Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-03-2011) 11-05-2011, n. 18573 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa in data 28.4.2008 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli aveva dichiarato – per quanto interessa in questa sede – D.L.N. responsabile dei delitti di cui all’art. 416 bis, commi 2 e 4 (capo A), e art. 73 e art. 74, comma 1, 3 e 4, aggravati ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (capo C), fatti commessi a far data dal (OMISSIS).

Aveva escluso invece l’aggravante dell’art. 416 bis, comma 6 e del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 e assolto il D.L. dall’imputazione di spaccio continuato a lui ascritti ai capi G) e H). Ritenuta la continuazione aveva condannato il D.L. alla pena di venti anni di reclusione.

1.1. Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Napoli, investita dell’impugnazione dell’imputato, confermava la dichiarazione di responsabilità del D.L. per il delitto d’associazione mafiosa al capo A) e per il delitto di associazione per delinquere ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 contestato al C);

assolveva il D.L. dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 contestato nell’ambito del medesimo capo C) ed escludeva (in motivazione) con riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (cui si riduceva il capo C), l’aggravante dell’essere l’associazione armata. Rideterminava la pena in diciassette anni e quattro mesi di reclusione, precisando che la continuazione (con il reato al capo C) doveva intendersi riferita al solo capo A).

1.2. A premessa della motivazione la sentenza di primo grado aveva ricordato le vicende dell’associazione camorristica facente capo a D.L.P., detto "(OMISSIS)", padre di N., e la guerra intercorsa tra gli appartenenti a detta associazione e il gruppo cosiddetto degli Scissionisti o degli Spagnoli, capeggiato da A.R., da essa distaccatosi, richiamando eventi e fonti ampiamente scandagliati da sentenze oramai divenute irrevocabili.

Le indagini che avevano dato corpo al processo erano iniziate a seguito dei fermi e delle misure emesse nei confronti di esponenti, anche di estremo rilievo, di entrambi i gruppi. L’impianto probatorio specificamente riguardante il ricorrente si fondava, stando alla conforme ricostruzione delle due sentenze di merito, sulle conversazioni intercettate nelle autovetture in uso a E. P. e a M.C. (già condannati in separato procedimento), interpretate alla luce del complesso probatorio acquisito; ritenute significative per l’assodato ruolo degli interlocutori e per i riferimenti puntuali anche a fatti e circostanze da costoro vissute; considerate riscontrate, quanto ad individuazione del ricorrente, dai riferimenti ai suoi familiari e alla guerra di camorra intercorsa tra il clan Di Lauro e gli scissionisti, oltrechè dai numerosi controlli nel corso dei quali D.L.N. era stato visto in compagnia di quello stesso P.D., capo di una piazza di spaccio, che frequentemente lo nominava a proposito del controllo della sua attività. 2. D.L.N. ricorre a mezzo dei difensori, avvocati Diego Abate e Sergio Cola con due atti distinti, ciascuno a firma di entrambi i difensori.

2.1. Con il primo motivo del primo ricorso denunzia violazione di legge processuale e sostanziale, per omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p. (capo A) nonchè alla partecipazione dell’imputato a detta associazione e alla sua ritenuta veste di capo; vizi e contraddittorietà anche esterna della motivazione con riferimento ai motivi d’appello, ai motivi nuovi, alla sentenza emessa nell’ambito del procedimento separato a carico del minorenne D.L. S., al contenuto delle intercettazioni n. 77 del giorno 11.4.2005, 206 e 208 del 10.6.2005, 235 del 13.6.2005, 576 del 22.5.2005, 266 del 22.5.2005, 243 del 2.5.2005, 173 del 4.6.2005, 97 del 13.4.2005.

Deduce in particolare che la sentenza impugnata era assolutamente mancante di argomenti a sostengo dell’affermata partecipazione dell’imputato al sodalizio mafioso; aveva valorizzato le intercettazioni riportate al solo fine di dimostrare l’attività di spaccio; nessun riferimento aveva fatto agli elementi del delitto di associazione di stampo mafioso; non aveva evidenziato alcuna condotta del D.L., che non fosse riferibile al mero vincolo di parentela, caratterizzata da connotazione mafiosa o comunque riferibile ad una non occasionale partecipazione al sodalizio; aveva sostanzialmente omesso di rispondere alle corpose contestazioni difensive in ordine al significato delle conversazioni intercettate utilizzate dal primo giudice; aveva indebitamente e confusamente sovrapposto i temi di prova della partecipazione alle due associazioni omettendo di chiarire in che termini uno stesso elemento poteva confortare entrambe le accuse.

