Cass. pen., sez. VI 30-12-2008 (09-12-2008), n. 48390 Sentenza emessa in primo grado dal tribunale in composizione monocratica – Riqualificazione del fatto in appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO
Con sentenza in data 28-11-2003 il Tribunale di Roma dichiarava F.P. colpevole del delitto di cui all’art. 646 c.p. e art. 61 c.p., n. 11 (perchè, avendone il possesso in ragione della sua qualità di Ufficiale di Riscossione presso lo sportello dei Servizi di Riscossione Tributi di Roma, si appropriava indebitamente della somma di L. 19 milioni, nonchè del bollettario n. (OMISSIS); in (OMISSIS)) e, concesse le attenuanti generiche prevalenti, lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa, con i doppi benefici di legge.
A seguito dell’appello proposto dall’imputato e del gravame proposto in via incidentale dal P.G., con sentenza in data 26-4-2005 la Corte di Appello di Roma, in riforma della predetta sentenza, qualificato il fatto ai sensi dell’art. 314 c.p., riconosciute le attenuanti di cui all’art. 323 bis c.p., art. 62 c.p., n. 6 e art. 62 bis c.p., aumentava la pena a mesi dieci giorni venti di reclusione, dichiarando l’imputato interdetto dai pubblici uffici per la durata della pena principale e confermando nel resto la decisione di primo grado.
Ricorre per Cassazione il F., a mezzo dei suoi difensori, denunciando con un primo motivo l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 597 c.p.p., comma 2, il quale, in caso di appello del P.M., prevede per il giudicante la facoltà di dare al fatto una qualificazione giuridica più grave, purchè non venga superata la competenza del giudice di primo grado. Nel caso di specie, poichè il reato di peculato, come riqualificato dalla Corte di Appello, appartiene alla competenza del Tribunale in composizione collegiale, mentre il reato di appropriazione indebita aggravata, originariamente contestato, è stato giudicato dal giudice monocratico, il giudice di appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e disporre la trasmissione degli atti al P.M..
Col secondo motivo il ricorrente si duole della mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla diversa qualificazione del fatto, non avendo la Corte di Appello spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto la natura di ente pubblico della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., che ha invece natura privatistica, e la conseguente attribuzione all’imputato della qualifica di pubblico ufficiale o, comunque, di incaricato di pubblico ufficio.
Col terzo motivo viene dedotta la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla prova dell’appropriazione delle somme e del bollettario e dell’esistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Col quarto motivo, infine, viene denunciata la violazione dell’art. 191 c.p.p., avendo i giudici di merito posto a base della loro decisione la dichiarazione resa dall’imputato con proprio scritto inviato alla Banca, che non può costituire prova del commesso reato, sia perchè non contiene ammissioni sugli ammanchi, ma solo giustificazioni dirette ad ottenere il reinserimento lavorativo, sia perchè trattasi di atto inutilizzabile ai sensi dell’art. 63 c.p.p..
DIRITTO
Il primo motivo di ricorso, di carattere assorbente rispetto alle altre censure proposte, è fondato.
Deve premettersi che la qualificazione in termini di peculato data dalla Corte di Appello al fatto addebitato all’imputato (l’essersi appropriato di una somma di denaro e di un bollettario di cui aveva il possesso in ragione della sua qualità di Ufficiale di Riscossione presso lo sportello dei Servizi di Riscossione Tributi di Roma), originariamente contestato come appropriazione indebita aggravata, è corretta, ricorrendo l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 314 c.p. nel caso di impiegato di sportello di un istituto di credito che si appropri di una somma di denaro, ricevuta per conto dell’Amministrazione Finanziaria a titolo di pagamento di imposte (Cass. Sez. 6, 10-10-2007 n. 39337).
Poichè, tuttavia, il peculato, a differenza dell’appropriazione indebita, è un reato riservato alla sfera di cognizione del Tribunale in composizione collegiale, appaiono legittime le doglianze mosse dal ricorrente, secondo cui, essendo stato il F. giudicato dal Tribunale in composizione monocratica, la Corte di Appello, nel dare al fatto la più grave definizione giuridica, avrebbe dovuto annullare la sentenza di primo grado e trasmettere gli atti al P.M..
La soluzione propugnata dal ricorrente, avallata da alcune pronunce di questa Corte (Cass. Sez. 2, 18-1-2006 n. 11857; Cass. Sez. 5, 20-2- 2007 n, 10730), si basa su una corretta interpretazione dell’art. 33 octies c.p.p., comma 1 (la cui disciplina deve intendersi sostanzialmente invocata nel ricorso), il quale stabilisce che il giudice di appello o la Corte di Cassazione, qualora ritenga che non siano state osservate le disposizioni sull’attribuzione dei reati alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale o monocratica, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero presso il giudice di primo grado, purchè tale inosservanza sia stata tempestivamente eccepita e l’eccezione sia stata riproposta nei motivi di gravame.
Nella fattispecie in esame, concernente un’ipotesi in cui il giudice monocratico si è pronunciato su un reato riservato alla cognizione del giudice collegiale, non opera, infatti, la deroga prevista dal cit. art. 33 octies c.p.p., comma 2, secondo cui il giudice di appello non deve annullare la sentenza di primo grado, ma deve decidere nel merito, allorchè il giudice collegiale abbia giudicato un reato di cui avrebbe dovuto conoscere il giudice monocratico.
Poichè, d’altro canto, la violazione dei limiti di cognizione del primo giudice era rilevabile solo a seguito della corretta riqualificazione giuridica del fatto ad opera della Corte di Appello, l’eccezione risulta tempestivamente proposta dalla difesa dell’imputato con i motivi di ricorso, non venendo in considerazione le preclusioni poste dall’art. 33 quinquies c.p.p..
L’acclarata violazione dell’art. 33 octies c.p.p. impone l’annullamento senza rinvio sia della sentenza impugnata che di quella di primo grado, con conseguente trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica per l’ulteriore corso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e la sentenza del Tribunale di Roma in data 28-11-2003 e dispone la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica di Roma per l’ulteriore corso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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