della D.T.; inoltre, la motivazione concerne sia gli elementi da cui desumere la sussistenza della sproporzione, sia la valutazione dei beni nella disponibilità degli imputati, compresi i quadri.

7.1. – Per quanto riguarda le censure rivolte dalla D.T. nei confronti della confisca dei beni di cui è comproprietaria, si deve riconoscere che la Corte d’appello ha fatto una corretta applicazione della norma, in quanto ha ritenuto che la presunzione relativa dell’illecita accumulazione patrimoniale, prevista nella speciale ipotesi di confisca di cui alla L. 7 agosto 1992, n. 356, art. 12- sexies, opera anche in riferimento ai beni intestati alla D. T., in qualità di moglie del P., rilevando una sproporzione tra il patrimonio nella titolarità del coniuge e l’attività lavorativa svolta dalla stessa (nello stesso senso, Sez. 1, 8 luglio 2004, n. 31663, Pettogrosso; Sez. 2, 26 novembre 2008, n. 1178, Trovato; Sez. 2, 3 dicembre 2008, n. 4479, Lo Bianco). In particolare, i giudici hanno ritenuto che la ricorrente non abbia fornito alcun elemento idoneo a dimostrare la provenienza lecita degli immobili cointestati con il marito e delle somme risultanti quale saldo attivo sui certificati di deposito e sui libretti postali a lei intestati, considerando che un tale patrimonio non potesse essere giustificato con l’attività commerciale dalla stessa svolta, in relazione alla quale non sarebbero state reperite nè prodotte le dichiarazioni dei redditi.

8. – Riguardo alla posizione di Q., il primo motivo del ricorso appare infondato.

L’imputato è accusato di avere costretto C.A. ad eseguire i pagamenti promessi in corrispettivo di prestiti usurari dietro minaccia di azionare i titoli ricevuti in garanzia nonchè con minacce alla sua incolumità (capo f, proced. n. 60/96).

La sentenza ha confermato la responsabilità del Q. per questo episodio sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.

Il ricorrente non contesta la materialità della condotta, ma assume che i giudici avrebbero dovuto qualificare il fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni e, conseguentemente, dichiarare la prescrizione del reato.

Ferme restando le considerazioni svolte in relazione alla posizione di P., si osserva che nell’ipotesi in cui il creditore ponga in essere una minaccia per ottenere il pagamento di interessi usurari, come è accaduto nella specie, è configurabile il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poichè l’agente è consapevole di esercitare la minaccia per ottenere il soddisfacimento dell’ingiusto profitto derivante da una pretesa contra ius; infatti, egli non può avere la ragionevole opinione di far valere un diritto tutelabile con l’azione giudiziaria, che gli è negata in considerazione della illiceità della pretesa (così, Sez. 6, 2 ottobre 2007, n. 39366, P.G. in proc. Oshodin; Sez. 6, 16 ottobre 1995, n. 1626, Pulvirenti; Sez. 2, 17 giugno 1986, n. 1207, Sarachella).

8.1. – Del tutto infondati, al limite dell’inammissibilità, sono i due motivi con cui il ricorrente, sotto diversi profili, assume che il reato andava ritenuto nelle forme del tentativo.

Si tratta, infatti, di mere affermazioni apodittiche che non trovano alcun riscontro nelle sentenze di merito; inoltre, il ricorrente nel dedurre il travisamento della prova ha omesso di indicare gli atti da cui il giudice avrebbe dovuto desumere che l’estorsione non si sarebbe consumata, ma si sarebbe realizzata nelle forme del reato tentato.

8.2. – Infine, manifestamente infondato è l’ultimo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio. La Corte d’appello ha ritenuto adeguata la pena inflitta, tenuto conto della gravità dei fatti, dell’intensità del dolo e della pericolosità dell’imputato desunta dai suoi precedenti penali, valutazione che in quanto logicamente motivata non è sindacabile in sede di legittimità. 9. – In conclusione, al disposto annullamento della sentenza per i reati di cui ai capi a) e b) contestati al P. consegue il rinvio degli atti alla competente Corte d’appello di Napoli perchè ridetermini la pena nei confronti dell’imputato in ordine ai residui reati; per il resto il ricorso del P. deve essere rigettato, come pure quelli proposti nell’interesse della D.T. e del Q., con la condanna di quest’ultimi due al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti del P. perchè i reati di cui ai capi a) e b) a lui contestati sono estinti per prescrizione e rinvia per la determinazione della pena dei residui reati alla Corte d’appello di Napoli.

Rigetta nel resto il ricorso del P..

Rigetta altresì i ricorsi del Q. e della D.T., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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