Lamenta che già la motivazione della sentenza di primo grado, indebitamente replicata in quella impugnata, aveva arbitrariamente posto a dato di partenza del discorso giustificativo l’assunto che il D.L. fosse componente di vertice del sodalizio, con ciò presumendo quanto era invece tenuta a dimostrare; aveva conferito valore probatorio a frasi scambiate tra terze persone senza vagliarne la credibilità intrinseca e ab esterno; aveva erroneamente conferito valore dimostrativo a conversazioni connotate da genericità, imprecisione e inconsistenza, quali la n. 77 del giorno 11.4.2005 (era in particolare illogico ritenere significativa la definizione di infame data al ricorrente da soggetti estranei all’associazione camorristica), le nn. 206 e 208 del 10.6.2005 (nelle quali si diceva semplicemente che i colloquianti avevano incontrato N. e che lui s’era preso gioco delle forze dell’ordine), la n. 235 del 13.6.2005 (dalla quale emergeva soltanto la detenzione ad opera del M. di una borsa per conto del D.L., dato reso neutro dall’assoluzione per il capo relativo alla detenzione di droga e armi e dunque dall’assoluta incertezza sul contenuto di detta borsa).

Sostiene che non era stato considerato che i colloquianti erano estranei al sodalizio mafioso e che tanto riduceva le loro osservazioni a mere considerazioni personali.

Le conclusioni della sentenza impugnata si ponevano in aperta contraddizione con l’assoluzione del fratello del ricorrente, S., raggiunto dalle stesse fonti di prova, circostanza questa del tutto pretermessa dalla sentenza impugnata.

La motivazione delle due sentenze di merito era carente in ordine al ruolo di capo di D.L.N. (non bastando a configurare tale ruolo una posizione di vertice, ma occorrendo il concreto esercizio di poteri decisionali, incidenti sulla vita del sodalizio);

l’affermazione di responsabilità per tale ruolo appariva in contraddizione con le stesse conversazioni riportate (dalle conversazioni 566, 77 e 576 emergeva che il potere decisionale spettava nella famiglia a C. e in sua vece a M.), si fondava su una interpretazione della conversazione n. 97 del 13.4.2005 avulsa dal dato letterale (il riferimento a "(OMISSIS)" essendo stato dal parlante immediatamente corretto), faceva perno su di un ruolo ricoperto dal ricorrente nella gestione delle piazze di spaccio, contraddetto da alcune altre conversazioni (le nn. 576, 266, 243, 173 e 97 dimostravano che tale incarico era affidato a tal (OMISSIS), ovverosia a D.L.S.) o comunque nelle stesse smentito (le nn. 566, 266, 576 rivelavano l’assoluta estraneità dell’imputato); anche in relazione a tale aspetto registrandosi una assoluta confusione della motivazione in ordine alla prova della distinta partecipazione ai due sodalizi e l’illegittimità della presunzione che la prova della direzione dell’uno comporterebbe la dimostrazione della direzione dell’altro.

2.2. Con il secondo motivo del primo ricorso denunzia violazione di legge sostanziale e vizi della motivazione in ordine alla partecipazione dell’imputato all’associazione dedita al traffico di stupefacente (capo C) e al ruolo di promotore e di organizzatore, emergenti anche in base al raffronto con l’ordinanza del Tribunale del riesame relativa alla medesima imputazione.

Deducendo in particolare che la confusione motivazionale e la sovrapposizione probatoria tra i due sodalizi rendeva incomprensibili anche le ragioni che sostenevano la condanna per il reato al capo C).

Pure per tale reato, a fronte della ipervalutazione delle conversazioni da cui emergevano attività di spaccio, nessun argomento specifico era stato speso con riguardo alla posizione del ricorrente, la cui direzione del sodalizio dedito al traffico di stupefacenti era stata apoditticamente fatta discendere dal presunto ruolo di direzione del sodalizio mafioso. Sia il primo Giudice sia la Corte d’appello s’erano limitati a presumere ciò che dovevano dimostrare, arbitrariamente decodificando le conversazioni intercettate in base a tale presunzione. Non risultavano contributi apprezzabili e concreti dell’imputato alla vita della associazione nè condotte specifiche sintomatiche della sua stabile partecipazione. D’altronde proprio in ragione di tale carenza il Tribunale del riesame aveva annullato, sulla base del medesimo compendio probatorio, la misura cautelare con riferimento al capo C).

