Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-01-2011) 10-05-2011, n. 18308 Dibattimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con Sentenza, depositata il 30.03.2010, la Corte d’Appello di Napoli, Sezione 7^, in parziale riforma della sentenza 19.06.2008 del Tribunale di Torre Annunziata, rideterminava la pena nei confronti di Bi.Gi. in anni 18 e mesi 6 di reclusione – ritenuto assorbito il reato di cui al capo H) in quello di cui al capo G -, riduceva la pena inflitta a C.A. ad anni 18 di reclusione, quella inflitta a B.A. ad anni 16 di reclusione e quella inflitta a S.E. ad anni 7 di reclusione.

Confermava la condanna inflitta in primo grado nei confronti di D.L., E.A., L.G. e R.A..

La vicenda oggetto della decisione, nella ricostruzione operata in sentenza, ha riguardo all’esistenza, o meglio permanenza, di una associazione a delinquere di stampo mafioso, promossa e diretta da D.L. e E.A. ed operante, attraverso la realizzazione di svariate attività illecite quali descritte nelle imputazioni, nella zona di Castellamare di Stabia sino al luglio 2005.

Tra le attività facenti capo alla consorteria vi era quella del commercio degli stupefacenti, organizzata, con predisposizione di mezzi e risorse umane, come un’articolazione della prima, diretta da A.G.B. gerarchicamente sottoposto a D.L. e E.A., ed operante attraverso le attività coordinate di numerosi soggetti tra cui:

gli odierni imputati Bi.Gi., C.A., B.A., L.G., R.A. ed altri (tra i quali Ap.Ca., V.L., I. L., O.A., D’.Ca.) giudicati separatamente con sentenza 12.2.2007 del GIP di Napoli.

La permanenza ed operatività del clan D’Alessandro sino al luglio 2005, la cui esistenza era stata già accertata con precedenti sentenze irrevocabili, era dimostrata secondo gli assunti della Corte d’Appello che ha condiviso le argomentazioni del Tribunale:

1) dalle sentenze irrevocabili citate a pag. 18 della sentenza di primo grado;

2) dalle propalazioni dei collaboratori di giustizia F. L., D’.Fe., provenienti dal clan Omobono – Scarpa contrapposto ai D’Alessandro, e P.V. già affiliato al clan Cesarano, i quali riferivano della esistenza pregressa ed attuale, all’epoca, del clan D’Alessandro che, dopo un periodo di non belligeranza, iniziò nel 2004 una faida con il clan Omobono – Scarpa, nel corso della quale furono uccisi o feriti numerosi soggetti appartenenti alle due consorterie contrapposte, e che impose la riorganizzazione dei D’Alessandro intorno alla figura di D.L., odierno imputato, dei diversi compartecipi tra i quali venivano indicati Mo.Se., S.E., L.G., A.G.B.;

3) dalle deposizioni degli investigatori, in particolare il capitano Ca. e il maresciallo Ma., sui risultati delle indagini, anche in riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori;

4) dal tenore delle intercettazioni, soprattutto ambientali, ma anche che telefoniche, dalle quali emergeva con evidenza sia l’esistenza dell’associazione a delinquere di stampo mafioso che il ruolo di capo della stessa di D.L..

Questi dal carcere, prima di essere sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis O.P., continuava a dirigerne le attività, dava incarichi, ad esempio, all’ A., per il tramite di E. A., di occuparsi del commercio di stupefacenti, impartiva disposizioni ai sodali sui compiti a ciascuno assegnati sulla distribuzione dei guadagni, anche derivanti dallo spaccio di droga, sulle gerarchie da rispettare in tale ambito, nonchè sulle vendette da consumare o per l’uccisione di persone affiliate al clan opposto, o in odio ai collaboratori.

Sempre dalle captazioni emergeva, quindi, l’esistenza di una cassa comune del clan, nella quale confluivano i guadagni illeciti e alla quale si attingeva per assistere le famiglie degli incarcerati e assicurare la difesa legale agli inquisiti, risultavano, inoltre, la disponibilità di armi per i consociati e i rapporti con l’appuntato Z., giudicato separatamente, il quale forniva supporto al clan riferendo notizie sulle operazioni di polizia giudiziaria programmate.

Da identici riscontri processuali, secondo la corte territoriale, era dimostrata l’esistenza dell’associazione diretta da A. L., organicamente e stabilmente inserita in quella di stampo mafioso tanto da costituirne una articolazione, dedita all’acquisizione ed al successivo spaccio di sostanze stupefacenti, e composta, con compiti diversi, dagli odierni imputati Bi.

G., C.A., B.A., L. G., R.A., nonchè da altri soggetti, già citati e giudicati separatamente.

Anche in questo caso le intercettazioni, telefoniche ed ambientali, i servizi di osservazione e controllo, le dichiarazioni dei collaboranti F. e P. unitamente al sequestro di ingenti quantitativi di cocaina, supportavano più che adeguatamente l’ipotesi accusatoria della sussistenza di una organizzazione efficiente, ben strutturata attraverso la predisposizione delle risorse umane e materiali, e finalizzata alle attività di spaccio.

Secondo quanto emerso dalle conversazioni captate attraverso la microspia collocata dai Carabinieri di Castellamare di Stabia nell’abitazione di A.G.B., era questi a coordinare l’attività del gruppo assicurando nel suo appartamento la custodia di ingenti partite di stupefacenti, avvalendosi della collaborazione della consorte T.N. quale contabile, servendosi del C. e del Bi. come fornitori e degli altri, compresi gli attuali imputati B.A., L.G., R.A., con mansioni diversificate ma fondamentalmente, per quel che li riguarda, di rivenditori al minuto.

A. intratteneva i rapporti con i fornitori C. e Bi., che provvedevano ad importare, anche dall’estero, le partite di stupefacente, si relazionava con i corrieri quali D’.Ca. e contattava, coordinandone le attività, i rivenditori di cocaina, come lo stesso D’.Ca. e la R., i quali provvedevano allo smercio minuto sulla piazza di Castellamare e dei comuni della costiera Sorrentina.

Dalla sua abitazione, dotata di telecamere esterne per monitorare l’arrivo delle forze dell’ordine ed, eventualmente, occultare le tracce delle attività di maneggio degli stupefacenti, l’ A. organizzava le risorse umane e materiali ed i mezzi attraverso cui il traffico doveva svolgersi in maniera ottimale e senza interferenze da parte delle forze dell’ordine, stipulando polizze assicurative temporanee per le autovetture adoperate da coloro che trasportavano lo stupefacente (come accaduto per l’autovettura su cui venne trovata la moglie del Bi. mentre trasportava un chilo di cocaina) o inducendo i sodali al continuo cambiamento delle schede telefoniche o all’utilizzazione di determinate utenze solo per veloci comunicazioni inerenti l’attività di immissione nel mercato della droga.

Riprova, poi, secondo la corte della circostanza che tutti gli imputati fossero partecipi del sodalizio è costituita anche dalle modalità di confezionamento dello stupefacente dentro involucri a forma di parallelepipedo costituiti da una camera d’aria avvolta con nastro adesivo, secondo modalità descritte dall’ A. e dai suoi fornitori nel corso di conversazioni captate nel giugno 2005;

in due distinte occasioni, infatti, una quando fu eseguito il sequestro nei confronti della moglie del Bi. e una quando venne rinvenuta a Casa di V.L., dentro la pattumiera, una confezione di tal fatta con tracce di cocaina, vennero riscontrate le suddette procedure di confezionamento della droga per il trasporto e lo smistamento.

La Corte di Appello, prima di vagliare le posizioni dei singoli ricorrenti, respingeva una serie di eccezioni in rito proposte dai difensori e generalmente comuni, o comunque estensibili, ad tutti gli imputati.

A) In primis rigettava siccome infondata l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado ex art. 525 c.p.p, proposta dai difensori di alcuni di essi.

Argomentava la corte territoriale che il dibattimento di primo grado ebbe concretamente inizio il 23.1.2007 e i due mutamenti nella composizione del collegio, avvenuti alle udienze del 11.4.2007 e del 21.9.2007 furono accompagnati dalla disposta rinnovazione del dibattimento; all’udienza del 12.2.2008, quando vi fu la terza sostituzione di uno dei giudici a latere e fu sentito il collaboratore D’.Fe., non fu espressamente decisa la rinnovazione, ma alla successiva udienza del 4.3.2008 il Tribunale, all’atto della chiusura dell’istruttoria dibattimentale, disponeva che "letto l’art. 511 c.p.p., dichiara utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento fin dall’origine e di quelli acquisiti nel corso del dibattimento medesimo".

I difensori, presenti sia all’udienza del 12.2.2008 che a quella del 4.3.2008 non solo nulla eccepirono ma neppure richiesero la rinnovazione dell’istruttoria, così sanando la nullità, ex artt. 182 e 183 c.p.p., col prestare implicito consenso alla utilizzazione degli atti assunti dal collegio in diversa composizione.

Precisava che la nullità comminata dall’art. 525 c.p.p. è assoluta ma non insanabile ed attiene all’acquisizione della prova ed alla sua oralità nel dibattimento ed alla immediatezza della deliberazione e non alla capacità del giudice ex art. 178 c.p.p., lett. a).

Tanto copre anche la doglianza sulla mancata possibilità per la difesa di esercitare le facoltà in ordine all’assunzione delle prove orali ex art. 190 bis c.p.p..

La deroga stabilita dal cit. 190 bis – secondo cui nei procedimenti per i delitti indicati dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, l’esame di un testimone o di un soggetto ex art. 210 c.p.p., che abbia già reso dichiarazioni in dibattimento ed in contraddittorio è ammesso solo se il giudice lo ritenga necessario – infatti, si applica anche in ipotesi di mutamento della persona del giudice.

Furono, quindi, le parti, omettendo di formulare qualsiasi richiesta in proposito a non attivare i poteri del collegio sulla necessità di un nuovo esame.

B) Riguardo alla nullità delle statuizioni concernenti i capi di imputazione A) E) e G) per la loro indeterminatezza, la corte territoriale confermava l’ordinanza resa dal Tribunale il 19.12.2006, impugnata anche se non richiamata specificatamente, e ribadiva che la formulazione delle imputazioni era compiutamente descrittiva in ordine sia alle fattispecie astratte che a quelle concrete e idonea, pertanto, a consentire il diritto di difesa.

C) Con riferimento alla dedotta incompetenza territoriale in relazione al capo E) concernente il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 la corte d’appello la riteneva ugualmente infondata, in ciò condividendo le motivazioni esposte nella ordinanza 19.12.2006, espressamente impugnata, del giudice di primo grado.

D) Riguardo alla doglianza concernente l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore P., perchè rese oltre il semestre collaborativo, come lamentato dai difensori del L., dello S. e del B., osserva la corte territoriale che esse vennero acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p., dato che egli era, nelle more, deceduto.

Confermava quindi l’ordinanza 11.2.2007 del tribunale.

E) La corte territoriale respingeva, poi, le richieste di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale relative a:

1) perizia sulla captazione ambientale del 14.7.2004 presso il carcere di Lecce;

2) ascolto della intercettazione ambientale del 14.6.2004 su tale Tu.Gi., richiesta nell’appello del D.L.;

3) escussione del teste diretto Bu. sulla partecipazione dello S. all’omicidio Zi. – D.G. come riferito de relato dal collaborante F.;

4) acquisizione del certificato del casellario giudiziario di ma.nu., zio del D.L..

Ricordava in proposito come l’istituto previsto dall’art. 603 c.p.p. abbia carattere eccezionale e debba trovare applicazione solo allorchè sia necessario perchè è impossibile, a causa della ambiguità dei dati probatori già acquisiti, per il giudice decidere allo stato degli atti.

Nel caso di specie, secondo la corte territoriale, le risultanze processuali, rispetto al thema decidendum, erano complete ed esaustive a fronte di invocate prove del tutto superflue o genericamente formulate.

F) Riguardo al contestato valore probatorio ex art. 192 c.p.p., comma 2, delle intercettazioni, che i difensori assumono non corroborato di idonei riscontri, ex art. 192 c.p.p., comma 3, a cagione della genericità ed ambiguità del contenuto e della non buona qualità delle captazioni, che le renderebbero non comprensibili, la corte d’appello ritiene che gli assunti difensivi siano efficacemente contrastati dalle valutazioni in fatto e diritto sviluppate, sul punto, dal primo giudice; rileva, poi, come la comprensione del contenuto delle captazioni sia agevole, sia perchè in taluni casi è palese sia perchè, in altri, quando il linguaggio è allusivo è facilmente decifrabile.

Altrettanto agevole è l’identificazione dei colloquianti, eccezion fatta per l’appellante C., per il quale la corte rimanda alla valutazione della sua posizione individuale.

G) Per quel che attiene alla contestata sussistenza delle varie aggravanti:

a) Per la corte erano armate tanto l’associazione ex art. 416 bis c.p. che quella D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74.

Ciò risulta dai fatti di sangue accertati, dalle dichiarazioni dei collaboranti sugli omicidi, perpetrati e non, e sulla disponibilità di armi, nonchè dal tenore delle intercettazioni.

Tra queste: quelle nelle quali A.G.B., già condannato per entrambe i reati associativi, ed altri interlocutori fanno esplicito riferimento a fucili, kalaschinkov, carabine ed altre armi, quella del 6.6.2005 in cui, sempre l’ A., discorre di acquisto di armi e si vanta, con il Bi. ed il C., di aver sparato ad una persona tra la folla e le captazioni trascritte ed afferenti ai propositi omicidiari nei confronti di affiliati al contrapposto clan Omobono – Scarpa. b) Le doglianze relative alla configurabilità delle aggravanti ex art. 80, D.P.R. sono considerate irrilevanti dalla corte perchè nessun aumento di pena, nei confronti di alcuno degli imputati, è stato apportato con riferimento ad esse. c) Con riguardo all’asserita insussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 i giudici di appello condividono e fanno proprie le valutazioni del primo giudice relative alle modalità operative, di chiara matrice mafiosa quali la spartizione del territorio, la conquista dell’egemonia nelle varie aree, l’eliminazione dei concorrenti, del sodalizio criminoso D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74.

