Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-02-2011) 10-05-2011, n. 18045 Violazioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

RMINO ANTONINO,che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza in data 20.4.2007 il Tribunale di Termini Imerese condannava G.V., G.C., G. F. e G.G. alla pena di anni 6 e mesi 6 di reclusione ciascuno per il reato di cui all’art. 416 c.p., commi 1 e 2, per essersi associati tra loro al fine di compiere reati finalizzati all’evasione fiscale ed alla truffa ai danni dello Stato, costituendo diverse società operanti nel settore della commercializzazione di carni macellate ed animali vivi, alcune delle quali fittizie, in qualità di promotori, organizzatori e capi (capo a), nonchè per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, unitariamente considerati i fatti di cui ai capi b, f ed h ai sensi del medesimo art. 8, comma 2, per il reato di cui all’art. 2 in relazione alla lett. a) ultima parte D.Lgs. n. 74 del 2000, (capo i) e per il reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, e art. 61 c.p., n. 7 (cap j), unificati tutti tali reati sotto il vincolo della continuazione.

La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 25 gennaio 2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, impugnata dagli imputati, dichiarava non doversi procedere nei confronti dei medesimi in ordine ai reati ascritti ai capi b), f), h), i) e j) perchè estinti per prescrizione, rideterminando la pena inflitta in primo grado per il residuo reato di cui all’art. 416 c.p., in anni 4 e mesi 6 di reclusione ciascuno. Dopo aver descritto il meccanismo delle c.d. frodi carosello (attraverso la creazione di società cartiere, che si interpongono fittiziamente nello scambio tra fornitore comunitario e l’effettivo acquirente italiano, si genera un credito dell’effettivo acquirente italiano nei confronti dello Stato, pari all’ammontare dell’IVA corrisposta alla cartiera, e un debito di pari importo della cartiera nei confronti dello Stato che però, intenzionalmente, è destinato a non essere onorato) e, dopo aver esposto le risultanze del processo di primo grado e la consistenza del quadro probatorio, riteneva la Corte territoriale infondate le doglianze difensive.

2) Ricorrono per cassazione G.V., G.C., G.F. e G.G., a mezzo dei difensore, denunciando, con il primo motivo, la violazione di legge in relazione all’art. 129 c.p.p., e art. 2 c.p., con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8, e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione riguardo alle imputazioni di cui ai capi b), f), h), i) della rubrica.

La Corte territoriale, pur dando atto delle puntuali ed argomentate censure mosse dagli appellanti alla sentenza di primo grado con le quali, nonostante la copertura prescrittiva delle ipotesi di reato riguardanti le evasioni fiscali e tributarie, si invocava una pronuncia nel merito ex art.129 c.p.p., le hanno di fatto eluse ripercorrendo le argomentazioni della medesima sentenza impugnata.

Innanzitutto per i capi b) ed f) era stato eccepito che, oltre ad essere le contestazioni per la massima parte riferite ad epoca precedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74 del 2000, i fatti contestati non potevano, in ogni caso, essere ricondotti alla normativa di cui al D.L. n. 429 del 1982, che non prevedeva come ipotesi di reato la emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La Corte territoriale, nel disattendere tale eccezione, si è limitata genericamente, richiamando una decisione della Corte di Cassazione, ad affermare la illiceità delle condotte contestate tanto nel previgente quanto nell’attuale assetto del diritto tributario. Tale tesi, come già evidenziato nella memoria difensiva, non può essere assolutamente condivisa. I giudici di appello hanno completamente trascurato di verificare la reale sussistenza di uno degli elementi strutturali della contestazione, riguardante la finalità della condotta dei ricorrenti posta a fondamento della natura fittizia delle società cartiere. Secondo l’ipotesi accusatoria le strutture intermedie sarebbero state create e fittiziamente rese operative per consentire alle "Verdi Madonie" di raggiungere i loro obbiettivi evasivi. La Corte, condividendo la sentenza di primo grado, ha ancora una volta eluso i rilievi difensivi con i quali si evidenziava come dagli atti processuali (in particolare dalla stessa perizia del Dott. M.) emergesse che le c.d. cartiere in realtà esercitavano un’attività di importazione ed avevano rapporti con numerose altre imprese. Esse, quindi, non erano esclusivamente funzionali al rapporto con le "Verdi Madonie". Con evidente contraddizione logica tra un ruolo fittizio ed uno reale.