Nessuna specifica giustificazione era stata fornita dalla Corte d’appello circa l’affermato ruolo direttivo nel secondo sodalizio, mentre la sentenza di primo grado s’era rifugiata in congetture, arbitrariamente condannando D.L.N. sulla base di conversazioni che, quando avevano a contenuto lo spaccio di stupefacenti, immancabilmente si riferivano a S. anzichè a N. e ipotizzando la sua supremazia solo per l’asserito stato di soggezione o di rispetto manifestato dai colloquianti, in totale assenza di prova di comportamenti costituenti manifestazione di potere decisionale.

2.3. Con il terzo motivo del primo ricorso denunzia violazione di legge processuale e sostanziale, omessa motivazione in ordine al prospettato assorbimento della condotta contestata al capo C) in quella contestata al capo A), vizi della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli estremi di entrambe le condotte contestate, emergenti anche dall’ordinanza del Tribunale del riesame prima richiamata, omesso risposta alle deduzioni difensive sul punto.

2.4. Con il quarto motivo del primo ricorso denunzia violazione di legge sostanziale e vizi della motivazione in ordine all’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ritenuta sussistente per il reato al capo C), e in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Deduce che anche in relazione all’aggravante e al diniego delle attenuanti la motivazione della sentenza impugnata si risolveva in congetture e in petizioni di principio, assumendo da un lato senza dimostrazione (concreta e specifica) che gli utili dell’attività di spaccio confluivano nell’associazione camorristica, dall’altro che il ruolo rivestito dall’imputato era incompatibile con le attenuanti generiche.

2.5. Con il primo motivo del secondo atto di ricorso vengono nella sostanza proposte, riassuntivamente, le medesime doglianze, e si denunzia che la motivazione era omessa o apparente, o comunque viziata, in relazione alla sussistenza delle due distinte condotte partecipative, avendo la sentenza impugnata arbitrariamente postulato che l’una implicasse l’altra e che il solo fatto di chiamarsi D. L. fosse elemento di prova a carico del ricorrente, obliterando le opposte valutazioni del Tribunale del riesame e dando valore ad intercettazioni prive di effettivo valore probatorio; che neppure era stato giustificato il ruolo di capo o promotore attribuito al ricorrente; che non era stato valutato il giudicato formatosi sulla posizione di S..

Nessuna giustificazione assisteva la ritenuta contemporanea partecipazione ai due distinti sodalizi ed era mancata la doverosa analisi specifica degli elementi acquisiti e, in particolare, delle intercettazioni nelle quali i parlanti nominavano quali loro capi nello spaccio persone diverse (in specie S.); che la stessa assoluzione dai reati di spaccio rendeva all’evidenza inconsistente l’accusa di partecipazione finalizzata alla commissione di tali reati.

La confusione in cui era incorsa la sentenza impugnata traspariva anche laddove aveva dovuto riconoscere la mancanza di contestazione in relazione all’aggravante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, ma l’aveva poi rimpiazzata con quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che dal capo d’imputazione neppure si comprendeva se fosse riferita al reato di cui all’art. 74 o ai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per i quali era intervenuta l’assoluzione.

L’attribuzione del ruolo di vertice non era sorretto da manifestazione di concreto esercizio di poteri direzionali.

2.6. Con il secondo motivo del secondo ricorso si denunzia violazione di legge per la mancanza di contestazione in fatto in relazione all’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4;

per l’omesso annullamento sul punto della sentenza di primo grado;

per la sostituzione quindi di detta aggravante, con aumento di pena e violazione del divieto di reformatio in peius, con quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 2.7. Con il terzo motivo del secondo ricorso si denunzia violazione di legge con riferimento alla "conferma nel resto" dichiarata dalla sentenza impugnata, da ritenere comprensiva dell’aumento di pena irrogato indebitamente nella sentenza di primo grado per un fantomatico reato al capo I) mai contestato.

2.8. Con il quarto motivo del secondo ricorso si denunzia l’omessa motivazione a sostegno del diniego di circostanze attenuanti generiche e la mancata considerazione della giovane età e della totale incensuratezza dell’imputato oltre che della esigenza di ricondurre la sanzione in ambiti ragionevoli.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che i motivi di ricorso che attengono all’affermazione di responsabilità, per alcuni profili al limite dell’ammissibilità, appaiono nel complesso infondati.

Va ricordato, in proposito, che è principio consolidato che la sentenza di secondo grado che conferma e condivide le valutazioni e le ragioni di quella di secondo grado, si integra con questa e, richiamandola, ben può limitarsi ad evidenziare i soli aspetti rilevanti posti in discussione dai motivi d’appello.

Nel caso in esame il corposo complesso motivazionale della sentenza di primo grado – pur essendo a volte farraginoso, perchè infarcito da lunghe e sovente inutili trasposizioni testuali delle conversazioni intercettate, riportate in ordine cronologico e partendo, con scelta non felice ai fini dell’organizzazione del discorso giustificativo, dalle conversazioni in tema di spaccio – già dava indubbiamente conto di un quadro probatorio di indubbia consistenza.