L’associazione, attraverso le sue attività, era palesemente diretta ad agevolare il clan camorristico D’Alessandro, con il quale aveva in comune le figure di vertice e la contemporanea appartenenza di taluni affiliati, e le sue attività di commercio di stupefacenti si svolgevano, e dovevano svolgersi, secondo le direttive impartite da E.A. e D.L..

I proventi del traffico di stupefacenti, inoltre, erano in parte destinati a sostenere i detenuti del clan camorristico e le loro famiglie.

G) Riguardo alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

La corte d’appello ritiene non siano concedibili in ragione della gravità delle condotte degli imputati e delle modalità allarmanti della loro attuazione, nonchè per i loro precedenti penali, di certo rilievo e per taluno anche specifici.

In relazione al solo C., non attinto da precedenti condanne, l’incensuratezza non supera gli elementi di segno negativo non apparendo circostanza che, di per sè sola, possa giustificare un trattamento sanzionatorio più benevolo.

Venendo quindi a vagliare le posizioni dei singoli imputati la Corte d’Appello di Napoli sentenziava come segue:

1) – D.L.: non sussiste in capo a questi la fattispecie di "bis in idem" perchè la sentenza 21.10.2005 del GIP di Napoli aveva ad oggetto analoga, ma non identica, imputazione.

Diversa era infatti la struttura del clan, nell’imputazione attuale capeggiato da D.L., in quella di cui alla pronuncia del GIP di Napoli, diretto dal fratello D.P., diversa la modalità temporale dei fatti ascritti: quelli in attuale contestazione realizzati dal 2004 al luglio 2005, quelli della sentenza GIP di Napoli citata erano stati invece posti in essere nel periodo dal 2001 al 2003, giacchè a tale periodo si riferivano le intercettazioni e le dichiarazioni dei collaboranti poste a fondamento di quella decisione.

La penale responsabilità per i reati di cui all’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 era comprovata dalle intercettazioni, significative e dimostrative della sua funzione di capo sia della prima che della seconda consorteria in quanto, pur detenuto, per il tramite della moglie e dello zio B.A., era tenuto aggiornato delle attività dei sodalizi e decideva sulle modalità operative, in generale di entrambi, ed anche, in particolare, di quelle attinenti al commercio degli stupefacenti.

L’interpretazione delle conversazioni captate, sia singolarmente quella tra il D.L. ed il B. il 14.7.2004 nel carcere di Lecce nella quale fu detto "Noi dobbiamo prendere tutta Castellamare minimo", nel loro complessivo tenore e nella loro inequivocabile portata comprovano la sua posizione di capo di entrambe le associazioni: quella principale di stampo camorristico e quella, da questa gemmata, con finalità di gestione del traffico di stupefacenti.

Di qui la conferma della condanna ad anni 30 di reclusione dei quali 24 pena base per il delitto di cui al capo E) aumentata di anni 6 per quello di cui al capo A).

2) E.A.: sempre dalle intercettazioni, oltre che dalle dichiarazioni dei collaboratori, risulta che l’ E., affiliato dagli anni 80 e soprannominato " mu.", come riscontrato anche nella ambientale 4.8.2005 (carcere di Poggioreale) quando, nel corso di una conversazione con i coindagati, egli stesso fa riferimento a questo suo appellativo, era il referente per i consociati dediti al traffico di stupefacenti, sia per stabilire accordi con quanti gestivano commerci dello stesso genere nelle principali piazze della zona, che per estromettere i soggetti estranei e controllare in maniera più incisiva il territorio.

A. condivideva con E. questo progetto e, nel contempo, intendeva gestire una propria piazza e necessitava, per fare ciò, dell’avallo dell’ E., il quale sovraintendeva, per conto dell’associazione camorristica madre, tanto alla branca di attività relative allo spaccio che alle altre attività diverse del clan camorristico, in favore del quale era destinata parte dei ricavi del commercio di droga.

Anche l’ordine dato dal D.L. di eseguire omicidi nell’ambito della faida in corso con il clan Omobono – Scarpa, è trasmesso da E.A. ai sodali in posizione subordinata.

Che sia lui il latore della volontà del capo ai subordinati si comprende sia dai riferimenti fatti dagli intercettati alla sua età (50 anni), al luogo di residenza (Scanzano), nonchè dalla significativa circostanza, sempre emergente dalle captazioni, che egli, in considerazione dell’età e del suo ruolo di supremazia, avesse delegato l’esecuzione degli omicidi ordinati dal D. L. agli affiliati di minor rango.

La tesi difensiva sulla estraneità del prevenuto all’organizzazione dedita al traffico di droga, fondata sulla non condivisa, dalla corte territoriale, lettura di una unica conversazione, captata il 7.6.2005, ove si sosteneva che alcun accordo l’ E. aveva preso o attuato con gli affiliati al clan, trattandosi di un progetto ideato dall’ A., è contraddetta da tutte le altre captazioni.

Anche le asserite difficoltà interpretative delle intercettazioni e le critiche mosse alle dichiarazioni dei collaboranti, essendo circoscritte ad aspetti marginali e di scarso rilievo, non scalfiscono, a detta della corte d’appello, il solido impianto accusatorio.

3) B.A.: condannato in primo grado solo per il reato di cui al capo E) alla pena di anni 19 di reclusione, ed assolto ex art. 649 c.p.p., dal reato di cui al capo A), la corte territoriale ha accolto il suo appello limitatamente alla determinazione della pena che è stata stabilita in anni 16 di reclusione così calcolata:

pena base anni 12 aumentata, L. n. 203 del 1991, ex art. 7 di anni 4.

La responsabilità del B. è ampiamente provata dalle intercettazioni del 14.6.2004 presso il carcere di Lecce, ove egli si era recato per incontrare D.L., suo nipote, assieme alla moglie di questi, nonchè quella successiva del 26.7.2004.

Non sussiste la violazione dell’art. 521 c.p.p., assunta in atto di appello come conseguente al fatto che il delitto di cui al capo E) gli era stato contestato con condotta finale "sino al luglio 2005" laddove per l’imputato non vi erano prove in relazione ad epoca anteriore al suo arresto del 27.6.2004 e l’inizio della condotta andava collocato, secondo le deposizioni del capitano Ca. e del maresciallo Ma., al giugno 2004, posto che l’indagine, non essendovene altre in corso, era iniziata con l’intercettazione ambientale del 14.6. 2004 nel carcere di Lecce.

Dalle due captazioni, secondo l’appellante emergeva solo il proposito del B. di " costituire un gruppo che escludesse in ogni caso l’ A." proposito rimasto tale a causa dell’arresto, nè risultava in atti prova alcuna sulla partecipazione dell’imputato alla consorteria finalizzata al traffico di stupefacenti.

La tesi, per la corte territoriale, si fonda su una lettura distorta delle risultanze richiamate perchè, sia dalle intercettazioni che dalle deposizioni, nelle quali non si parla di costituire un gruppo dedito allo spaccio, bensì di riorganizzarlo il che, concettualmente, non può che evincersi che il gruppo già esistesse.

Vi sono poi le dichiarazioni dei collaboratori: il F. riferiva che B., da lui personalmente conosciuto, spacciava droga tra il Rione Santa Caterina ed il rione Fontana, la stessa piazza di A., ed era inquadrato nel clan D’Alessandro, al quale doveva versare parte dei proventi dell’attività; il F. dichiarava di aver avuto rapporti diretti con il B., al quale aveva anche venduto, per conto del clan Omobono – Scarpa, dei quantitativi di cocaina all’insaputa del D.L.; riferiva poi di contrasti, ai quali era stato presente, tra il B. e l’ A. per la gestione delle piazze e ricordava, in particolare, di una lite tra i due nel corso della quale l’ A. ribadì al B. la loro comune appartenenza al clan. Spiegava, infine il F., che, sin dall’inizio, tra gli obiettivi del clan Omobono – Scarpa vi era anche il B. in quanto appartenente al clan D’Alessandro.

Nè poteva esservi incompatibilità tra la posizione del B. e quella dell’ A. il quale sovrintendeva ad una struttura specializzata nel settore degli stupefacenti posta sotto la supremazia del capo indiscusso D.L. al quale era pure ascritto il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. 4) S.E.: condannato in primo grado solo per il reato di cui al capo A) alla pena di anni 10 di reclusione, assolto perchè il fatto non sussiste dal reato di cui al capo B), la corte territoriale ha accolto il suo appello limitatamente alla determinazione della pena che è stata stabilita in anni 7 di reclusione.

In relazione all’imputazione di cui all’art. 416 bis c.p. la corte, richiamandosi alle motivazioni di primo grado, ricorda le dichiarazioni dei collaboranti: il F. che ne parla come un affiliato del clan D’Alessandro, dedito alle estorsioni, rammenta quelle in danno di Fa. e di Po., ed agli agguati; il P. lo conosceva personalmente in relazione alle proprie attività estorsive e rammenta un episodio nel quale lo S., assieme a Sc.Gi., gli chiese, per conto del clan, di non portare a compimento una estorsione nei confronti di un amico dei D’Alessandro; anche il D’.Fe. ne riferiva come di un affiliato al clan dei suddetti.

Vi sono poi le testimonianze degli investigatori che, nel ricordare il ricompattamento dei due gruppi dei D’Alessandro, uno facente capo ai due fratelli D.P. e D.L. e l’altro ai due cugini degli stessi Pa. e Mi., a seguito della cruenta lotta con gli Omobona – Scarpa, riferiscono che reggente del primo era Mo.Se. e del secondo S. E..

Le intercettazioni, dimostrative della frequenza dei contatti e della intensità dei rapporti con gli stessi, anche dopo l’arresto dello S. il 16.4.2005, confermanti il suo pieno inserimento nel clan camorristico.

A fronte dei suddetti riscontri gli assunti difensivi circa le imprecisioni dei collaboratori, in particolare quelle del F. relative all’epoca dell’estorsione in danno di Fa., sono ritenute ininfluenti.

Infondate, poi, le critiche relative alle intercettazioni, concernenti l’identificazione dei soggetti colloquianti ed il contenuto delle conversazioni, e quelle concernenti la mancata audizione del teste Bu., attinente ad un aspetto circoscritto delle dichiarazioni del F..

Il quadro probatorio è poi rafforzato dalla estorsione in danno di Fa., la cui assoluzione in favore dell’imputato non impedisce una lettura delle risultanze processuali, in particolare della ritrattazione dibattimentale della vittima, che pure aveva compiutamente denunciato i fatti, riconosciuto lo S. e reso puntuali dichiarazioni al PM, in termini di conferma dell’appartenenza di quest’ultimo al clan D’Alessandro.

5) L.G.: condannato in primo grado alla pena di anni 17 di reclusione per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ed assolto in relazione a quello di cui al capo A) art. 416 bis c.p., per non aver commesso il fatto.

La sua responsabilità è comprovata sia dalle dichiarazioni dei collaboratori F. e P., sia dalle deposizioni degli operanti Capitano Ca. e Mar.llo. Ma., che dalle diverse intercettazioni nelle quali è certa la sua identificazione perchè vi è indicato con il nome o con il soprannome di " Br.".

La tesi difensiva della estraneità del L. all’associazione e della sua gestione in proprio di una attività di spaccio, ribadita in appello, non è sorretta da argomentazioni idonee e le prove richiamate a sostegno, quale un passo delle dichiarazioni del F., trascritto nell’atto di impugnazione, che invece conforta la tesi del giudice di primo grado che egli, come il B., spacciasse anche per conto proprio, il suo inserimento nell’associazione ex art. 74 capeggiata da A. è, infatti, con fermata anche dal P., le cui dichiarazioni circa lo spaccio nella zona di S. Caterina di competenza di A., confermano il collegamento tra i due, piuttosto che, come assunto dalla difesa, dimostrarne la sua assoluta autonomia.

Anche le risultanze delle intercettazioni, espressamente citate dalla difesa come incompatibili con la sua partecipazione all’associazione, si limitano ad evidenziare episodi di contrasto tra il L. e l’ A., relative a modalità di comportamento, di forniture o di pagamento, peraltro comuni anche ad altri affiliati e oggetto di commento da parte di questi, cosi che ne risulta rafforzato il legame tra i sodali e l’affermato inserimento del L. nella compagine dedita al commercio degli stupefacenti.

In via di diritto, poi, la sussistenza del vincolo associativo ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 è ravvisabile anche tra soggetti che si trovano in posizioni contrattuali contrapposte nella catena del traffico di stupefacenti, ovvero che operino in gruppi separati, eventualmente in concorrenza, sempre che i fatti costituiscano espressione di un progetto indeterminato volto al fine comune del conseguimento del lucro da essi derivante, e che gli interessati siano consapevoli del ruolo svolto nell’economia del processo associativo.

Infine, la corte reputa congrua la pena comminata in primo grado al L..

6) C.A.: ritenuto responsabile dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73 veniva condannato in primo grado alla pena di anni 19 e mesi 6 di reclusione, pena base per il primo reato anni 12, aumentata: di anni 4 per l’aggravante di cui alla L. n. 231 del 1991, art. 7 e di ulteriori anni 3 e mesi 6 per l’altro reato.

La corte di appello accoglieva il suo appello limitatamente alla determinazione della pena riducendo l’aumento per la continuazione in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ad anni 2.

La responsabilità del C., il quale insieme al Bi. fornisce all’ A. grossi quantitativi di droga è dimostrata in maniera inequivocabile dal contenuto delle intercettazioni tra i vari soggetti coinvolti, coimputati nel presente procedimento, come in altro definito con il rito abbreviato, si tratta di conversazioni alle quali spesso partecipa lo stesso imputato, la cui identificazione deriva, in maniera indubbia anche dall’attività investigativa, quale l’osservazione, diretta e contestuale alle intercettazioni, presso l’abitazione dell’ A., dalla quale venne visto uscire in data 11.7.2005, ovvero quando fu controllato, il 9 precedente, in compagnia del predetto e del Bi..