La Corte territoriale non ha affrontato un altro tema fondamentale, sollevato con la memoria conclusiva e con le osservazioni del consulente tecnico, e riguardante il vantaggio reale che le "Verdi Madonie" avrebbero conseguito attraverso la interposizione fittizia delle società intermedie, vale a dire la "evasione delle imposte dirette sui redditi e sul valore aggiunto". Il tema della evasione delle imposte dirette non è stato neppure sfiorato. Per quanto riguarda l’IVA la Corte territoriale ha ritenuto, che l’effetto evasivo sarebbe stato raggiunto dalle preordinate condizioni di impossibilità, create dai G., delle società intermedie di versare l’IVA dovuta. Si era però evidenziato che, in realtà, il meccanismo adoperato non avrebbe potuto (come di fatto è avvenuto) determinare alcun vantaggio, dal momento che le "Verdi Madonie" avevano conteggiato i guadagni ottenuti attraverso la vendita delle carni e pagato su di essi le imposte dirette e, dall’altro, avevano versato alle società intermedie il prezzo, comprensivo di Iva, delle carni acquistate. Si trattava, quindi, di somme effettivamente (e non fittiziamente come ipotizza la sentenza impugnata) versate. Il danno per l’Erario derivante dal mancato versamento da parte delle intermediarie non può essere attribuito alle "Verdi Madonie", non derivando da una fraudolenta manovra di occultamento del tributo dovuto attraverso una manipolata documentazione fiscale.

L’omesso versamento non costituiva fatto penalmente rilevante fino all’inserimento del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, con la L. 30 dicembre 2004, comma 414. Peraltro, come illustrato dal consulente Dott. R., la regolare rappresentazione contabile del tributo, consentiva il recupero delle somme dovute, ma gli organismi fiscali sono rimasti colpevolmente inerti.

La motivazione della sentenza impugnata è censurabile anche in ordine alla ritenuta condotta fraudolenta posta in essere dagli imputati per sfruttare illecitamente la normativa dei tributo intracomunitario (possibilità di praticare prezzi superconcorrenziali) essendo fondata su dati congetturali ed arbitrari, smentiti dalle risultanze processuali.

Con il secondo motivo denunciano la violazione di legge in relazione all’art.129 c.p.p. e l’assoluta mancanza di motivazione in ordine al reato di truffa contestato al capo j). I rilievi svolti in ordine ai reati fiscali hanno ovviamente incidenza sul reato di truffa (a parte il fatto che bisognava motivare non solo sull’elemento oggettivo ma anche su quello soggettivo di detto reato).

Con il terzo motivo denunciano la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 416 c.p..

Anche per tale reato i rilievi svolti in tema di reati fiscali hanno conseguenziale incidenza. Peraltro nelle condotte poste in essere dai fratelli G. non sono ravvisabili gli elementi costitutivi del reato associativo. La presunta consumazione di un numero rilevantissimo di frodi fiscali non costituisce un indice significativo dell’esistenza di una struttura permanente e stabile finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di reati, tenuto conto anche del carattere imprenditoriale dell’attività svolta, dei vincoli familiari del gruppo, della durata limitata delle cartiere. Con il quarto motivo denunciano la violazione di legge in relazione all’art. 416 c.p., comma 2, e l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante contestata. La motivazione sul punto della sentenza impugnata è soltanto apparente, non avendo indicato per ciascuno degli imputati il ruolo di vertice nella struttura organizzata (non potendosi tale ruolo far discendere automaticamente dal ruolo apicale nelle singole società).

3) Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto, dichiarato inammissibile.

3.1) In ordine ai reati di cui ai capi b), f), h), i) e j), dichiarati dalla Corte territoriale estinti per intervenuta prescrizione, va ricordato che, "in presenza di una causa di improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato è precluso alla Corte di Cassazione un riesame del fatto finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione. Il sindacato di legittimità àrea la prospettata mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere invece circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule ivi prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, come sopra si è apprezzato, deve prevalere l’esigenza della definizione di processo (cfr Cass. sez. 5^, 22.6.2005, Borda; Cass. sez. 4^ n. 16466 del 6.3.2008).