Capi A) e C), responsabilità. 2. Come accennato in fatto, il Giudice dell’udienza preliminare ha ampiamente richiamato, a premessa e collante della lettura degli elementi acquisiti nel presente procedimento, le vicende dell’associazione camorristica facente capo a D.L.P., detto (OMISSIS), padre di N., a seguito del distacco, da questa, del gruppo cosiddetto degli scissionisti o degli Spagnoli, capeggiato da A.R., e della sanguinosa guerra intercorsa tra i due gruppi, anche dopo che a capo del clan Di Lauro erano subentrati i figli di N., oggetto tra l’altro di sentenze irrevocabili. Le indagini che avevano dato corpo al processo, iniziate a seguito dei fermi e delle misure emesse nei confronti di alcuni esponenti di entrambi i gruppi, si erano sviluppate, attraverso quella che la sentenza di primo grado definiva un "capillare attività di monitoraggio" del territorio controllato, con "epicentro" in (OMISSIS), mediante servizi di osservazione dell’attività di spaccio (documentata fotograficamente nei giorni (OMISSIS));

intercettazioni telefoniche e tra presenti dei soggetti appartenenti o riferentisi al clan Di Lauro, da cui risultava la perdurante operatività sul territorio dell’associazione criminale e la gestione delle piazze di spaccio; intercettazioni dei colloqui intercorsi tra i detenuti del gruppo A. e i familiari, dai quali emergevano i perduranti contrasti con il clan Di Lauro per il predominio della piazze di spaccio.

L’impianto probatorio specificamente riguardante il ricorrente si fondava quindi, stando alla conforme valutazione delle due sentenze di merito, sulle conversazioni intercettate, intrattenute sull’utenza e all’interno dell’autovetture in uso a M.C. – già condannato per partecipazione all’associazione dedita al traffico di stupefacenti – da un lato, e a E.P. – già condannato quale promotore della medesima associazione al capo C) e partecipe dell’associazione di stampo camorristico al capo A) dall’altro.

La individuazione di D.L.N. nel "(OMISSIS)" citato dai colloquianti veniva considerata certa (nè risulta specificamente mai contestata) in quanto corroborata da riferimenti familiari (in specie al padre "(OMISSIS)" e ai fratelli) e da numerosi controlli nel corso dei quali D.L.N. era stato visto in compagnia di quel P.D., capo di una piazza di spaccio, che frequentemente lo nominava e a lui si riferiva per chiarire il senso imperativo delle direttive impartite.

Attestavano in particolare l’inserimento di D.L.N. nel clan camorristico omonimo, che gestiva tramite lui una piazza di spaccio, le conversazioni: n. 566 del 22.5.2005, nella quale gli interlocutori riferivano di avere notato N. "in mezzo all’Arco" con P.D. e ne commentavano il dimagramento dopo la guerra con gli scissionisti affermando che gli aveva fatto proprio male; n. 576 del 22.5.2005, di analogo contenuto, nella quale gli interlocutori discutevano su chi, tra (OMISSIS), M. e T., avesse il comando "in mezzo all’Arco" e concludevano osservando che il comando in finale lo avevano tutti loro, perchè figli di (OMISSIS); n. 77 del giorno 11.4.2005, nella quale si diceva che "i fratelli" ( D.L.) cercavano di non coinvolgere S. nella gestione degli affari criminali perchè era ancora minorenne; che "i fratelli" avevano il potere; che il più "infame" era proprio (OMISSIS).

La connotazione mafiosa del gruppo che aveva il controllo delle piazze di spaccio emergeva chiaramente dalle conversazioni intercettate nella vettura di E.P. e intercorse prevalentemente tra questo e M.M., la cui caratura mafiosa era stata d’altronde oggetto anche delle dichiarazioni del collaboratore E.P. (mero omonimo dell’utilizzatore della vettura intercettata). Tra le conversazioni a tale proposito più significative venivano ricordate e riassunte quelle: n. 173 del 4.6.2005, in cui E. e M. si attribuivano la qualifica di uomini d’onore e parlavano del loro coinvolgimento nella guerra con gli scissionisti; n. 120 del 24.5.2005, in cui gli stessi lamentavano che piazza di spaccio e attività estorsive fossero state affidate a un sottogruppo; n. 120 del 30.6.2005, in cui E. parlava nuovamente della sua militanza nello scontro con gli scissionisti e n. 13 del 13.5.2005, in cui lo stesso si qualificava appartenente al clan, definito dei compagni di mezzo all’Arco (e così pure individuato nelle conversazioni n. 206 del 16.6.2005 e n. 363 del 10.5.2005).