Dal tenore delle intercettazioni risulta che il Bi., " Lu.", ed " A." il C., si occupano entrambi, senza distinzione di ruoli ed avendo quale referente l’ A., della fornitura di grosse quantità di sostanze stupefacenti a favore del gruppo, nè è sostenibile, come asserito dalla difesa, in riferimento all’episodio della sostanza di tipo 28 che sia A. a tentare, senza riuscirci, di cedere stupefacente ai suoi interlocutori.

Il chiaro riferimento al notevole debito che A. ha nei confronti dei due, prova senza ombra di dubbio, che Lu. e C.A., si sono resi protagonisti di una serie continuativa di cessioni di sostanza stupefacente in favore dell’ A..

I motivi di appello non incidono sul solido quadro accusatorio.

Le eccezioni in rito sono infondate:

a) per la nullità del decreto di citazione per indeterminatezza dei fatti contestati ai capi E) e G) la corte rimanda alla parte generale della decisione;

b) non vi è stata violazione, in primo grado, del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ravvisabile secondo la difesa in conseguenza della modifica alla imputazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, effettuata dal PM in dibattimento, non essendovi stata modificazione sostanziale del fatto contestato, tanto da poterlo definire fatto nuovo rispetto all’accusa come precedentemente formulata, e non essendovi stato pregiudizio alla possibilità di difesa;

c) la reiezione della richiesta di rito abbreviato, formulata a seguito della modifica del capo di imputazione, non è stata illegittima.

I motivi in merito sono, per la corte d’appello, ugualmente infondati, totalmente ultronei quelli relativi alla attendibilità dei collaboratori ed alle loro dichiarazioni, dato che la responsabilità del C. non deriva da tali prove bensì dal contenuto, inequivoco, delle intercettazioni.

Generiche ed inconsistenti sono poi le doglianze relative alla certezza dell’identificazione del C. quale partecipe, o soggetto menzionato, delle conversazioni captate.

Il tenore di queste è, contrariamente a quanto affermato dalla difesa, ben intellegibile e pienamente significativo, come ritenuto dal tribunale, rispetto alla partecipazione del C. al sodalizio criminoso finalizzato allo spaccio di stupefacenti, nè tale partecipazione è esclusa, come sostenuto dalla difesa, dalla circostanza che egli avesse contatti con altri gruppi o soggetti, perchè ciò non porta a definirlo come un operatore autonomo, o un fornitore occasionale, in quel tipo di commercio quanto, piuttosto ne rafforza l’inserimento nella attività, per la quale era particolarmente esperto.

Nè i contatti e le cessioni con il gruppo dell’ A. sono stati sporadici o esigui, come afferma la difesa, dovendo comprendersi, tra questi, anche quelli tenuti per il tramite del socio Bi..

7) Bi.Gi.: ritenuto responsabile dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e di due episodi ex art. 73 veniva condannato in primo grado alla pena di anni 21 di reclusione, pena base per il primo reato anni 12, aumentata di anni 4 per l’aggravante di cui alla L. n. 231 del 1991, art. 7 di anni 3 e mesi 6 per il primo reato di cui all’art. 73 e di ulteriori anni 1 e mesi 6 per il secondo episodio ex art. 73.

La Corte d’appello riteneva assorbita la seconda imputazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nella prima, già contestata in continuazione, e riduceva l’aumento, per tale fattispecie, da anni 3 e mesi 6 ad anni 2 e mesi 6, con pena finale determinata in anni 18 e mesi 6.

La responsabilità del Bi., normalmente chiamato Lu., è provata dalle intercettazioni dalle quali emerge che egli, assieme al C., fornisce all’ A. e, quindi agli altri consociati ex art. 74, grossi quantitativi di droga, soprattutto cocaina.

Ha, in ragione di tali forniture, un cospicuo credito del quale, in diverse occasioni chiede il pagamento ad A., specificando anche che il danaro gli serve per recarsi in Spagna per comprare stupefacente.

Dopo l’arresto della moglie, trovata un possesso di un panetto di cocaina che trasportava nella macchina, la conversazione tra l’ A. ed il C. del successivo 11.7.2005, è significativa, così come molte altre, della continuità dei rapporti di rifornimento dello stupefacente dal Bi. all’ A..

E’ poi specificamente indicativa delle modalità operative del gruppo dell’ A., gruppo che nel suo complesso è l’interlocutore del Bi. e del C. per le forniture di stupefacente, tanto che la perdita economica conseguente all’arresto della Gi., moglie di Bi., ed al sequestro dello stupefacente che trasportava dovrà gravare per metà sul Lu. e per l’altra metà graverà sul capitale degli associati.

Lo stesso Bi. faceva parziali ammissioni.

Secondo la corte d’appello l’estraneità del Bi. all’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, sostenuta nel ricorso in appello, e assunta sulla base della lettura di alcuni passi delle intercettazioni, è efficacemente smentita dalla lettura globale delle captazioni e dalle deposizioni testimoniali, oltre che dalle parziali ammissioni dello stesso.

In diritto, sul punto, la corte richiama le valutazioni esposte trattando la posizione del C., anche egli fornitore, per lo più assieme al Bi., dell’ A., e non solo di costui.

Che non si trattasse, poi, di forniture occasionali ma che egli fosse inserito ne gruppo capeggiato dall’ A. è dimostrato:

1) dalle pregresse cessioni, ammesse dall’imputato, e dai crediti che egli aveva con l’ A.;

2) dai suoi stretti rapporti con costui, evincibili anche dall’assicurazione stipulata dall’ A. per pochi giorni per l’auto dove fu sequestrato lo stupefacente trovato alla moglie del Bi. il quale, in quella occasione, seguiva, su altro veicolo, quello condotto dalla Gi..

Di qui la fragilità degli assunti difensivi tendenti a dimostrare la sua ignoranza " dell’inserimento dell’ A. in un contesto più ampio, ovvero sulle rare forniture, ed, ancora, sull’assenza di un vero e proprio comune programma criminoso.

Tale programma, invero, secondo la corte era insito nel costante rifornimento proveniente dall’imputato al gruppo dedito allo spaccio.

8) R.A.: ritenuta responsabile dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74, 73 e 80 era stata condannata in primo grado alla pena di anni 19 di reclusione.

Pena base per il capo E) – D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 – anni 12 di reclusione, aumentata di anni 4 per l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 aumentata di anni 2 per il capo F) – D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 -, ulteriormente aumentata di anni per effetto della continuazione con i fatti per i quali era stata condannata con sentenza 8.3.2006 del GIP del Tribunale di Torre Annunziata.

Secondo la corte territoriale la responsabilità dell’imputata, la quale custodiva lo stupefacente presso la propria abitazione e lo spacciava ai vari acquirenti in stretta collaborazione con D’.

C. ed in continuo contatto con A., emerge inequivocabilmente dalle risultanze processuali quali: il tenore delle conversazioni intercettate, il riscontro del ritrovamento della cocaina presso la sua abitazione o in possesso dei diversi acquirenti, le sue parziali ammissioni e il suo arresto in data 14.6.2005.

Da tali emergenze risulta che la R. effettuava frequenti vendite al minuto dello stupefacente servendosi del figlio minore o di D’.Ca., e che aveva continuato l’attività anche mentre si trovava in custodia cautelare agli arresti domiciliari.

Le cessioni di si collocavano nell’attività dell’organizzazione dedita al traffico di stupefacenti che ruotava intorno ad A., come dimostrato dai frequenti contatti, dai comuni interessi, dalla condivisione degli scopi e delle modalità operative, attraverso i quali la R., così come gli altri coimputati, attuavano le illecite finalità perseguite dalla comune organizzazione.

Dalle cessioni di stupefacente la R. ricavava un reddito stabile e sicuro e per attuarle necessitava di un altrettanto stabile e sicuro canale di approvvigionamento che era costituito dall’organizzazione capeggiata da A.; gruppo nel quale ella era organicamente inserita come dimostrato dal debito che i coniugi A. le attribuivano nel conteggio dei proventi dello smercio di stupefacenti, i contatti che la stessa manteneva, anche per il tramite di D’.Ca. con gli A. che commentavano la situazione in cui si trovava o le davano suggerimenti su come operare, nonchè i rapporti che la stessa intratteneva con Z. E. il quale, in quanto carabiniere utilizzava le notizie da lui conosciute circa eventuali operazioni di PG per favorire l’ A., con il quale era in contatto grazie al ruolo determinante svolto dall’imputata.

1.2.- La difesa del D.L., avvocato Alfredo Gaito ricorre per Cassazione assumendo a motivi:

a) l’inosservanza di disposizioni del c.p.p. stabilita a pena di nullità, artt. 525, 190 bis e 511, del codice di rito e la manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p0.p., lett. c) ed e).

Specificamente allega che in occasione dell’udienza del 12.2.2008 il Tribunale, malgrado la presenza di un nuovo componente del collegio, diverso da quello che aveva partecipato all’intera istruttoria dibattimentale, omise, come risulta dal verbale di udienza, qualunque provvedimento in ordine alla dichiarazione di utilizzabilità, mediante lettura, anche attraverso la mera indicazione delle stesse, delle prove assunte.

La corte territoriale sul punto ha tratto due conclusioni errate.

La prima che l’inerzia della difesa all’udienza del 12 febbraio 2008 debba essere interpretata come implicito consenso alla rinnovazione mediante lettura della precedente attività dibattimentale;

ciò senza valutare che in assenza, non solo della effettiva lettura delle prove acquisite davanti a diverso collegio, ma anche di un qualunque provvedimento che formalmente esplicitasse, in maniera intellegibile, la decisione assunta dal tribunale circa il recupero e l’utilizzabilità degli atti già assunti, la parte privata non poteva certo esprimere atteggiamento alcuno.

La seconda che, comunque, la nullità prevista dall’art. 525 c.p.p., comma 2, benchè espressamente indicata dal legislatore come assoluta sarebbe sottoposta alla disciplina dell’art. 182 c.p.p..

Ricorda la difesa che l’art. 179 c.p.p., comma 2, stabilisce che "..sono altresì insanabili e sono rilevate d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge" e che l’argomentazione della sentenza gravata porterebbe alla conseguenza che potrebbero essere utilizzate nel processo penale prove aliunde acquisite senza neppure disporne la lettura, in evidente contrasto tanto con il disposto dell’art. 511 c.p.p. che con l’ineludibile insegnamento della Corte Costituzionale (sent. 9.3.2007 n. 67) secondo il quale ".. verificandosi un mutamento di persona fisica del giudice le prove acquisite dal giudice incompetente o da quello non correttamente composto non possono essere utilizzate senza lettura…". b) L’inosservanza di disposizioni del codice di rito stabilita a pena di invalidità, art. 649 c.p.p., e la manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. c) ed e).

Nel processo conclusosi con la sentenza di proscioglimento 21.10.2005 del GUP di Napoli era contestata al D.L. la partecipazione, con funzioni apicali all’omonimo clan e la durata di tale condotta era stata individuata a decorrere dall’anno 2001 fissando il momento finale con la formula "a condotta perdurante", laddove nel processo attuale il delitto si sarebbe protratto "sino al giugno 2005".

La affermazione della corte che il reato associativo già giudicato, con identica denominazione della consorteria ed identico radicamento territoriale, fosse diverso da quello in attuale giudizio, avrebbe richiesto la puntuale indicazione degli elementi di fatto che portavano alla suddetta conclusione.

In tal senso è priva di valore la considerazione che le condotte valutate dal GUP erano limitate agli anni 2001/2003, posto che nell’atto di appello era stato osservato che nei reati permanenti la contestazione aperta, conseguente alla ritenuta persistenza del vincolo associativo all’atto della celebrazione del processo, comporta che il momento finale della condotta coincida quello della pronuncia della sentenza. (Cass. Sez. 4^ sent. 4.10.2000 imp. Drago Ferrante, Cass. Sez. 5^ sent. 18.4.2008 n. 36928 imp. Pandolfino mass.N. 241579). c) Erronea applicazione della legge penale (art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

La corte d’appello ha omesso ogni considerazione in relazione alla circostanza che l’attività di spaccio di stupefacenti si atteggiava come una ulteriore attività illecita riferibile sempre allo stesso contesto associativo i cui aderenti si sarebbero dedicati al nuovo traffico che entrò a far parte del complessivo business della congrega; in conseguenza non ha fornito motivazione sul perchè abbia ritenuto che l’associazione dedita al commercio di stupefacenti fosse ulteriore e differenziata rispetto alla preesistente cosca mafiosa. d) Erronea applicazione della legge penale (L. n. 203 del 991, art. 7) e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

La completa sovrapposizione, quanto a partecipi e dinamiche associative, delle due strutture delinquenziali, clan camorristico e associazione per il commercio di stupefacenti, di cui al punto che precede, confligge con il rilievo, sulla base del quale poggia la comminatoria dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 che parte dei proventi del traffico di droga fossero destinati a sostegno dei detenuti del clan D’Alessandro. e) Erronea applicazione della legge penale (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74) e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

La decisione del D.L. di impegnare i pochi sodali, superstiti a piede libero, nel traffico di cocaina nella zona di Castellamare sarebbe stata assunta nel corso del colloquio tra questi e lo zio B. nel luglio del 2004 ma, dal 20 giugno del 2005, il D.L. fu sottoposto al regime del 41 bis O.P. che determinò la cessazione della pur ridotta partecipazione a quel sodalizio, realizzata con l’invio di "imbasciate".

La corte non ha fornito motivazione alcuna sul punto della posizione di organizzatore che pure gli ha attribuito, essendosi limitata a ribadire i contenuti delle intercettazioni di cui alle pagine 80 e 81 della sentenza di primo grado, senza che ciò soddisfi l’esigenza di verifica del ragionamento sottostante, e fornisca di adeguato contenuto probatorio all’affermazione che il D.L., essendo il capo dell’associazione mafiosa, fosse anche in posizione apicale in quella dedita al commercio di stupefacenti, necessariamente gestita da chi era in condizione di operare sul territorio.

1.3.- La difesa di E.A., avvocato Michele Santonastaso ricorre per Cassazione assumendo a motivi:

a) Violazione e falsa applicazione della legge penale sostanziale e procedurale in relazione all’art. 525 c.p.p., comma 2, art. 190 bis c.p.p., manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b).