Ne deriva come corollario che, in presenza di una causa estintiva del reato, l’accertamento della evidenza della insussistenza del fatto o della mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o infine che il fatto non è previsto dalla legge come reato, deve avvenire, come precisato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, sulla base degli atti "dai quali la Corte di Cassazione sia in grado di desumere le suddette evidenze" e cioè unicamente "dalle sentenza impugnata e se trattasi di sentenza di appello – dalla sentenza di primo grado" (cfr. Cass. pen. sez. 6^ n. 6593 del 2008).

Ne discende, ulteriormente, che non è possibile disporre l’annullamento della sentenza per vizi di motivazione relativi al mancato proscioglimento nel merito. Invero, "all’applicazione di causa estintiva del reato è sottinteso il giudizio relativo all’inesistenza di prova evidente circa la non ricorrenza delle condizioni per un proscioglimento nel merito. In tal caso, pertanto, la decisione è insindacabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, posto che un eventuale annullamento con rinvio imporrebbe la prosecuzione del giudizio, resa impossibile dall’obbligo di declaratoria della causa estintiva (cfr. Cass. sez. 3^ n. 13110 del 2008; Cass. sez. 4^, 4.12.2002, Rocca; Cass. sez. 1^, 22.10.1994, Boiani; Cass. sez. Un. n. 1653 del 21.10.1992 – Marino ed altri). Il giudizio di appello o di cassazione, in presenza di una causa estintiva del reato, è quindi un "giudizio pieno" ma, esclusa la possibilità di una rinnovazione del dibattimento, l’accertamento delle condizioni per un proscioglimento nel merito va fatto sulla base degli atti.

Tali principi sono stati ribaditi dalle sezioni unite, con la sentenza n.35490 del 28.5.2009, con la quale è stato riaffermato che "In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parie dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento". Le sezioni unite hanno ribadito, altresì, che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità, nè vizi di motivazione, nè nullità di ordine generale (cfr. sent. n. 35490/2009 cit.).

3.1.1) La Corte territoriale, con motivazione corretta in fatto ed in diritto ed immune da vizi logici, ha rilevato che non solo dagli atti non emergeva la "innocenza" degli imputati, ma che piuttosto risultava la prova della sussistenza dei reati – fine ascritti. Con il ricorso vengono ribadite le medesime doglianze, attraverso una lettura "diversa" e "parcellizzata" delle risultanze processuali, senza tener conto che i rilievi difensivi erano stati già esaminati ed ineccepibilmente disattesi dai giudici di merito, a) Come emergeva anche dalle intercettazioni telefoniche si era in presenza di una "omogenea rete di relazioni, nel contesto dello stesso gruppo imprenditoriale unitario, tra gli imputati, che operavano tra di loro, indifferentemente occupando ruoli aziendali gestionali sia nelle società operanti in Italia che in quelle aventi sede in terra iberica" (pag. 24 sent.). Non era del resto neppure contestato che tutte le imprese indicate nei capi di imputazione facessero capo ai fratelli G.. (pag. 25 e ss.). b) Le società Subasio Carni srl, Mediterranea Carni srl e Fit Commerciali srl non svolgevano attività di acquisto di animali e carni macellate dalle società spagnole, ma erano state costituite allo scopo di intervenire nel meccanismo fiscale di IVA sulle importazioni comunitarie per consentire al gruppo imprenditoriale facente capo ai G. di evadere l’Iva ed i tributi diretti.

Tali società, controllate da soggetti espressione del gruppo G., erano "cartiere" (risultava pacificamente che non avevano strumentalità, contesti aziendali, dipendenti) e si limitavano all’emissione di fatture in favore delle "Verdi Madonie", per di più supportate da documenti di accompagnamento falsi. Gli animali e le carni, infatti, erano trasferiti direttamente dalla Spagna alle "Verdi Madonie". c) Il meccanismo creato consentiva, attraverso la interposizione meramente fittizia delle cartiere, di "creare degli accumuli di imposta artatamente non versata e lucrata dai partecipi del contesto associativo (cosa che integra certamente condotte definibili di evasione fiscale di imposte indirette e per l’effetto avuto riguardo ai componenti di reddito di impresa anche dell’imposizione diretta, es. Cass. Pen. sez. 3^ sent. n. 14707 del 2008.." (pag.28). d) La tesi difensiva, secondo cui l’omesso versamento dell’IVA da parte delle società cartiere non costituiva fatto di evasione fiscale penalmente rilevante e non poteva comunque essere attribuito alle "Verdi Madonie", è destituita di fondamento. Tale tesi non tiene conto infatti del complessivo meccanismo creato per evadere l’imposta e del fatto che tutte le società coinvolte facevano comunque capo ai fratelli G..