Nell’ambito dei colloqui intercettati, specifici riferimenti a D. L.N., indicativi della sua appartenenza al clan camorristico omonimo, risultavano dalle conversazioni n. 206 e 208 del 10.6.2005 (tra l’ E. e tale D. e il figlio P., addetti allo spaccio, nella quale si diceva dell’influenza di uno dei D. L. sulla zona di "mezzo all’Arco" e si parlava quindi di N. con al seguito altri "compagni"); dalla conversazione n. 234 del 13.6.2005, nella quale M. spiegava le ragioni che lo avevano indotto ad istallare delle telecamere che riprendevano le uscite del garage per prevenire eventuali controlli della polizia e della cantinola, che era posto sicuro perchè fuori del raggio d’azione delle telecamere, nella quale teneva armi e droga; dalla correlata conversazione n. 235 del 13.6.2005, nella quale M. manifestava la sua preoccupazione perchè in garage teneva una borsa di D.L. N. e affermava che era meglio spostarla in un magazzino più sicuro: e a tale proposito veniva considerato sintomatico che, pur essendosi riconosciuto dal G.u.p. che non vi era prova che si trattasse proprio della borsa contenente armi sequestrata in quel posto tre giorni dopo, una persona dal sicuro rilievo camorristico, come M., si prestasse a tenere una cosa pericolosa per conto di D.L.N..

Si evidenziavano quindi, come di particolare rilievo a fini probatori in relazione al ruolo svolto da D.L.N. anche nell’ambito della sottoassociazione dedita al traffico di stupefacenti, le conversazioni: n. 243 del 2.5.2005, nella quale dopo aver parlato di D.L.S. come capo di una piazza di spaccio di hashish, tale S. chiedeva al M. se l’eroina ("l’eros") era di (OMISSIS) e l’altro confermava; n. 4 del 7.4.2005, nella quale M. ricordava che G. (detto il (OMISSIS)) doveva rifondere all’organizzazione quattro pacchetti di droga e il suo interlocutore, P.D., affermava che per disposizione di N. e S. il G. doveva essere strettamente controllato e doveva comportarsi bene, altrimenti l’avrebbero "gonfiato di botte"; n. 97 del 13.4.2005, nella quale il M. diceva che P. gestiva la piazza di spaccio ma era subordinato a (OMISSIS) (che era il "mastro"); n. 173 del 4.6.2005, nella quale, pur facendosi specificatamente soltanto il nome di D.L. S. si parlava della gestione delle piazze di spaccio affidata ai "ragazzini" Di Lauro, così evidentemente facendosi riferimento (secondo i giudici del merito) anche a N., nonchè, comunque, della destinazione di gran parte dei proventi alle casse del clan Lauro; n. 709 del 30.5.2005, nella quale gli interlocutori parlavano dell’avvicendamento dei D.L. e degli Scissionisti nella gestione delle piazze, di N. e dei fratelli e che si concludeva con l’augurio di uno degli interlocutori (il C.) che i Di Lauro tornassero a gestire anche la piazza al momento occupata dagli scissionisti.

La lettura e il rilievo di tali conversazioni sono stati sostanzialmente e plausibilmente confermati dalla sentenza d’appello.

3. Alla luce dell’imponente materiale probatorio, correttamente richiamato, acquisito nel presente procedimento e negli altri processi, conclusisi con sentenze definitive, a carico degli esponenti e sodali del clan Di Lauro in ordine alla esistenza e ai settori d’interesse criminale di tale organismo criminale, deve dunque anzitutto rilevarsi l’infondatezza manifesta e la genericità della censura con la quale si sostiene la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza del clan mafioso.

4. Infondate, al limite dell’ammissibilità, sono quindi le censure, promiscuamente o singolarmente sviluppate nei diversi motivi di ricorso, con le quali si denunziano vizi di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione, con ruolo di vertice, del ricorrente nel clan camorristico di matrice familiare; alla ritenuta partecipazione con ruolo di vertice del ricorrente nel sodalizio dedito allo spaccio; alla configurabilità del concorso tra la condotta di partecipazione e direzione nel sodalizio mafioso e la condotta di partecipazione e direzione nella collegata e sotto ordinata organizzazione dedita allo spaccio di stupefacente.

4.1. Il compendio probatorio prima richiamato adeguatamente giustifica la affermata esistenza dei due sodalizi: l’uno, sovraordinato, di matrice mafiosa che, mediante il controllo del territorio esercitato avvalendosi della consolidata forza intimidatrice e della capacità d’assoggettamento guadagnata nel tempo dalla famiglia camorristica Di Lauro, traeva alimento dalle più svariate attività criminali; l’altro sott’ordinato e dedito in particolare al traffico di stupefacenti.