La violazione dell’art. 525 c.p.p., comma 2, inficia per nullità assoluta, ex art. 179 c.p.p., comma 2, la sentenza di primo e quella di secondo grado.

Nei motivi di appello, non riscontrati dalla corte territoriale, la violazione dell’art. 525 c.p.p., comma 2, verificatasi all’udienza del 12.2.2008, quando a seguito della modificata composizione del collegio giudicante del Tribunale non si provvide a dichiarare riaperto il dibattimento, nè ad emettere provvedimento alcuno sulla utilizzabilità degli atti e delle prove acquisiti in precedenza, era stata eccepita.

E’ principio di diritto, secondo anche la vincolante interpretazione della Corte Costituzionale (sent. 9.3.2007 n. 67) che, in conseguenza del mutamento della persona del giudice, debba essere rinnovata l’istruttoria dibattimentale mediante lettura degli atti.

Ha dunque errato la corte d’appello sia nel riferire che l’esame del collaboratore D’.Fe., effettuata in quella udienza, fosse svolgimento di attività dibattimentale, laddove si trattava di attività integrativa ex art. 507 c.p.p. come riferito nell’atto di appello, che nel ritenere che, nulla avendo eccepito le parti presenti, sia stata sanata, ex artt. 182 e 183 c.p.p., l’utilizzabilità degli atti svolti dal precedente collegio, anche in ragione della successiva ordinanza ex art. 511 c.p.p. resa dal Tribunale all’udienza del 4.3.2008.

Anche la giurisprudenza di legittimità citata nella sentenza impugnata a conforto della decisione sul punto, testualmente, riguarda fattispecie diversa, in quanto relativa a parti che non hanno richiesto esplicitamente la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, da quella in esame nella quale la lettura non vi è stata, così come è mancato un provvedimento di rinnovazione del dibattimento.

Solo in presenza di una ordinanza di rinnovazione dibattimentale si sarebbe potuto ritenere, in presenza di inattività delle parti, il loro implicito consenso alla acquisizione, mediante lettura, degli atti già svolti dal diverso collegio;

b) Violazione e falsa applicazione della legge penale sostanziale e procedurale, vizio di motivazione e travisamento (art. 606 c.p.p., lett. b), e art. 603 c.p.p.).

La corte d’appello ha erroneamente applicato la legge procedimentale penale nel respingere la richiesta di rinnovazione dibattimentale, secondo quanto richiesto nello specifico motivo di appello, attinente alla interpretazione della intercettazione ambientale del 14.7.2004 presso il carcere di Lecce.

L’ascolto della conversazione in aula avrebbe consentito, per la celerità del mezzo istruttorio da celebrarsi, di risolvere i dubbi interpretativi conseguenti a due perizie contrastanti da parte dei componenti del collegio dei periti trascrittori del Tribunale ed ad un ulteriore, e differente esito, della perizia difensiva di parte.

E che si trattasse di un punto incerto, conseguente anche ad un atteggiamento non del tutto lineare del giudice di primo grado, si evince dal verbale, riprodotto in ricorso, dell’udienza dell’11.12.2007.

La violazione di legge consegue laddove, alla parzialità del giudice di primo grado, fa riscontro la omessa motivazione di quello di appello, il quale avrebbe, invece, dovuto disporre la rinnovazione dibattimentale. c) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

I giudici di secondo grado, ricalcando la motivazione di quelli di primo, ritengono che il ruolo di E. sia quello di sostituire il capo D.L..

Si tratta di motivazione illogica posto che l’attività preparatoria dell’associazione, come risulta dalla stessa sentenza, era svolta dallo zio del D., ma. e che, alla morte del ma., il programma fu gestito e diretto dal B. il quale, alla stregua delle imputazioni, era colui che gestiva le piazze di spaccio.

Nessuna condotta specifica viene addebitata all’ E. in proposito e nessun riscontro è riportato nelle motivazioni, sia di primo che di secondo grado, sul suo ruolo di trait d’union. In particolare la conversazione del 7.6.2005, non contraddetta dalle risultanze probatorie a riscontro di dette intercettazioni, conferma la lettura che si trattava di progetto ideato da altri e non coinvolgente il ricorrente.

Con motivi aggiunti, depositati il 30.12.2010, da altro difensore all’uopo nominato, avv. Laura Arena, vengono esposte le seguenti doglianze:

a)- Violazione e falsa applicazione della legge penale sostanziale e procedurale e vizio di motivazione in relazione all’art. 525 c.p.p., comma 2, e art. 190 bis c.p.p..

Lamenta che ha errato il giudice di primo grado nell’esperire istruttoria dibattimentale e, successivamente emettere ordinanza ex art. 511 c.p., senza precedentemente espletare alcun atto di riapertura del dibattimento e di rinnovamento dello stesso, quando poi è stata emessa l’ordinanza ex art. 511 c.p.p., ciò è avvenuto nell’ambito di un processo già nullo. b)- violazione e dell’art. 606, lett. e) per illogicità della motivazione e violazione di legge.

Si duole con questo motivo, ancorato al terzo motivo principale, che illogicamente la sentenza gravata ricolleghi al ruolo indicato dai collaboratori le risultanze delle intercettazioni ambientali, la cui interpretazione è stata erroneamente ritenuta corollario delle propalazioni.

Mai i collaboranti hanno parlato di un ruolo dell’ E. nella associazione dedita al traffico di stupefacenti e che, per l’altra associazione, le propalazioni degli stessi riguardano la vicenda associativa pregressa per la quale egli è già stato condannato.

1.4.- La difesa di B.A., avvocato Alfonso Piscino ed avvocato Antonio Zecca ricorre per Cassazione assumendo a motivi:

Violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 426 c.p.p., comma 1 lett. d), e art. 111 cost. in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) e c). – Manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). – Violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b). – Violazione dell’art. 192 c.p.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e lett. c).

Assume il ricorrente che la motivazione della sentenza gravata sia meramente apparente limitandosi a rinviare a quella di primo grado.

Premesso che il B. è stato assolto dalla contestazione relativa alla partecipazione all’associazione di stampo mafioso di cui al capo A), perchè già giudicato ed assolto in altro giudizio per cui nei suoi confronti non dovrebbero essere utilizzabili quei riscontri serviti per affermare la penale responsabilità di coloro per i quali è stata invece ritenuta la sussistenza del reato associativo di cui all’art. 416 bis c.p..

Poichè il B. è stato assolto in via definitiva da tale delitto la corte d’appello, che invece ha integralmente condiviso l’impianto probatorio come valutato dal giudice di primo grado, sarebbe dovuta pervenire, valutando correttamente la valenza di siffatta assoluzione, a risultati valutativi opposti a quelli del Tribunale in relazione alla condanna per D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Infatti la sentenza oggetto del ricorso, partendo dalla incontrastabilmente accertata, in forza di sentenze passate i giudicato, esistenza del clan D’Alessandro, e facendo coincidere le risultanze processuali, dimostrative della permanenza di quella associazione, con quelle comprovanti la sussistenza anche della associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, non ha minimamente esposto le ragioni per le quali il B., estraneo al clan camorristico, sarebbe invece stato partecipe dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, ha natura di reato a dolo specifico e per la sua configurabilità richiede una prova fondata sulla continuità, intensità ed interdipendenza delle condotte, nonchè la coscienza e volontà di apportare un contributo con la condotta specificata, soprattutto se l’associazione risulta essere aggravata dallo scopo di agevolare l’associazione camorristica.

Le intercettazioni utilizzate per provare la partecipazione del B. si basano su indizi indiretti, privi delle caratteristiche della gravità, precisione e concordanza ex art. 192 c.p.p., comma 2, poichè si limitano a fornire solo contenuti ideativi, non certo organizzativi, ed insussistenti anche in termini di tentativo.

L’iter logico motivazionale è dunque carente, innanzi tutto, nella parte in cui avrebbe dovuto operare una verifica attenta dei risultati delle intercettazioni, nonchè delle dichiarazioni del pentito F., generiche e non riscontrate in violazione del comma 3, dell’art. 192 c.p.p..

I giudici di merito indicano nelle intercettazioni e nelle dichiarazioni dei collaboratori gli elementi sui quali hanno fondato il loro convincimento, ma il loro esame di quegli elementi è stato sommario e superficiale.

Per il B. hanno infatti totalmente trascurato che alla data del 26.7. 2004, data di inizio della sua detenzione, nei suoi confronti non vi era prova alcuna di adesione al sodalizio criminoso, nè i giudici hanno sviluppato alcuna specifica analisi sulla reale ravvisabilità dell’elemento soggettivo del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nè hanno individuato, attraverso la descrizione di specifici episodi di acquisto e successiva cessione di stupefacente, un suo ruolo concreto nell’associazione, con indicazione delle modalità temporali, la localizzazione delle operazioni e l’entità delle stesse in relazione alla quantità di droga movimentata ed al valore della stessa, circostanze dalle quali sarebbe stato ricavabile e definibile, in termini di entità e rilevanza, il contributo dato all’associazione.

Sul ruolo attribuito al B. con riferimento alla intercettazione del 14.6.2004, ritenuta emblematica dai giudici di merito, esso appare invece assolutamente modesto ed equivoco quanto a valenza propulsiva.

E’ poi del tutto contraddittoria la motivazione laddove dalle risultanze della intercettazione fa discendere il proposito di riorganizzazione e non la concreta organizzazione del gruppo di cui fa parte il B., ed è lecito dubitare che, dati gli arresti ed contrasti sussistenti tra i diversi personaggi coinvolti, la riorganizzazione vi sia stata.

In sostanza nessuno degli argomenti posti a base della decisione di condanna nei confronti del B. è sostenuto da evidenze probatorie adeguate a dimostrare che egli abbia fornito un contributo causale all’associazione con il quale abbia favorito, o comunque facilitato, la realizzazione del programma e dell’attività criminale della stessa.

1. 5.- La difesa L.G., avocato Domenico Ducci, ricorre per Cassazione assumendo a motivi:

1) – Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), sotto il profilo della erronea applicazione di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nella applicazione della legge penale in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nonchè dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), sotto il profilo della mancanza di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 1 e 3, – vizio quest’ultimo risultante dal testo del provvedimento.

La sentenza impugnata denota macroscopici vizi motivazionali in relazione alla mancata verifica della richiesta rivisitazione della regola di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., per la quale le chiamate in reità o in correità, devono essere valutate unitariamente con altri elementi di prova che ne corroborino l’attendibilità in termini di riscontro. Sul punto la corte si è limitata a richiamare genericamente l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado, con una condivisione valutativa che, di fatto, anche a fronte delle prospettazioni difensive circa la valenza della portata accusatoria delle propalazioni dei collaboratori, in specie F. e P., si è tradotta in una omessa motivazione.

Analoghe considerazioni valgono in relazione al significato attribuito alle conversazioni intercettate dalla corte, che le ha ritenute idonee, in generale, a configurare l’esistenza di una associazione dedita al traffico di stupefacenti ma, anche, in particolare, nonostante le incongruenze segnalate nelle doglianze in appello per cui, per quel che riguarda il L., esse deponevano per una attività svolta in assoluta autonomia e senza comune gestione di introiti, del pari adeguate anche a confortare l’accusa per il nominato di essere partecipe di tale associazione.

2) – Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonchè dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) sotto il duplice profilo della erronea applicazione di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nella applicazione della legge penale e della mancanza di motivazione relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, – vizio quest’ultimo risultante dal testo del provvedimento.

La corte di appello ha verificato con superficialità, disattendendole, le doglianze della difesa concernenti la sussistenza dell’aggravante della disponibilità di armi, non solo per l’associazione ex art. 416 bis c.p., ma anche per quella di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Anche sul punto si è limitata a richiamare le argomentazioni del primo giudice, con ciò disattendendo l’obbligo di verificare se, come lamentato nell’atto di appello, vi fosse stata una commistione valutativa sulla base della quale essendo risultata armata la prima associazione dovesse esserlo, in conseguenza e senza necessità di autonoma dimostrazione, anche la seconda.

Nè tale autonoma dimostrazione poteva essere desunta dalla circostanza della mera coincidenza soggettiva di alcuni sodali, essendo, invece, necessario vagliare le singole condotte soggettive, al fine di valutare se la disponibilità di armi fosse uno specifico tratto distintivo dell’organizzazione dedita al commercio degli stupefacenti, ciò anche a fronte del fatto che il fondamento probatorio della ritenuta disponibilità di armi da parte di entrambe le associazioni, si basa unicamente sugli esiti delle intercettazioni ambientali, non vi sono stati, infatti, ritrovamenti o sequestri di queste, nè dalle intercettazioni è risultato che esse fossero custodite assieme allo stupefacente, ovvero che fossero state adoperate per eseguire trasporti di droga.

Anche sul punto, dunque, la sentenza impugnata non solo appare errata nell’applicazione della norma sostanziale di riferimento, il comma 4, dell’art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, ma, anche, viziata dalla mancanza di un impianto motivazionale adeguato.

2) – Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), sotto il profilo della mancanza di motivazione relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., lett. e), e L. n. 203 del 1991, art. 7 – vizio risultante dal testo del provvedimento.

Le ragioni poste dalla corte d’appello a sostegno della confermata sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 si risolvono in un impianto motivazionale meramente apparente, privo coerenza e conferenza rispetto alla vicenda concreta nel suo complesso e, in particolare, con riferimento alla singola posizione del L., peraltro assolto dall’imputazione ex art. 416 bis c.p..

Piuttosto, l’accertamento della sussistenza della aggravante di cui trattasi, secondo anche la corte di legittimità, deve essere condotto in maniera oggettiva, tenendo conto del conteso in cui si svolge l’azione e, soprattutto, analizzando il tipo di comportamento posto in essere alla luce della definizione fornita dall’art. 416 bis c.p. espressamente richiamato dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 dovendo caratterizzarsi l’agire per una forma particolare di coazione psicologica sulle persone, l’intimidazione delle quali derivi dall’evocazione dell’organizzazione criminale della specie considerata.