Sul punto aveva già evidenziato il Tribunale che "nel caso di specie siamo di fronte agli stessi soggetti che agiscono sia come emittenti che come utilizzatori, giacchè gestori formali e/o sostanziali tanto delle società che emettono le fatture e i documenti falsi quanto di quella che li utilizza". e) Il meccanismo ideato (creazione di società fittizie e di documentazione rappresentativa di fittizie operazioni commerciali) e posto in essere dagli imputati integrava gli artifici e raggiri richiesti dalla norma ed aveva indotto in errore l’erario in relazione alla individuazione del reale debitore dell’imposta "scambiando per tali le società cartiere quando invece il reale debitore doveva essere identificato nella cooperativa "Le Verdi Madonie" (pag. 147 – 148 sent. Trib.).

3.1.1.1) La Corte territoriale ha richiamato, poi, la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di reati finanziari e tributari, il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti ( D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8) è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, sia "per l’ampia dizione della norma che parla genericamente di operazioni inesistenti", sia perchè "anche a mezzo di fatturazione solo soggettivamente falsa è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma stessa e cioè di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto" (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 14707 del 14.11.2007). In tal senso si è pronunciata costantemente la giurisprudenza di questa Corte, in gran parte formatasi nella vigenza della L. n. 516 del 1982, art. 4, n. 5, cui è subentrato il vigente D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, (cfr. fra le altre sez. 2 n. 47173 del 2005 Rv 232932). Non c’è dubbio, conseguentemente, che vi sia, in proposito, continuità normativa tra la L. n. 516 del 1982, e D.Lgs. n. 74 del 2000 (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 13826 del 12.2.2001).

3.1.1.2) Irrilevante è poi il mancato richiamo nella imputazione alla L.516/82 (per i fatti antecedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 74 del 2000), non potendo certo derivare da esso alcuna violazione dei diritti di difesa, risultando specificamente contestata la condotta posta in essere dagli imputati ("..al fine di consentire alla società Le Verdi Madonie Coop l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, emettevano fatture (relative a forniture di carni macellate ed animali vivi) per operazioni soggettivamente inesistenti..").

E’ assolutamente pacifico, invero, che si ha violazione dei principio di correlazione tra sentenza ed accusa contestata solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito. La verifica dell’osservanza del principio di correlazione va, invero, condotta in funzione della salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato cui il principio stesso è ispirato. Ne consegue che la sua violazione è ravvisabile soltanto qualora la fattispecie concreta – che realizza l’ipotesi astratta prevista dal legislatore e che è esposta nel capo di imputazione- venga mutata nei suoi elementi essenziali in modo tale da determinare uno stravolgimento dell’originaria contestazione, onde emerga dagli atti che su di essa l’imputato non ha avuto modo di difendersi (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 6^, 8.6.1998 n.67539). Sicchè "non sussiste violazione del principio di correlazione della sentenza all’accusa contestata quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, in quanto l’immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza aver avuto nessun possibilità d’effettiva difesa (cfr. sez. 6^ n.35120 del 13.6.2003).

Anche di recente questa Corte ha ribadito il principio che "si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali in modo tanto determinante da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa" (cfr. Cass. sez. 6^ n.12156 del 5.3.2009).

3.2) I rilievi svolti in ordine ai reati-fine si riverberano ovviamente sul reato associativo contestato al capo a).

Le censure dei ricorrenti in ordine a tale reato non tengono conto che il sindacato demandato alla Corte di cassazione è limitato all’accertamento dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula infatti dai poteri della Corte quello di una "rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e per il ricorrente più adeguata valutazione delle risultanze processuali (Cass. sez. un. n. 06402 del 2.7.1997).