Correttamente è stata perciò affermata sia la sussistenza di entrambi i sodalizi sia la partecipazione con ruolo di vertice, ad entrambi, del ricorrente, sul rilievo che essi apparivano "strutturati come due cerchi che si intersecano e che hanno (…) un vertice comune, cui è riferibile il livello più elevato di gestione, mentre le strutture organizzative intermedie o più basse (si pensi da un lato ai responsabili ed esattori delle estorsioni o al gruppo di fuoco del sodalizio camorristico, dall’altro lato ai capo piazza e ai singoli spacciatori al dettaglio) sono dotate di una loro autonomia operativa" (p. 103 sent. G.u.p.).

Dove l’utilizzazione dei termini "cerchi" e "vertice" non può essere ovviamente (e contrariamente a quanto lamentato con l’impugnazione) riferita a improprie rigide categorie geometriche, ma intende soltanto spiegare l’interconnessione esistente tra le organizzazioni criminali e la solo parziale loro sovrapposizione del sodalizio mafioso al gruppo di spaccio, con soggezione della direzione di questo a soggetti aventi ruolo di vertice nel gruppo mafioso, "responsabili", altresì e nello specifico, del controllo di talune piazze di spaccio.

4.2. Nessun fondamento ha la censura che i giudici di secondo grado non avrebbero dato risposta ai motivi d’impugnazione.

Questi, analoghi ai motivi di ricorso riassunti prima in fatto, alternando critiche per così dire di "sistema" in relazione alla possibilità di trarre dai medesimi elementi prova della partecipazione e del ruolo di D.L.N. in entrambe le associazioni contestate ovvero nell’una piuttosto che nell’altra, svolgevano sul significato delle conversazioni deduzioni confutative per di più generiche e comunque parziali, pretendendo si scomporne il significato e appuntandosi su aspetti marginali, insistendo da un lato sul fatto che si trattava di conversazioni intrattenute tra terzi e che consistevano in mere illazioni personali; dall’altro sulla considerazione che già il Tribunale del riesame aveva ritenuto non raggiunta la prova dell’accusa contestata al capo C) o che uno dei fratelli del ricorrente era stato assolto dall’accusa di partecipazione al sodalizio mafioso.

Coerentemente la sentenza d’appello ha dunque evidenziato soprattutto le conversazioni dalle quali emergeva che i colloquianti non riferivano soltanto – ma in ogni caso con significativa insistenza e totale sovrapponibilità di indicazioni -di ruoli riconosciuti e di atteggiamenti assunti da D.L.N. (qualificato "mastro";

considerato "il più infame"; riconosciuto erede, con i fratelli, del ruolo del padre), ma anche di fatti e di situazioni concrete, quali la guerra con gli scissionisti condotta dai figli di D.L.P. e tra di essi, in particolare, dal ricorrente o la disponibilità a svolgere nei suoi confronti mansioni, anche pericolose, di supporto, manifestata per comportamenti concludenti da un partecipe dell’associazione mafiosa di spicco, quale il M..

Giustamente significativo del collegamento tra i due sodalizi e del ruolo di coordinatore e collettore del ricorrente è stato considerato inoltre il dato che parte dei proventi dell’attività di spaccio risultasse destinata alle casse del clan (conversazione n. 173 del 4.6.2005) e che la spartizione ed esazione era regolata secondo direttive impartite dal soggetto posto a capo della singola piazza di spaccio ( P.) cui era sovraordinato il ricorrente (conversazioni n. 4 del 7.4.2005 e n. 97 del 13.4.2005). L’ingerenza nell’attività del sottogruppo con compiti di controllo e supervisione dell’attività illecita da questo svolto nell’interesse convergente del sodalizio mafioso, essendo già di per sè sufficiente a delineare uno stabile contributo direttivo realizzato sia a favore dell’organismo sovraordinato sia nell’ambito di quello subordinato.

4.3. Quanto alla diversa conclusione raggiunta nei confronti di D.L.S., nel separato procedimento a suo carico, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato le conversazioni dalle quali emergeva la differente posizione di questo, riferendosi gli interlocutori all’intenzione dei fratelli maggiori tenere il più piccolo lontano dalle attività criminali mafiose perchè ancora minorenne.