E’ quindi necessario che nella condotta positiva degli autori del delitto aggravato vi sia, chiara ed evidente, l’esteriorizzazione dei sintomi di mafiosità.

La corte d’appello ha, invece, erroneamente proceduto ad una commistione valutativa tra il piano dell’associazione ex art. 416 bis c.p. e quella di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, per cui dalla accertata presenza ed operatività della prima, ha tratto, senza ulteriori passaggi argomentativi ancorati a specifiche risultanze fattuali, la conclusione che la condotta integratrice della seconda fosse circostanziata sia dal metodo che dall’agevolazione mafiosa.

Ed invero, considerato il presidio argomentativo esplicitato dalla corte, ed incentrato sul presunto accertamento della destinazione dei proventi della attività di gestione del traffico di stupefacenti al sostentamento dei detenuti del clan e dei loro familiari, tale affermazione è, invece, smentita dalle risultanze processuali, posto che le illecite risorse erano destinate ai soggetti incarcerati appartenenti, non alla associazione ex art. 416 bis c.p., bensì a quella di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. 1.6.- La difesa S.E., avvocato Massimo Brunetti, ricorre per Cassazione assumendo a motivi:

1) – Inosservanza di disposizioni del codice di procedura penale stabilite a pena di invalidità (artt. 525, 190 bis e 511 c.p.p.).

Manifesta illogicità della motivazione.

La corte di appello ha completamente travisato, e sostanzialmente non compreso nei giusti termini, la questione di nullità prospettata nei motivi di appello.

Secondo la Corte l’inerzia della difesa all’udienza del 12.2.2008, quando il tribunale, pur in presenza di un nuovo componente del collegio che non aveva partecipato a tutta la precedente istruttoria, omise qualunque provvedimento in ordine alla dichiarazione di utilizzabilità mediante lettura, andrebbe interpretata quale implicito consenso alla rinnovazione, mediante lettura, degli atti assunti dal precedente collegio e che, in ogni caso, la nullità prevista dall’art. 525 c.p.p., comma 2, indicata dal legislatore come assoluta, dovrebbe sottostare alla disciplina dell’art. 182 c.p.p..

In mancanza di qualsiasi deliberazione sul punto da parte del tribunale nessuna eccezione poteva essere sollevata dalla difesa;

solo in presenza di una decisa e dichiarata rinnovazione ed a fronte del silenzio della parte l’osservazione della corte d’appello avrebbe avuto un senso.

Non è poi condivisibile la conclusione relativa alla possibilità di sanatoria della nullità assoluta quale prevista dall’art. 179 c.p.p., comma 2, la lettura proposta dalla corte, infatti, porterebbe a ritenere acquisibili ed utilizzabili atti in dibattimento addirittura privi di lettura, con evidente stravolgimento del tenore dell’art. 511 e, soprattutto, dell’insegnamento preciso della Corte Costituzionale di cui alla sentenza 9.3.2007 n. 67. 2) – Erronea applicazione della legge penale (art. 416 bis c.p.).

Manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Mancanza di Motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Lamenta il ricorrente che la corte di appello abbia aderito in toto, senza peraltro esplicitarne le ragioni, alle motivazioni del giudice di primo grado nonostante le doglianze difensive fossero articolate in funzione della puntuale contestazione della impostazione assunta dal tribunale in relazione alla piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaborante F. riportate atomisticamente, senza rilevarne le contraddizioni, le negazioni e le incoerenze.

Allo stesso modo è stata totalmente omessa qualsiasi risposta alle obbiezioni, contenute nei motivi di appello, ai criteri interpretativi dei risultati delle intercettazioni, nonostante le puntuali indicazioni circa le captazioni per le quali la lettura del primo giudice si appalesava erronea e contraddittoria rispetto ad altre risultanze dibattimentali e mal conciliabile con le deposizioni dei collaboratori.

L’assunto, apodittico, di infondatezza sugli indicati punti di doglianza espresso dalla corte non consente di ricostruire il percorso motivazionale sotteso a tale giudizio.

3) erronea applicazione della legge penale (art. 192 c.p.p., comma 3)- Manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Agli assunti della difesa, che indicavano concreti elementi di verifica, relativi alla assoluta mancanza di coesione delle dichiarazioni dei collaboratori, in primis quella del F., totalmente disancorata dalle altre sue dichiarazioni, alla quale venivano poste, quale riscontro, quelle generiche ed evanescenti del P. e del D’.Fe..

Invece di procedere alla verifica incrociata delle propalazioni le si assomma nonostante le dichiarazioni riferiscano di fatti appresi de relato, o come nel caso di P. di circostanze sganciate dall’imputazione ascritta allo S..

4) Erronea applicazione della legge penale (art. 195 c.p.p.).

Manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Non si comprende, in relazione alla lamentata mancata escussione del teste di riferimento ex art. 195 c.p.p. Bu.Do., quale sia il significato della decisione della corte, se esso sia di accoglimento della eccepita inutilizzabilità delle dichiarazioni del F. sul punto dell’omicidio Zi. – D.G., ovvero di rigetto, posto che l’episodio è uno degli elementi dai quali la corte fa discendere la responsabilità dello S. in ordine alla partecipazione al sodalizio criminale.

5) erronea applicazione della legge penale (art. 416 c.p., commi 1, 4, 6 e 7).

Manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e). Mancanza di Motivazione.

Riguardo alle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., per quella di cui al comma 6 il tribunale, come dedotto nei motivi di appello, nulla aveva motivato e per quella di cui al comma 4, era stato segnalato che essa, non poteva riferirsi alla posizione S..

Sulla prima aggravante nulla la corte ha detto e sull’altra, visto il richiamo recettizio alla sentenza di primo grado, la corte si è riferita, per ribadirne la sussistenza, alle captazioni ambientali all’interno dell’abitazione dell’ A. del 6.6.2005.

Sul punto si segnala che l’aggravante in parola non può estendersi allo S. perchè egli era stato tratto in arresto, per altro fatto, nel marzo 2005, prima dell’inizio delle intercettazioni al domicilio dell’ A.; l’eventuale disponibilità di armi di quest’ultimo e i suoi propositi omicidiari, in mancanza di altri riscontri circa la consapevolezza che poteva averne lo S. in periodo successivo alla sua incarcerazione, non possono essere a lui estesi automaticamente.

6) erronea applicazione della legge penale (art. 133 c.p.). Manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Mancanza di Motivazione.

La corte d’appello in punto di determinazione della pena ritiene che sia da stimarsi equa quella di anni 7 di reclusione, senza fornire motivazione alcuna sui criteri attraverso i quali, a mente di quanto stabilito dal’art. 133 c.p., è pervenuto a tale quantificazione.

1.7.- C.A. ricorre per Cassazione, a ministero dei difensori avv. Giovanni Aricò, avv. Saverio Senese assumendo a motivi:

1) – Art. 606 c.p.p., lett. b) c) ed e). Manifesta illogicità della motivazione e violazione di legge in relazione all’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c), artt. 2, 181, 516, 521, 522 c.p.p. nonchè artt. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), e art. 125 c.p.p..

E’ evidente la violazione di legge nella quale è incorsa la corte di appello per aver confermato la sentenza di primo grado e le ordinanze dibattimentali con le quali era stata respinta la questione di nullità del giudizio per assoluta genericità del capo E) e del capo G) dell’imputazione.

La ratio della norma è quella consentire all’imputato di addurre prova contraria a quella che sorregge l’accusa, e ciò in tanto è possibile in quanto l’accusa stessa sia esposta in forma chiara e precisa e il fatto addebitato sia individuato, e portato a conoscenza, nella sua collocazione sia temporale che spaziale.

Nel caso di specie sono state contestate più ipotesi di cessione, ovvero di trasporto e/o di detenzione di stupefacenti, tutte collocate in un periodo di 40 giorni, senza specificazione circa i singoli momenti in cui le condotte sarebbero state realizzate, e senza individuazione, neppure approssimativa, del dato spazio temporale rispetto al quale potesse, ad esempio, darsi prova della non compatibilità dell’assunto accusatorio con dati di fatto antitetici rispetto all’accusa.

L’imputazione formulata, come nel caso di specie, attraverso la riproduzione il contenuto astratto della fattispecie incriminatrice non consente neppure di individuare gli quali siano gli elementi eventualmente passibili di confutazione.

Inoltre, nonostante il PM avesse modificato l’imputazione all’udienza del 19.12.2006, veniva rigettata la richiesta di giudizio abbreviato sebbene la modifica integrasse fatto diverso.

E nessuna motivazione era sviluppata sulla eccepita, ma non ritenuta, mancanza di correlazione tra l’accusa e la sentenza.

2) – Art. 606 c.p.p., lett. b ed e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, all’art. 192 c.p.p., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e).

La sentenza impugnata riproduce quella di primo grado ed ignora le devoluzioni difensive, o si limita a respingerle senza neppure indicarle.

In primo luogo non motiva adeguatamente e logicamente sulla identificazione del C. quale interlocutore nelle conversazioni captate.

In relazione a quanto espressamente sottoposto alla sua attenzione riguardo alle dichiarazioni degli operanti della polizia giudiziaria, in particolare il capitano Ca., il quale riferì che l’interesse investigativo per il C. era da ricondurre al periodo 1/11 luglio 2005.

In proposito con l’appello era stato evidenziato come la contestazione relativa al delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 avesse una durata di gran lunga superiore rispetto all’ipotetico contributo fornito dal C. e quindi la pretesa attività di fornitore fosse riconducibile ad un momento circoscritto rispetto alla durata del vincolo associativo, con evidente valenza, di tema contrario, rispetto alla stabilità quale requisito sul quale deve esservi puntuale accertamento perchè possa essere ritenuta sussistente la condotta partecipativa.

Ma sul punto la motivazione della corte manca fisicamente laddove i giudici si limitano ad affermare che "i motivi di appello redatti dai difensori non riescono ad infirmare il solido impianto accusatorio" e ciò sarebbe già sufficiente per l’annullamento.

Riguardo poi agli altri elementi tipici della condotta associativa, in particolare con riferimento all’elemento psicologico, che avrebbe dovuto accompagnare il comportamento di stabile fornitore dell’associazione, ascritto al C., la sentenza si connota per l’erroneità, laddove si limita ad affermare la stabilità del contributo dell’imputato, senza minimamente dimostrare, attraverso l’individuazione di dati di fatto, la non determinabilità, sul piano temporale, della disponibilità a svolgere quel ruolo in favore della consorteria.

La condotta in concreto attribuita al C., nella prospettiva associativa, è quella di fornitore, ma anche se tale condotta fosse dimostrata dovrebbe comunque essere accertato, in termini di sussistenza, il dolo specifico dell’associazione a delinquere in esame; ma la corte, a fronte delle circostanze evidenziate di segno contrario od opposto, rispetto alla comunanza di interessi, anche economici che dovrebbe caratterizzare il vincolo associativo, quali il debito dell’ A. nei confronti del C. e del Bi., omette di fornire logica e puntuale motivazione.

Sul punto poi degli specifici riscontri probatori, pur dando atto che nessuno dei collaboratori ha mai riferito di conoscere il C., assume la corte che la sua responsabilità, tanto in ordine al reato di cui all’art. 74 che a quello di cui all’art. 73, sia dimostrata del tenore inequivocabile delle intercettazioni, e si tratta di sole tre captazioni del 1.6.2005, del 6.6.2005 e dell’11.7.2005 la cui non conferenza rispetto alle accuse, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo e di contenuti, era stata ben illustrata nei diversi atti di appello proposti nell’interesse del C..

3) Art. 606 c.p.p., lett. b ed e) in relazione all’art. 59 c.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4.

I giudici di appello, nella parte generale della sentenza, attribuiscono al C. la consapevolezza della presenza di armi mutuandola dal contenuto di una intercettazione in cui l’ A. parlerebbe di armi in possesso dei sodali dell’associazione mafiosa ed usati per gli scopi di questa.

Il ragionamento della corte per cui esistendo due associazioni, di cui una, quella ex art. 74, sottogruppo dell’altra, delle quali la prima abbia la disponibilità di armi per il conseguimento dei suoi fini anche la seconda debba essere ugualmente connotata dalla medesima disponibilità, non è condivisibile.

Non vi è infatti dimostrazione che armi vi fossero nella disponibilità dei partecipi del sodalizio dedito al commercio di stupefacenti, in parte diversi da quelli associati a fini mafiosi, o che esse fossero funzionali alla realizzazione degli scopi del sodalizio, di qui l’erronea estensione della specifica aggravante anche al C., asseritamente partecipe solo del secondo sodalizio, il quale, sulla base dell’unico riscontro che lo coinvolge sul punto, una captazione del luglio 2005, risulta solo avere appreso che l’ A. aveva delle armi a disposizione.

4) Art. 606 c.p.p., lett. b ed e) in relazione all’art. 7, L. n. 201 del 1991, art. 59 c.p..

La sussistenza dell’aggravante di ci all’art. 7 è basata solo sulla parziale coincidenza tra i partecipi dell’una e dell’altra associazione senza dimostrazione alcuna che i consociati ex art. 74 adottassero condotte connotate dal metodo mafioso ovvero, consapevolmente, finalizzassero il loro agire al vantaggio dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p..

Per quel che riguarda il C., poi, la sentenza impugnata gli attribuisce l’aggravante solo in ragione della sua ritenuta sussistenza oggettiva, senza alcuna indicazione dei profili di consapevolezza o di colpevole ignoranza, pure richiesti dall’art. 59 c.p..

5) Art. 606 c.p.p., lett. b ed e) c.p.p. in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

In ordine al reato di cui all’art. 73 l’unico riferimento probatorio indicato in sentenza, e non ex professo, riguarda l’esistenza di un debito che l’ A. aveva con il C. ed il Bi., dal quale i giudici inferiscono che sarebbe riferibile alla compravendita di stupefacenti.

Ma a causa della inizialmente denunciata indeterminatezza dell’imputazione il problema probatorio dell’individuazione dei tempi, dei modi e del quantitativo della sostanza ceduta rimane irrisolto, per cui l’accusa è affermata ma non provata.