I giudici di merito, con motivazione congrua, adeguata ed immune da vizi di palese illogicità, hanno valutato compiutamente il materiale probatorio, ritenendo pienamente provato il reato di cui all’art. 416 c.p., contestato agli imputati, ricorrendone tutti gli elementi costitutivi (esistenza di un’organizzazione, con divisione di ruoli, posta in essere per attuare una serie indeterminata di delitti).

Ha evidenziato infatti la Corte, richiamando anche la sentenza di primo grado, i ruoli avuti dai fratelli G. nella costituzione delle varie società ed i collegamenti tra di loro (pag. 24 sent. app. e 70 sent. Trib. 9) e quindi il meccanismo per attuare il programma criminoso. Essi infatti avevano provveduto alla "costituzione sostanzialmente una dietro l’altra di diverse società cartiere che morivano di morte naturale, sotto il peso dei debiti fiscali artatamente accomunati, generalmente ai momento stesso dei controlli della GdF, salvo rinascere entro poche settimane con diversa denominazione (pag. 30 sent.). Ha poi descritto ampiamente il meccanismo operativo delle società cartiere e delle operazioni di emissione delle fatture per operazioni inesistenti, attraverso la creazione di documentazione falsa, e tutti i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8, e art. 640 c.p., posti in essere per la realizzazione del programma criminoso.

Disattendendo i rilievi difensivi già il Tribunale aveva evidenziato che non ci trovava in presenza di sporadica attività di evasione fiscale. La macroscopica entità dell’imposta evasa, la continuità dell’azione criminosa nel corso degli anni, la capacità di mutare veste giuridica e di reagire ai tentativi di accertamento da parte dello Stato, la coesione dimostrata dal gruppo, in gran parte formato da componenti della stessa famiglia, la complessità stessa della struttura, con diramazioni anche all’estero, sono tutti indici oggettivi di una organizzazione criminosa" (pag. 135 sent. Trib.). La Corte territoriale, nell’escludere la tesi difensiva del "concorso di più persone nello stesso reato continuato" ha sottolineato, ulteriormente, che non si trattava di una attività posta in essere di volta in volta, ma della programmazione di un numero indeterminato di reati attraverso la predisposizione di una struttura organizzativa stabile e con attribuzione di ruoli ai singoli associati.

3.2.1) Non può, infine, essere revocato in dubbio che sussista la circostanza aggravante contestata e che, anche sul punto, i giudici di merito abbiano adeguatamente e correttamente motivato.

Già il Tribunale, tirando le conclusioni della lunga ed approfondita analisi svolta, aveva ritenuto che dalle risultanze processuali emergesse che i fratelli G. erano gli ideatori, promotori e capi dell’organizzazione, avendo ideato, promosso e gestito il meccanismo operativo della ingentissima evasione delle imposte (pag.

136 sent. Trib.). Dalla complessiva motivazione della sentenza di appello risulta ampiamente confermato il ruolo "apicale" svolto nella vicenda dai ricorrenti in relazione alla creazione delle società cartiere (pag. 30 sent.), al sistema di rapporti e relazioni facenti capo e controllati dai G. (pag.33), ai ruoli gestionali sia nelle società operanti in Italia che in quelle spagnole (pag. 24 e ss.).

Sulla base della puntuale analisi svolta nel corso dell’intero percorso argomentativo la Corte di merito ha, quindi, evidenziato conclusivamente che sussisteva l’ipotesi del ruolo organizzativo e di promozione dei fatti associativi (pag. 41).

3.3) E’ appena il caso, infine, di ricordare che la manifesta infondatezza del ricorso preclude la possibilità di dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato di cui al capo a (maturata in data 9.2.2010, tenuto conto del periodo di sospensione di giorni 126;

e quindi successivamente alla emissione della sentenza impugnata).

Questa Corte si è pronunciata più volte sul tema anche a sezioni unite (per ultimo sent. n. 23428/2005 – Bracale). Tale sentenza, operando una sintesi di precedenti decisioni, ha enunciato il condivisibile principio che l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perchè contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591 comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, e art. 606 comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla d’ufficio. L’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi, ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale".
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti ai pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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