Del pari esauriente è la risposta data alle deduzioni con le quali si evocavano le differenti conclusioni raggiunte in sede cautelare (in relazione al capo C, per il quale s’era ritenuta insufficiente la prova). Già nella sentenza di primo grado s’era ampiamente dato conto difatti della circostanza che il materiale probatorio raccolto ed esaminato nel giudizio di merito era ben più ampio di quello considerato in sede cautelare (che si riduceva alla conversazione n. 243 del 2.5.2005, in cui si parlava dell’eroina di N.) e giustificava appieno l’affermazione di responsabilità anche per il secondo reato.

In ordine a tali considerazioni le doglianze articolate in ricorso non superano d’altronde la soglia della genericità, mancando non soltanto di allegazioni ma persino di deduzioni specifiche in ordine all’esistenza di differenti aspetti fattuali, in tesi decisivi, non considerati.

4.4. Se dunque in nessuna delle conversazioni intercettate il ricorrente appare tra gli interlocutori ed è vero che alcune volte questi riferiscono di notizie circolanti nell’ambiente criminale, parlando indistintamente dei fratelli D.L., ovvero nominando per certune singole attività o ingerenze altri fratelli, è altresì vero che esiste però anche una congerie di conversazioni che segnatamente si riferiscono al ricorrente attribuendogli condotte, compiti e direttive, che correttamente sono state considerate idonee a riempire di contenuti specifici, riscontrandoli, anche i giudizi altrove più genericamente espressi in relazione alla posizione e al ruolo di D.L.N..

Manifestamente infondate sono perciò le censure con le quali si sostiene che gli elementi acquisiti sarebbero vaghi e mai indicativi di specifiche condotte. E inammissibili sono le deduzioni con le quali, evocandosi singole frasi o riferimenti sparsi nelle diverse conversazioni, si pretende di confutare il significato assegnato al complesso dei colloqui richiamati dalle sentenze di merito. Non solo, infatti, siffatte doglianze sono improponibili in questa sede perchè afferiscono a valutazioni riservate ai giudici del fatto, plausibilmente giustificate sulla base del tenore letterale affatto palese di ciascuna conversazione, del collegamento tra di loro esistente, degli ulteriori elementi raccolti nei separati procedimenti a carico degli esponenti del clan Di Lauro e dei secessionisti. Ma si tratta oltretutto di censure prive di autosufficienza e per lo più generiche, in quanto anch’esse meramente ripetitive di prospettazioni difensive alle quali le sentenze di primo e secondo grado hanno nella sostanza già adeguatamente risposto, senza incorrere in omissioni nè in alcun vizi logico.

4.5. Palesemente infondate appaiono in fine le denunzie di violazione della legge sostanziale che, assumendo a presupposto l’inesistenza di base probatoria adeguata, non hanno, rispetto a quelle infondate o inammissibili che si rivolgono alla motivazione, alcuna autonoma consistenza.

Capo 1).

5. Prive di fondamento sono le doglianze relative alla condanna per un "fantomatico" reato al capo I), ovvero ad un presunto aggravamento della pena a tale reato correlato.

Occorre precisare che nè la sentenza di primo grado nè quella impugnata riportano alcun reato contestato al "capo I)" a D.L. N..

La contestazione era invece sin dall’inizio riferita esclusivamente al reato di cui all’art. 416 bis c.p. indicato al capo A); a reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e di cui all’art. 73 contestati nell’ambito del capo C); a un’ipotesi aggravata di detenzione e porto continuato di arma da fuoco e relativo munizionamento, contestata al capo(g); a un’ipotesi aggravata di detenzione illegale di stupefacente contestata ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 al capo H).

Il Giudice dell’udienza preliminare aveva formalmente assolto D. L.N. dai fatti ai capi G) e H). Alle pagine 101 e 102 della motivazione aveva dettagliatamente esplicitato le ragioni dell’assoluzione. Ciò nonostante, procedendo al calcolo della pena aveva affermato che la pena di ventiquattro anni di reclusione, individuata come pena base per il più grave reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, doppiamente aggravato, andava portata a trenta anni, poi ridotti per il rito abbreviato, "tenuto conto della continuazione con il reato di cui all’art. 416 bis (…) (con aumento di ulteriori sei anni di reclusione), con gli episodi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, come contestati al capo c) (.,.) g) ed i) della rubrica (per i quali dovrebbe applicarsi un ulteriore aumento di anni uno e mesi sei, non applicabile in concreto considerato il superamento del limite di cui all’art. 66 c.p., n. 1". 5.1. Di tutta evidenza dunque: (1) che il riferimento al capo I) costituisce mero lapsus calami, essendo evidente che il richiamo era ai reati contestati e andava semmai letto come al capo H); (2) che nonostante la clamorosa dimenticanza dell’intervenuta assoluzione, nessuna condanna era stata pronunziata e nessun aumento di pena era stato irrogato neppure dal primo giudice nè per il capo G) nè per il capo H) nè per qualsivoglia altro "fantomatico" capo o reato diverso da quello contestato sub A), relativo all’associazione di stampo mafioso.