6)- Art. 606 c.p.p., lett. b ed e) in relazione all’art. 62 c.p..

La sentenza non riconosce al C., pur giovanissimo ed incensurato, le attenuanti generiche a cagione della gravità delle condotte e delle modalità allarmanti della loro commissione, ma identiche ragioni hanno determinato, ex 133 c.p. l’individuazione della pena base.

Sulla mancata concessione delle attenuanti generiche la corte nulla risponde alla pur puntuale richiesta presentata nell’atto di appello.

Con memoria datata 5.1.2011 il difensore avv. Aricò insiste sui motivi di ricorso già proposti anche dall’altro difensore avv. Senese ed evidenzia due motivi di nullità, peraltro già trattati e comuni anche ad altra imputata dallo stesso assistita, e relativi alla mancanza del dolo specifico in riferimento all’ipotesi associativa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 ed alla non configurabilità delle aggravanti ad essi attribuite, art. 74, comma 4, e L. n. 231 del 1992, art. 7 in riferimento alle quali sottolinea la particolare onerosità dei loro effetti, soprattutto della seconda, anche in riferimento alla successiva esecuzione della pena.

1.8. Bi.Gi. ricorre per Cassazione, a ministero dei difensori avv. Sergio Cola e avv. Renato Jappelli assumendo a motivi:

1) – In relazione al capo E) della rubrica, art. 606, lett. b) per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e art. 606, lett. E) per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione;

la Corte d’appello ha ritenuto, aderendo alla precedente decisione del tribunale, che il Bi. fosse affiliato all’associazione ex art. 74 esclusivamente in ragione delle plurime cessioni di stupefacente operate in favore dell’ A. e dallo stretto rapporto che vi era tra questo, da un lato, e Bi. e C., dall’altro.

Nessun ulteriore elemento è posto a conforto della affermata responsabilità, il Bi. non ha mai avuto contatti con altri soggetti della compagine criminale nè risulta che egli fosse stato portato a conoscenza della esistenza di una struttura organizzata, capeggiata da A. finalizzata allo spaccio.

Ciò è desumibile dalle stesse intercettazioni riportate e richiamate in sentenza, che dimostrano che egli avesse rapporti solo con A., così come anche interpretate nel provvedimento del riesame di Napoli nel quale fu esclusa l’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 inoltre non vi è neppure prova di frequenti forniture di droga, ma al più di un rapporto di affari, nell’ambito del quale anche l’ A. ebbe a cedere droga al Bi..

I giudici a quo nel non indicare elemento alcuno dal quale risultasse la consapevolezza da parte dell’imputato di operare in un’unica associazione, capeggiata dall’ A., hanno erroneamente applicato il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, illegittima è la loro motivazione laddove hanno affermato che egli fosse a conoscenza dell’inserimento dell’ A. in un contesto più ampio senza indicare i dati probatori che confermerebbero l’assunto.

2) – In relazione alla circostanza di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991, art. 606, lett. b) per violazione della medesima norma di carattere sostanziale e dell’art. 118 c.p.; art. 606, lett. e) per totale mancanza di motivazione, ovvero per motivazione manifestamente illogica;

La corte d’appello ha ritenuto in capo al Bi. la circostanza di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo, con ciò aderendo ad una prassi per la quale l’aggravante in parola va ritenuta esistente a prescindere dalla sussistenza di elementi fattuali riconducibili alla sua fattispecie astratta.

Rileva poi la difesa come la contestazione di cui all’art. 74 non risulta compatibile con quella dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 3) In relazione alla circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 3, per mancanza di motivazione.

La esclusione dell’aggravante di cui al comma 3, dell’art. 74, D.P.R. n. 309 del 1990, era stata oggetto di motivo di appello e su punto la sentenza gravata nulla ha argomentato, sebbene fosse stato evidenziato che per la sussistenza della detta aggravante occorreva la dimostrata consapevolezza da parte del Bi. che della compagine associativa facevano parte più di dieci persone.

4) In relazione alla circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, per mancanza e manifesta illogicità della motivazione.

Anche l’esclusione della aggravante dell’essere l’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 era stata espressamente chiesta con i motivi di appello.

Si era infatti sostenuto che non vi era prova alcuna che l’imputato aveva consapevolezza della disponibilità di armi da parte dell’associazione e che la conversazione captata il 6.6.2005, nel corso della quale il Bi. proponeva ad A. l’acquisto di armi, non era sul punto rilevante.

La corte di appello, pur richiamando la suddetta conversazione non ha speso neppure una parola nè ha verificato se dal contenuto della intercettazione fosse possibile evincere che l’ A. intendeva acquistare armi per eseguire il programma criminale dell’associazione.

Infine si duole il ricorrente dell’aumento di pena stabilito per la continuazione tra il reato di cui al capo E) della rubrica e quello di cui al capo G), che non è stato contenuto nel minimo senza motivare sulle ragioni che hanno fondato la scelta di così quantificare l’aumento di pena, pur in presenza di specifica richiesta nei motivi di appello.

Con memoria in data 21.12.2010 l’avv. Jappelli ulteriormente illustra i motivi di ricorso quali: l’autonomia delle complessive azioni svolte dal Bi. rispetto al suo ritenuto inserimento nell’associazione imputata al capo E) e la mancanza di prova circa la consapevolezza da parte sua che la droga venduta all’ A. venisse da questi commerciata, non in proprio, ma quale appartenente all’associazione; sulla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 la consapevolezza da parte del ricorrente circa i vantaggi che il traffico di droga apportava all’associazione di cui all’art. 416 bis non è stata dimostrata nè argomentata; la non provata conoscenza da parte del Bi. del numero dei componenti l’associazione a delinquere dedita al traffico di stupefacenti in relazione all’aggravante di cui al comma 3, dell’art. 74, D.P.R. n. 309 del 1990; la mancanza di motivazioni sulla dosimetria della pena stabilita quale aumento per la continuazione.

1.9.- R.A. ricorre per cassazione, a ministero dei difensori avv. Renato Pecoraro e avv. Giovanni Aricò assumendo a motivi:

1)- Violazione ed erronea interpretazione degli artt. 525 e 179 c.p.p..

La Corte territoriale è incorsa nei vizi enunciati in quanto la norma di cui all’art. 525 c.p.p. è stata sottoposta a scrutinio di costituzionalità e il giudice delle leggi ha ribadito più volte che il principio dell’immutabilità del giudice trova la sua ragione nelle necessità di soddisfare la generale esigenza che la decisione giudiziaria sia emanata dal medesimo giudice che ha trattato la procedura, intendendosi per trattazione della procedura le acquisizioni probatorie funzionali ala decisione, cosicchè ogni sequenza procedimentale deve essere necessariamente svolta ovvero ripetuta dal giudice persona fisica che procede alla deliberazione del giudizio.

Nel caso di specie, pur trattandosi di delitti indicati nell’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, che ammettono la lettura dei verbali di prova e quindi anche la lettura da parte del giudice diversamente composto, tale lettura deve comunque essere effettuata per garantire la partecipazione, in contraddittorio, all’istruttoria da parte dei giudici che partecipano alla decisione.

Dunque è improprio il richiamo della corte di appello agli artt. 182 e 183 c.p.p., posto che l’art. 525 individuare il carattere della nullità ed è l’art. 179 c.p.p., comma 2, che ne regola la rilevanza, la deducibilità e le conseguenze processuali.

E la sanzione di nullità assoluta, posta a tutela dell’immutabilità del giudice, è anche un presidio a tutela dell’ordinamento per cui di esso non possono disporre nè le parti nè i loro difensori.

In questo senso è errato il richiamo dei giudici di appello all’ordinanza con la quale il tribunale aveva disposto la rinnovazione del dibattimento mediante la dichiarazione di utilizzabilità degli atti contenuti nel fascicolo perchè l’assenso alla lettura deve essere prestato espressamente e la lettura dibattimentale degli atti che si intendono rinnovare deve essere effettiva.

Di qui la nullità della sentenza di primo grado e, di conseguenza, anche di quella di appello.

2) – Mancanza di motivazione e manifesta illogicità in ordine al capo E).

Lamenta la ricorrente che l’attività di spaccio al minuto che le viene attribuita, realizzata in rapporto con l’ A. con l’aiuto di D’.Ca. possa al più configurare concorso reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ma non costituire il presupposto per individuare gli elementi tipici ed univoci del dolo di partecipazione alla associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 in mancanza di contatti con gli altri associati ed in assenza di chiamate in reità o in correità dirette nei confronti della R..

In tale senso è privo di rilevanza il richiamo al debito nei confronti dell’ A., perchè essendo stato individuato come pacifico il ruolo di rifornimento svolto dall’ A., tale debito può solo essere ricondotto ad un acquisto da parte della ricorrente, e quindi di una attività manifestamente inconciliabile con il ruolo di spaccio per conto del sodalizio.

Il vizio di motivazione è manifesto e non è colmato con il richiamo ai rapporti tra l’imputata e lo Z. che sono rappresentati come una relazione amicale del tutto svincolata dall’eventuale attività di favoreggiamento che lo Z. avrebbe compiuto in favore dell’ A. o dei suoi accoliti, in mancanza di indicazione dei motivi per i quali l’imputata doveva e poteva conoscere la struttura nella quale l’ A. operava, non avendo ella contatti con soggetti diversi dall’ A. stesso.

Ancora più macroscopica è l’illogicità della ritenuta sussistenza della circostanza aggravante ad effetto speciale perchè non vi è traccia della consapevolezza, da parte della R. della destinazione del denaro provento dell’attività di spaccio, non essendo per quel che riguarda l’imputata significative alcune conversazioni ambientali richiamate, dalle quali risulterebbe una destinazione dei suddetti proventi ai "carcerati". 3)- violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E) per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. 4)- violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B) per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 per erronea qualificazione giuridica del fatto in assenza dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo.

Si duole la ricorrente, in relazione al terzo e quarto motivo, che i giudici di appello abbiano confermato la decisione di primo grado con motivazione carente ed illogica rispetto alle argomentazioni difensive esposte con i motivi di appello ai quali la corte, in parte non ha risposto, in parte ha ritenuto di superarli attraverso una lettura errata delle emergenze dibattimentali.

In particolare: riguardo ai contatti con l’ A. è dimostrato un solo contatto telefonico con questi e con la moglie Nu.

T. dal quale si rileva solo una conoscenza tra gli stessi e non il comune coinvolgimento in attività delittuose; il debito del quale si parla nella conversazione n. 178 del 9.6.2005, per l’obbiettivo contenuto della captazione, lascia chiaramente intendere che esso riguardava un prestito personale e non derivava da pregressi rapporti tra la R. e i coniugi A. relativi al commercio degli stupefacenti, come dimostrato da altra conversazione in data 15.6.2005 tra l’ A. e la Nu.To..

Inoltre è illogico ritenere che la somma di Euro 2000,00, proprio perchè abbastanza modesta, sia l’equivalente del provento dell’attività di spaccio, così come illogico che un soggetto inserito in un sodalizio criminoso acquisti la sostanza stupefacente dalla propria organizzazione e diventi debitore nei confronti della stessa.

Quanto al rapporto con l’appuntato Z.E. la R. è stata protagonista di una sola telefonata – la n. 63 del 14.3.2005 – con D’.Ca. con la quale si era limitata a riferire al suo interlocutore di comunicare all’ A. il numero di telefono dello Z.; inoltre non vi è alcuna intercettazione nella quale l’imputata riceva comunicazione da parte dello Z. di attività di PG concernenti il sodalizio criminale ed anzi, lei stessa, pur considerata quale anello di congiunzione tra l’associazione ed il carabiniere, ha subito perquisizioni e sequestri di droga ed è stata, quindi, arrestata.

Dunque nonostante siano riscontrate alcune cessioni di sostanza stupefacente, autonomamente acquistata per cederla a terzi, rimane comunque indimostrata la partecipazione dell’imputata alla organizzazione dedita allo spaccio, sia per mancanza di un suo accertato contributo apprezzabile e stabile alla consorteria, sia perchè è del pari indimostrato l’elemento psicologico della consapevolezza e volontà di inserirsi organicamente nella vita del gruppo delinquenziale.

Infine la dichiarazioni del collaboratore F. non apportano nessun contributo utile alla conducibilità della R. all’associazione in quanto è l’unico dei propalanti che ne ricorda il nome ed il ruolo e, inoltre egli apparteneva ad un gruppo delinquenziale contrapposto al clan D’Alessandro e non era coinvolto in vicende relative al commercio illecito di stupefacenti.

3)- Violazione dell’art. 606, lett. e) per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 62 bis c.p.;

4) – erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), relativamente alla valenza del criterio di cui all’art. 133 c.p..

Si duole la ricorrente che in ordine al diniego delle attenuanti generiche la sentenza gravata si limiti al richiamo delle argomentazioni del giudici di primo grado senza tener conto, della marginalità dell’attività svolta, del suo comportamento subito dopo l’arresto, delle giustificazioni addotte nell’immediatezza, della mancanza di precedenti e di carichi pendenti.

In relazione ai criteri di cui all’art. 133 c.p. la corte avrebbe dovuto tenere conto, ai fini della decisione sulle attenuanti generiche, anche delle condizioni familiari della R. che portano ad escludere che in capo ad essa sussista un a spiccata pericolosità sociale.

Con memoria datata 5.1.2011 il difensore avv. Aricò insiste sui motivi di ricorso già proposti ed evidenzia due motivi di nullità, peraltro già trattati e comuni anche ad altro imputato dallo stesso assistito, e relativi alla mancanza del dolo specifico in riferimento all’ipotesi associativa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 ed alla non configurabilità delle aggravanti ad essi attribuite, art. 74, comma 4, e art. 7 della L. n. 231 del 1992, in riferimento alle quali sottolinea la particolare onerosità dei loro effetti, soprattutto della seconda, anche in con riguardo alla successiva esecuzione della pena.
Motivi della decisione

1.1.- Osserva preliminarmente il Collegio, dato che trattasi di motivo di gravame comune alla metà degli imputati e, comunque, a tutti estensibile in via pregiudiziale, che è infondata la eccezione di nullità del processo di primo grado, e conseguentemente di quello di appello, per violazione del’art. 525 c.p.p., comma 2.