5.2. La Corte d’appello, dal suo canto, dopo avere assolto il ricorrente anche dall’ipotesi di violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 contestata nell’ambito del capo C), per la quale non v’era stata autonoma irrogazione di pena, ha comunque ridotto la frazione di pena calcolata a titolo di continuazione, portandola a due anni di reclusione (in totale perciò determinando la pena per le due associazioni, in ventisei anni di reclusione, ridotti di un terzo per il rito abbreviato), precisando in dispositivo che la continuazione si riferiva al "solo capo a) della rubrica".

Non ha perciò alcuna rilevanza la circostanza che nella motivazione della sentenza impugnata non risultino esplicitamente offerti i chiarimenti indicati al punto precedente. Quello che conta, difatti, è che la Corte d’appello abbia riconosciuto che l’imputato è stato condannato solo per le due associazioni contestate ai capi A) e C) e che nessuna pena per un diverso reato gli è stata inflitta.

Capi A) e C), aggravanti e pena.

6. Infondate, e al limite dell’ammissibilità, sono anche le censure riferite in vario modo al trattamento sanzionatorio, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alle aggravanti, agli aumenti di pena.

6.1. L’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 è stata correttamente ritenuta per il reato al capo C) in base al rilievo che l’attività dell’associazione dedita allo spaccio serviva l’organizzazione di stampo mafioso cui conferiva parte dei suoi proventi.

6.2. Quanto all’aumento di pena inflitto per detta aggravante, va ricordato che la sentenza impugnata ha escluso quella di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, rilevando che l’essere l’associazione armata la stessa non era stata mai contestata in fatto in relazione al capo C).

Correttamente ha ritenuto tuttavia immodificabile l’aggravamento di pena irrogato in relazione a tale titolo di reato, rilevando che esso restava aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

E difatti, in primo grado il G.u.p., ritenendo sussistente sia l’aggravante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4 sia l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, aveva fatto applicazione del disposto dell’art. 63 c.p., comma 4, (secondo cui in caso di concorso di due circostanze ad effetto speciale si da corso all’aumento di pena per la sola circostanza più grave, con aumento di pena facoltativo per l’altra) ed aveva applicato un solo aumento di pena, portando la pena a 24 anni di reclusione, avendo erroneamente individuando come circostanza aggravante ad effetto speciale più grave quella prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, anzichè la circostanza di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che, prevedendo un aumento di pena da un terzo alla metà, comportava una pena da 26 anni e otto mesi a 30 anni.

Giustamente la Corte d’appello ha affermato dunque che una volta esclusa l’aggravante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, si riespandeva l’effetto aggravatore derivante dal riconoscimento della circostanza di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7: ferma tuttavia l’impossibilità di correggere in peggio, in assenza di impugnazione del Pubblico ministero, l’aumento di pena erroneamente calcolato dal primo giudice al di sotto dei minimi edittali.

In conclusione del tutto esatto appare il mantenimento della pena per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 1, aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, nei limiti dei 24 anni di reclusione determinati dal G.u.p., il cui errore ha in concreto prodotto soltanto un irreversibile effetto favorevole per l’imputato.

6.3. E’ invece fondato il rilievo che la Corte d’appello ha omesso di escludere espressamente, ma soltanto per quanto concerne il dispositivo della sentenza, il riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, che appariva nella contestazione al capo C), pur avendo ritenuto in motivazione, come appena detto, che l’aggravante non era configurabile.

Tale difetto è tuttavia emendabile in questa sede, giacchè non è dubbio che mancando una contestazione in fatto ed avendo la motivazione della sentenza impugnata precisato che il reato al capo C) non poteva intendersi aggravato dall’essere l’associazione armata, la condanna non è riferibile a detta circostanza.

6.4. Inammissibili sono infine le doglianze relative al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che toccano aspetti squisitamente di merito e sono in definitiva generiche. Le sentenze di merito giustificano la decisione alla luce della natura, gravità e ampiezza delle condotte poste in essere e del ruolo svolto, dal ricorrente, nei due sodalizi. Corretta è perciò l’evocazione di parametri indicati dall’art. 133 c.p., valutabili anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

Conclusioni:

7. La sentenza impugnata deve per conseguenza essere annullata senza rinvio limitatamente alla omessa formale esclusione dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4 dal capo C).

Il ricorso deve per il resto essere rigettato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 4, che esclude.

Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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