Nel codice di rito, infatti, per l’ipotesi del mutamento del giudice non si rinviene norma alcuna che disciplini le modalità di rinnovazione del dibattimento così come non esistono nello stesso codice formule sacramentali, la cui obbligatorietà sia sanzionata attraverso il sistema delle nullità, in caso di mancata scansione delle previste cadenze procedimentali, per rinnovare il dibattimento (Cass. Sez. 6^, sent. 6 luglio 2007, n.39067, Rv. 238398).

Se dunque il rinnovamento sia disposto, a seguito dell’ingresso di un nuovo giudice, ne consegue la necessità di una iniziativa di parte che rappresenti il dissenso, anche con la sola segnalazione della opportunità di una qualche rivisitazione della precedente fase, per cui quando tale rappresentazione di dissenso non vi sia deve ritenersi implicitamente prestato il consenso.

La nullità assoluta ed insanabile, sancita dall’art. 525 c.p.p., comma 2, può pertanto ritenersi sussistente solo quando, intervenuto un mutamento nella composizione del giudice, risulti dagli atti di causa che sia stato impedito alle parti di celebrare un nuovo dibattimento e che, quindi, la rinnovazione del dibattimento medesimo sia stata deliberatamente rifiutata od esclusa (Cass. Sez. 6^, sent.

21 ottobre 2009, n. 2928, Rv. 2457689.

Nel caso in esame all’udienza del 12.2.2008, pur in presenza di un mutamento della persona fisica di un giudice componente il collegio di primo grado, non fu disposta espressamente la rinnovazione del dibattimento ed alla udienza successiva il tribunale stabilì, con apposita ordinanza, che ex art. 511 c.p.p. erano utilizzabili, ai fini della decisione, tutti gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento fin dall’origine e quelli acquisiti nel corso del dibattimento medesimo.

I difensori delle parti, presenti sia all’udienza del 12.2.2008 che a quella successiva, nella quale si disponeva ex art. 511 c.p.p., la acquisizione e l’utilizzazione tramite lettura, degli atti tutti del dibattimento, nulla eccepivano o richiedevano, neppure con riferimento a nuova assunzione di prove orali, attraverso il rinnovato esame dei soggetti già in precedenza esaminati.

Dunque il Tribunale d’ufficio e senza che alcuna delle parti si opponesse aveva disposto la lettura delle dichiarazioni già raccolte nel contraddittorio delle parti stesse, che in quanto tali erano già legittimamente inserite nel fascicolo del dibattimento (Cass. Sez. 1^, sent. 15 dicembre 1999, n. 1712, Rv. 2V5290) a disposizione del nuovo componente del collegio, senza violazione alcuna dell’art. 190 c.p.p., nè dei principi di oralità ed immediatezza del processo e della successiva deliberazione decisoria.

Deve, infatti, desumersi dal comportamento delle parti che esse, non opponendosi e nulla eccependo, abbiano prestato il loro consenso, consenso la cui espressione non è vincolata a specifiche forme rituali, ma può, come nel caso di specie, essere manifestato anche attraverso il comportamento concreto di chi presta acquiescenza (Cass. Sez. 1^, Sent. 7 dicembre 2001, n. 17804, Rv. 21694).

D’altronde anche qualora vi fosse stata opposizione alla rinnovazione del dibattimento, così come disposta, ed alla utilizzabilità delle dichiarazioni acquisite nella precedente fase dibattimentale, l’inutilizzabilità avrebbe dovuto essere eccepita subito, non essendo tale inutilizzabilità rilevabile in ogni stato e grado del processo, trattandosi di elementi probatori non assunti in violazione di norma di legge e quindi non affetti da un vizio intrinseco derivante da causa originaria (Cass. Sez. 1^, sent. 30 novembre 1999, n 781, Rv. 215107, Sez. Un. N. 2 del 15.01.1999, rv 212395).

In conseguenza devono essere rigettati in quanto infondati i motivi di ricorso che sullo specifico punto sono stati proposti dai ricorrenti D.L., E.A., S. E. e R.A..

1.2 – Ugualmente infondati gli altri motivi di ricorso proposti da D.L..

Riguardo alla non configurabilità della fattispecie di cui all’art. 649 c.p.p. rispetto ai fatti per quali era stata pronunciata la sentenza 21.10 2005 del GUP del Tribunale di Napoli la corte territoriale ha correttamente evidenziato, con motivazione congrua e non inficiata dal lamentato vizio di violazione di legge, che le due pronunce avevano ad oggetto imputazioni analoghe ma non identiche nè coincidenti: nell’imputazione attuale il clan è capeggiato dal D.L., in quella di cui alla sentenza 21.10 2005, il clan era capeggiato da D.P., fratello di D.L., diversa la modalità temporale dei fatti ascritti: quelli in giudizio riguardando vicende realizzatesi dal 2004 al luglio 2005, quelli della precedente pronuncia essendo, invece, fatti posti in essere nel periodo dal 2001 al 2003, posto che a tale periodo si riferivano le intercettazioni e le propalazioni dei collaboranti, rese nell’ottobre 2003 ed entro il marzo 2004 e quindi concernenti fatti precedenti, che hanno fondato quella decisione.

La diversità strutturale delle associazioni di stampo mafioso, non consente, pertanto, di ritenere che i fatti contestati fossero gli stessi nonostante la, asserita, contestazione aperta della imputazione del reato permanente di cui alla sentenza del GUP di Napoli.

Che poi la associazione dedita al traffico di stupefacenti fosse ulteriore rispetto a quella di cui all’art. 416 bis c.p. è argomentato in maniera adeguata, sia con il richiamo a quanto affermato nella sentenza di primo grado ed all’inequivoco contenuto delle intercettazioni in essa richiamate e riprodotte, sia autonomamente facendo riferimento alla posizione di capo di entrambe le consorterie attribuibile all’imputato il quale dal carcere continuava a impartire disposizioni agli affiliati al clan camorristico, non solo per quel che riguardava le vicende dello stesso clan, quali vendette, omicidi ed estorsioni, ma anche in relazione alla gestione del traffico di stupefacenti, che era organizzato con struttura facente capo ad affiliati alla consorteria ex art. 416 bis e, però, strutturalmente composto anche da personaggi non partecipi del sodalizio di stampo mafioso.

Dunque non sussiste la completa sovrapponibilità, quanto a partecipi e dinamiche associative delle due strutture delinquenziali e, pertanto è ampiamente giustificata e motivata la comminatoria dell’aggravante di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991.

Infine il ruolo apicale rivestito dal D.L. anche nell’associazione ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 è, come congruamente rilevato dalla corte, ampiamente dimostrato non solo dalle dichiarazioni dei collaboratori ma, soprattutto dal contenuto delle conversazioni captate, sia quelle nelle quali è egli stesso interlocutore, sia le numerose altre nelle quali i sodali, anche dopo che gli era stato applicato il regime di cui all’art. 41 bis O.P., a lui fanno riferimento come persona che comanda tutti quanti ed alla quale devono essere sottoposte per l’approvazione, per il tramite di E.A., i progetti degli altri sodali in riferimento alle attività in corso o da realizzare.

1.3.- Infondati i motivi di ricorso proposti nell’interesse di E.A., diversi da quello trattato in premessa. La asserita violazione e falsa applicazione della legge conseguente al non accoglimento della richiesta di rinnovazione dibattimentale è priva di pregio in quanto il ruolo dell’imputato nell’ambito dell’organizzazione di stampo camorristico e di quella dedita al traffico di stupefacenti è ampiamente corroborata nella motivazione della sentenza gravata sulla base del contenuto delle concordi dichiarazioni dei collaboranti F., D’.Fe. e P. e dal tenore delle svariate conversazioni intercettate, successive a quella contestata del 14.7.2004, che all’ E. si riferiscono, con diversi appellativi che lo individuano con sicurezza, riconoscendogli ruolo paritario a quello del D. L., del quale condivideva le decisioni e le direttive, e delineando la sua figura di referente per tutti i partecipi dediti allo spaccio di stupefacenti.

Dalle suddette conversazioni, specificamente richiamate dai giudici di appello risulta inequivocabilmente il ruolo primario dell’ E. in tutte le decisioni da assumere, non solo riguardo all’attività di spaccio di stupefacenti, anche in relazione a questioni di particolare delicatezza ed interesse per il clan camorristico, quali gli omicidi in danno di componenti del clan rivale Omobono – Scarpa.

1.4.- Infondato il ricorso di B.A. per quel che riguarda le doglianze concernenti la mancanza ed illogicità della motivazione della sentenza gravata, perchè la stessa si limiterebbe a rinviare a quella di primo grado, nell’illustrare le ragioni per le quali è stata ritenuta la responsabilità dell’imputato in relazione al capo E) dell’imputazione.

Nel contestare la valutazione degli elementi probatori evidenziati dai giudici di merito, infatti, il ricorrente propone degli stessi una sua interpretazione, chiedendo, in sostanza, che la Corte di legittimità sostituisca giudizio della corte d’appello con uno proprio, coincidente con quello difensivamente prospettato.

Invero la assoluzione dal reato di cui all’art. 416 bis c.p., riportata dal B. non esclude affatto che egli abbia consapevolmente partecipato, come evidenziato dalle propalazioni dei collaboratori e dalle captazioni, in particolare quella ambientale nel carcere di Lecce del 14.6.2004, e dalle testimonianze degli inquirenti, alle quali la corte territoriale si richiama espressamente in motivazione traendone conclusioni argomentative logiche ed adeguate, all’associazione dedita al traffico di stupefacenti.

Fondata è invece la doglianza concernente la ritenuta aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 perchè nella sentenza gravata essa è stata genericamente attribuita a tutti i partecipi dell’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 sulla base della sola considerazione che alcuni di essi erano organicamente inseriti anche nel clan D’Alessandro, del quale condividevano la metodologia operativa ed in favore del quale operavano, anche corrispondendo parte degli introiti dell’attività di spaccio per sostenere gli affiliati detenuti.

Invero i giudici di appello hanno omesso di verificare e puntualmente riscontrare per ciascuno dei singoli imputati non coinvolti nella associazione camorristica, e dunque anche nei confronti del B., quali fossero in concreto gli elementi dai quali era dimostrata la loro consapevolezza che parte dei proventi dell’attività del traffico di stupefacenti, cui partecipavano, fosse destinata ad agevolare l’associazione di cui all’art. 416 bis, incrementandone i guadagni anche al fine di sostenerne gli affiliati in stato di detenzione.

Infatti la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Cass. Sez. 2^, Sent. 27.9.2004, n. 44402, Rv. 23101; Cass. Sez. 6^, Sent.

22.1.2009, n. 19802, Rv. 344261).

Uguali considerazioni valgono in relazione alla aggravante prevista dal comma. 4, dell’art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche essa attribuita a tutti i partecipi dell’associazione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, senza riscontro individualizzato per ognuno di essi, della loro effettiva consapevolezza della disponibilità di armi da parte dei sodali, in quali contemporaneamente erano organicamente inseriti nel clan D’Alessandro, soprattutto in carenza di qualunque elemento di riscontro, anche indiziario, che nelle attività di commercio della droga fossero state adoperate armi o ne fosse stato paventato l’utilizzo (Cass. Sez. 6^, Sent. 23.10.2009 n. 4651, Rv. 245865; Cass. Sez. 1^, Sent. 6.5.2010, n. 21957, Rv.

247408).

In conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio nei confronti di B.A. limitatamente alle aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, e di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 1.5.- Il ricorso di S.E., anche per i motivi diversi da quello trattato in premessa, è infondato.

Con i suddetti motivi il ricorrente, pur esprimendo doglianze di erronea applicazione della legge penale sostanziale e procedurale e di illogicità e carenza di motivazione, invero sottende la richiesta di una complessiva rivalutazione dell’intero compendio probatorio puntualmente esaminato dalla corte territoriale, la quale ha espressamente richiamato a fondamento della decisione, con argomentare logico e coerente rispetto alla valenza degli elementi indiziari e probatori analizzati, il contenuto delle propalazioni dei collaboratori F., e P., le dichiarazioni testimoniali degli investigatori e il contenuto delle intercettazioni.

Il quadro probatorio emergente dai suddetti elementi è stato vagliato nella sua complessiva ed inequivocabile portata con riferimento alla intraneità dell’imputato al clan camorristico, ampiamente dimostrata, oltre che dalle propalazioni e dalle testimonianze, anche dalle conversazioni captate, puntualmente richiamate e considerate, in ragione del loro contenuto, sicuramente indicative del pieno inserimento dello S. nel clan, dei suoi rapporti con gli altri affiliati, della solidarietà e dell’interessamento degli stessi dopo il suo arresto.

Quanto alla doglianza relativa alla non motivata dosimetria della pena, è principio acquisito che specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, anche in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p. le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" (Cass. Sez. 2^, Sent. 26.6.2009, n. 36245, Rv. 245596).

1.6.- Il primo motivo di ricorso proposto da L.G. è infondato; meritano invece accoglimento, nei termini di cui si dirà appresso, i successivi due motivi concernenti l’applicazione delle aggravanti previste dal comma 4, dell’art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, dalla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con il primo motivo il ricorrente si duole della asserita mancanza di riscontri probatori alle propalazioni dei collaboratori e della interpretazione delle conversazioni intercettate fornite dalla corte territoriale senza elaborare motivazione autonoma rispetto a quella dei giudici di primo grado, evidenziando come una corretta applicazione dei criteri di valutazione probatoria degli elementi analizzati avrebbe portato ad escludere che le sue condotte, caratterizzate da totale autonomia rispetto al contesto associativo, potessero integrare nei sui confronti gli estremi della partecipazione alla associazione dedita al traffico di stupefacenti.

Invero la sentenza, con buon governo dei criteri che presiedono alla valutazione della prova ha motivatamente richiamato tutte le circostanze dalle quali deve essere desunta l’effettiva partecipazione del L. all’associazione a fini di spaccio diretta dall’ A., quali le dichiarazioni dei collaboranti F. e P., le deposizioni degli operanti di PG e le intercettazioni.

Dall’esame di ciascuna delle suddette emergenze, tra di loro raffrontate, è pervenuta, con procedimento argomentativo logico e puntuale, alla conclusione della appartenenza del L. al sodalizio dedito al traffico di stupefacenti, non omettendo di motivare anche sul punto delle attività di commercio di droga che, comunque, l’imputato effettuava anche per proprio conto, inferendone, con coerenza motivazionale e in aderenza ai principi di diritto, che esse non escludevano, sulla base del compendio probatorio vagliato, l’effettività anche del suo inserimento nell’associazione ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Fondate sono, invece, le doglianze concernenti le ritenute aggravanti.

L’aggravante di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991 nella sentenza gravata essa è stata genericamente attribuita a tutti i partecipi dell’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 sulla base della sola considerazione che alcuni di essi erano organicamente inseriti anche nel clan D’Alessandro, del quale condividevano la metodologia operativa ed in favore del quale operavano, anche corrispondendo parte degli introiti dell’attività di spaccio per sostenere gli affiliati detenuti.

Invero i giudici di appello hanno omesso di verificare e puntualmente riscontrare per ciascuno dei singoli imputati non coinvolti nella associazione camorristica, e dunque anche nei confronti del L., quali fossero in concreto gli elementi dai quali era dimostrata la loro consapevolezza che parte dei proventi dell’attività del traffico di stupefacenti, cui partecipavano, fosse destinata ad agevolare l’associazione di cui all’art. 416 bis, incrementandone i guadagni anche al fine di sostenerne gli affiliati in stato di detenzione.

Infatti la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Cass. Sez. 2^, Sent. 27.9.2004, n. 44402, Rv. 23101; Cass. Sez. 6^, Sent.

22.1.2009, n. 19802, Rv. 344261).

Uguali considerazioni valgono in relazione alla aggravante prevista dal comma. 4, dell’art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche essa attribuita a tutti i partecipi dell’associazione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, L. compreso, senza riscontro individualizzato, per ognuno di essi, della loro effettiva consapevolezza della disponibilità di armi da parte dei sodali, i quali contemporaneamente erano organicamente inseriti nel clan D’Alessandro, soprattutto in carenza di qualunque elemento, anche indiziario, atto a provare che nelle attività di commercio della droga fossero state adoperate armi o ne fosse stato paventato l’utilizzo (Cass. Sez. 6^, Sent. 23.10.2009 n. 4651, Rv. 245865;

Cass. Sez. 1^, Sent. 6.5.2010, n. 21957, Rv. 247408).

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio nei confronti di L.G. limitatamente alle aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, e di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 1.7.- Il ricorso di C.A. è fondato nei limiti che sono d’appresso illustrati.

Lamenta il ricorrente chela corte territoriale abbia confermato la sua responsabilità in relazione ai capi G) ed E) della rubrica d’imputazione omettendo di motivare, o meglio apoditticamente motivando, in relazione a quanto dallo stesso specificamente dedotto nei motivi di appello, trascurando di rispondere alle doglianze proposte nei confronti della sentenza di primo grado; in primo luogo circa l’indeterminatezza del capo di imputazione G) relativo alla ipotesi delittuosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, e poi relativamente alla non concludenza i criteri di individuazione dell’imputato quale soggetto che partecipò alle conversazioni intercettate nelle date 1.6.2005, 6.6.205 e 11.7.2005.

Si duole, inoltre, che con riferimento alla imputazione relativa alla sua partecipazione alla associazione dedita al traffico di stupefacenti con il ruolo di stabile fornitore la sentenza non abbia tenuto nella dovuta considerazione le circostanze, pur puntualmente evidenziate nei motivi di appello, concernenti:

a) le dichiarazioni dei collaboranti F., P. e D’.Fe., che mai hanno riguardato il C. o il suo ruolo nell’ambito della consorteria;

b) le testimonianze dei testi capitano Ca. e maresciallo Ma., dalle quali risulta che l’imputato entra a far parte delle indagini nel giugno 2005 e che dei sei reati fine accertati nessuno lo vide coinvolto come autore, sia pure a solo a titolo di concorso;

c) le intercettazioni che riguardano l’imputato le quali, per il limitato lasso temporale in cui si sono svolte, per il contenuto delle stesse e per la mancanza di altre captazioni che lo coinvolgano sono di non sicura significanza ed, anzi, porterebbero ad escluderne la responsabilità tanto con riguardo al profilo oggettivo che a quello soggettivo dell’elemento psicologico.

Invero rileva il Collegio che la sentenza impugnata in punto di motivazione è carente laddove riguardo all’indeterminatezza del capo di imputazione G) si limita a richiamare delle massime di diritto senza peraltro nulla argomentare sulle specifiche censure contenute nei motivi di appello; altrettanto è a dirsi in relazione censure relative all’identificazione del C., alla mancanza di altre fonti circostanziate d’accusa, diverse dalle tre captazioni citate, ed all’equivoco contenuto e significato delle captazioni medesime.

Secondo infatti la consolidata giurisprudenza di questa Corte "la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado è viziata per carenza di motivazione, e si pone dunque fuori dal pur legittimo ambito del ricorso alla motivazione "per relationem", se si limita a riprodurre la decisione confermata dichiarando in termini apodittici e stereotipati di aderirvi, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione che censurino in modo puntuale le soluzioni adottate dal giudice di primo grado, e senza argomentare sull’inconsistenza o sulla non pertinenza di detti motivi" (Cass Sez. 6^, Sent. del 20.04.2005, n. 6221 Rv. 233082, Cass. Sez. 2^, Sent.

20.5.2008 n. 22702; in senso conforme n. 8639 del 1989 Rv. 181589, n. 5843 del 1991 Rv. 187284, n. 10583 del 1992 Rv. 192134, n. 13075 del 1994 Rv. 200737, N. 4557 del 1999 Rv. 213135).

Per le ragioni sopraesposte la sentenza impugnata va annullata, con rinvio per nuovo giudizio, nei confronti del C.; l’accoglimento consente il non ulteriore esame degli altri motivi di ricorso.

1.8. I motivi di ricorso proposti da Bi.Gi., eccettuati i due relativi all’applicazione delle aggravanti previste dal comma 4, dell’art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, dall’art. 7 della L. n. 203 del 1991, sono infondati.

Il ricorrente si duole la corte territoriale aderendo all’impostazione del tribunale, abbia ritenuto l’affiliazione del Bi. all’associazione dedita al traffico di stupefacenti, esclusivamente in ragione delle plurime cessioni di droga in favore di A. e dello stretto rapporto di affari esistente tra i due.

Secondo gli assunti difensivi non sussiste prova certa che l’imputato fosse pienamente consapevole dell’inserimento dell’ A. in una organizzazione criminale dedita allo spaccio e, conseguentemente, manca la prova che egli fosse consapevole che la sua attività di fornitura di stupefacenti contribuisse a realizzare le finalità proprie dell’associazione alla quale l’ A. apparteneva.

Osserva il Collegio come la sentenza gravata, con buon governo dei criteri che presiedono alla valutazione della prova ha motivatamente richiamato tutte le circostanze dalle quali deve essere desunta l’effettiva partecipazione del Bi. all’associazione a fini di spaccio diretta dall’ A., quali la non occasionalità della condotta di fornitura dello stupefacente, le pregresse cessioni ammesse dallo stesso imputato che si dichiara creditore dell’ A., gli stretti rapporti tra i due, nonchè l’assicurazione stipulata per pochi giorni dall’ A. per l’autovettura ove fu rinvenuto lo stupefacente trasportato dalla moglie del Bi..

Dall’esame di ciascuna delle suddette emergenze, nonchè dal contenuto delle captazioni richiamate, la corte territoriale è pervenuta, con procedimento argomentativo logico e puntuale, alla conclusione della appartenenza del Bi. al sodalizio dedito al traffico di stupefacenti che era sicuramente composta da un considerevole numero di soggetti.

Fondate sono, invece, le doglianze concernenti l’aggravante di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991 nella sentenza gravata essa è stata genericamente attribuita a tutti i partecipi dell’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 sulla base della sola considerazione che alcuni di essi erano organicamente inseriti anche nel clan D’Alessandro, del quale condividevano la metodologia operativa ed in favore del quale operavano, anche corrispondendo parte degli introiti dell’attività di spaccio per sostenere gli affiliati detenuti.

Invero i giudici di appello hanno omesso di verificare e puntualmente riscontrare per ciascuno dei singoli imputati non coinvolti nella associazione camorristica, e dunque anche nei confronti di Bi.

G., quali fossero in concreto gli elementi dai quali era dimostrata la loro consapevolezza che parte dei proventi dell’attività del traffico di stupefacenti, cui partecipavano, fosse destinata ad agevolare l’associazione di cui all’art. 416 bis, incrementandone i guadagni anche al fine di sostenerne gli affiliati in stato di detenzione.

Infatti la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Cass. Sez. 2^, Sent. 27.9.2004, n. 44402, Rv. 23101; Cass. Sez. 6^, Sent.

22.1.2009, n. 19802, Rv. 344261).

Uguali considerazioni valgono in relazione alla aggravante prevista dal comma 4, art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche essa attribuita a tutti i partecipi dell’associazione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, Bi. compreso, senza riscontro individualizzato, soprattutto in carenza di qualunque elemento comprovante che nelle attività di commercio della droga fossero state adoperate armi o ne fosse stato paventato l’utilizzo (Cass. Sez. 6^, Sent. 23.10.2009 n. 4651, Rv. 245865; Cass. Sez. 1^, Sent.

6.5.2010, n. 21957, Rv. 247408).

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio nei confronti di Bi.Gi. limitatamente alle aggravanti di cui all’art. 74, comma 4 del D.P.R. n. 309 del 1990, e di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991. 1.9. I motivi di ricorso proposti da R.A., con esclusione di quelli relativi all’applicazione delle aggravanti previste dal comma 4, art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, e dall’art. 7 della L. n. 203 del 1991, sono infondati.

Riguardo al primo motivo si è già detto in premessa; con gli altri motivi la ricorrente pur formalmente adducendo vizi di motivazione e violazioni di legge, nella sostanza propone una lettura propria del compendio probatorio valutato dai giudici di merito dalla quale emergerebbe che l’attività di spaccio della R. non fosse connessa alla sua inclusione nel sodalizio criminoso dedito al commercio di sostanze stupefacenti del quale si occupava stabilmente A..

Osserva il Collegio come la corte con motivazione congrua ed aderente alle risultanze del complessivo compendio probatorio esaminato, abbia ritenuto la penale responsabilità dell’imputata in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, inferendola dalla accertata attività di custodia dello stupefacente e di spaccio al minuto dalla stessa operati in collaborazione con D’.Ca. ed in continuo contatto, tramite quest’ultimo, con l’ A. e con la moglie, che l’attività di spaccio era proseguita anche dopo il suo arresto – avvenuto a seguito del rinvenimento di un considerevole quantitativo di cocaina nel suo domicilio -, mentre si trovava agli arresti domiciliari.

Quanto al debito che la R. aveva nei confronti degli A. esso è, motivatamente, ritenuto dalla corte di appello significativo dell’inserimento dell’imputata nell’associazione in quanto, dal contesto nel quale ne discute la moglie dell’ A., mentre è intenta a fare il rendiconto delle somme provenienti dal commercio di stupefacente, emerge che il debito concerneva le attività di commercio di droga che l’imputata e l’organizzazione avevano in comune.

Altrettanto indicativo della condivisione degli interessi e delle sorti dell’organizzazione è poi, logicamente ritenuto dalla corte di merito, il fatto che la R. abbia messo in contatto il carbiniere Z.E. con l’ A..

Dunque da tutti gli elementi analizzati congruamente vagliati e raffrontai tra loro, la corte con argomentare logico e scevro dai denunciati vizi, è pervenuta alla dichiarazione di responsabilità in capo all’imputata.

Fondate sono, invece, le doglianze concernenti l’aggravante di cui all’art. 7 della L. n. 203 del 1991 nella sentenza gravata essa è stata genericamente attribuita a tutti i partecipi dell’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 sulla base della sola considerazione che alcuni di essi erano organicamente inseriti anche nel clan D’Alessandro, del quale condividevano la metodologia operativa ed in favore del quale operavano, anche corrispondendo parte degli introiti dell’attività di spaccio per sostenere gli affiliati detenuti.

Invero i giudici di appello hanno omesso di verificare e puntualmente riscontrare per ciascuno dei singoli imputati non coinvolti nella associazione camorristica, e dunque anche nei confronti di R. A., quali fossero in concreto gli elementi dai quali era dimostrata la loro consapevolezza che parte dei proventi dell’attività del traffico di stupefacenti, cui partecipavano, fosse destinata ad agevolare l’associazione di cui all’art. 416 bis, incrementandone i guadagni anche al fine di sostenerne gli affiliati in stato di detenzione.

Infatti la circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Cass. Sez. 2^, Sent. 27.9.2004, n. 44402, Rv. 23101; Cass. Sez. 6^, Sent.

22.1.2009, n. 19802, Rv. 344261).

Uguali considerazioni valgono in relazione alla aggravante prevista dal comma 4, art. 74 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche essa attribuita a tutti i partecipi dell’associazione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, R. compresa, senza riscontro individualizzato, soprattutto in carenza di qualunque elemento comprovante che nelle attività di commercio della droga fossero state adoperate armi o ne fosse stato paventato l’utilizzo (Cass. Sez. 6^, Sent. 23.10.2009 n. 4651, Rv. 245865; Cass. Sez. 1^, Sent.

6.5.2010, n. 21957, Rv. 247408).

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio nei confronti di R.A. limitatamente alle aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di C. A., nonchè nei confronti di B.A., Bi.

G., L.G. e R.A. limitatamente alle aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e rinvia per nuovo giudizio al altra sezione della Corte di Appello di Napoli.

Rigetta i ricorsi proposti da D.L., E.A. e S.E., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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