Cass. pen., sez. I 22-12-2008 (02-12-2008), n. 47544 Concorso con il delitto di sequestro di persona

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe il Tribunale di Taranto, investito ex art. 309 c.p.p. dalla richiesta di riesame proposta nell’interesse dell’indagato P.G., confermava l’ordinanza 8.8.2008 del Giudice delle indagini preliminari che aveva applicato al ricorrente la custodia cautelare in carcere per i reati di sequestro di persona e tentato omicidio aggravato ai danni del figlio, P.F.P., di (OMISSIS) anni.
1.1. A ragione, richiamava le dichiarazioni rilasciate dal minore e da sua madre, F.A., nonchè quelle dei numerosi testi:
L., A., C., Co., G., Lu., il sequestro di una bottiglia vuota di alcol etilico e l’accendino trovato indosso all’indagato. Osservava che sulla base di quelle dichiarazioni il fatto poteva ricostruirsi nel seguente modo:
v’erano rapporti conflittuali tra il P. e la sua ex convivente F., madre di F.P.; già in precedenza il P. aveva prelevato il ragazzo senza il suo consenso e l’aveva trattenuto in casa sua; anche il (OMISSIS), verso le 21, l’aveva preso con se, ma con maggior violenza, "strappandolo dalla presa" del fratello maggiore e trascinandolo; la madre appreso ciò dall’altro figlio s’era recata sotto l’abitazione del P. e, lui sul balcone lei in strada, avevano discusso concitatamente; il ragazzino aveva tentato di affacciarsi ma era stato respinto all’interno dal padre che con una bottiglia di alcool e un accendino in mano aveva intimato alla donna di andare via, altrimenti avrebbe "dato fuoco" al bambino e a sè stesso; la donna aveva chiamato i Carabinieri che avevano tentato di sedare la lite; allontanatisi quelli la lite però era proseguita. Ad un certo punto la F. era riuscita ad aprire il portone dello stabile e, giunta davanti alla abitazione dell’indagato, aveva cercato di forzare la porta di entrare. Mentre il padre era distratto dai tentativi della madre, F.P. si lanciava dal balcone e veniva raccolto, la maglietta intrisa d’alcool, dalle persone che in gruppo s’erano raccolte lì sotto. Il P., tornato sul balcone, svuotava sulle persone dabbasso la bottiglia di alcool e minacciava di dar fuoco a tutti con l’accendino che ancora aveva in mano.
Evidenziava quindi, in particolare, che F.P. aveva raccontato che, arrivati a casa, per prima cosa suo padre aveva preso alcool e accendino, s’era affacciato alla finestra gridando alla madre di andarsene altrimenti avrebbe dato fuoco a lui e a sè; lo aveva minacciato di non fargli vedere più la mamma se avesse pianto o detto qualcosa ai Carabinieri e quando quelli erano andati via gli aveva gettato addosso l’alcool sulla maglietta, davanti e dietro, dicendogli: "se viene la mamma ti faccio prendere fuoco, prima a te poi a me"; parlando "arrabbiato", tenendolo stretto e tirandoselo dietro. Poi era arrivata la mamma e il padre era andato alla porta cercando di tenerla chiusa con una sedia e le mani e mentre il padre faceva questo lui, il ragazzino, s’era buttato, arrampicandosi sul balcone e lasciandosi andare, ma non era caduto perchè la gente l’aveva preso.
Riteneva dunque configurabili entrambi i reati contestati e sussistenti gravi esigenze cautelari.
2. Ha proposto ricorso l’indagato a mezzo del proprio difensore chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata.
Deduce violazione della legge sostanziale (delle disposizioni incriminatrici applicate) e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione:
2.1. con riferimento alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di tentato omicidio e alla configurabilità stessa del tentativo, afferma in particolare che il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto il dolo diretto (necessario nell’ipotesi del tentativo) e l’esistenza di atti idonei e non equivoci sulla base di comportamenti invece non sufficienti nè concludenti quali l’aspersione del bambino con liquido infiammabile e il tenere in mano un accendino, non considerando che se l’indagato avesse voluto effettivamente dare fuoco al figlio nulla gli impediva di farlo, non certo il fatto che la madre stesse bussando alla porta;
2.2. con riferimento all’ipotizzato reato di sequestro di persona, osserva che nel portare con se il ragazzino il padre aveva esercitato la potestà genitoriale e lo ius corrigendi (il bambino stava giocando in strada a ora tarda); la sua azione era perciò giustificata ai sensi dell’art. 51 c.p.; denunzia inoltre l’erronea qualificazione del fatto alla stregua dell’art. 605 c.p. anzichè come sottrazione di incapace, a mente dell’art. 574 c.p.; censura come contraddittoria e manifestamente illogica l’affermazione secondo cui quanto riferito in un primo momento dal bambino ai Carabinieri, che aveva volontariamente seguito il padre, sarebbe stato frutto delle minacce rivoltegli, giacchè se così fosse stato i Carabinieri avrebbero sicuramente notato l’agitazione del bambino;
2.3. con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari e alla adeguatezza della misura applicata, sostiene infine che mancavano seri elementi per una prognosi di pericolosità: tanto più capaci di giustificare la scelta della misura più afflittiva; e sottolinea l’ipoteticità e l’illogicità del sospetto d’evasione che costituiva presupposto implicito dell’affermata inidoneità della misura degli arresti domiciliari in vista del pericolo di commissione di altri analoghi reati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il Collegio che la esistenza di gravi indizi in ordine ai fatti ipotizzati correttamente è stata affermata dal Tribunale all’esito di una ricostruzione della vicenda saldamente ancorata agli elementi acquisiti, diffusamente illustrati e adeguatamente apprezzati (vedi sopra, in fatto, punto 1.1.).
Non possono d’altro canto trovare ingresso in questa sede censure che attengono alla valutazione del materiale probatorio nè, più in particolare, al significato e al valore attribuito alle dichiarazioni della persona offesa – anche se minorenne, considerata la fase delle indagini -.
Va dunque rilevata, in premessa, l’inammissibilità della doglianza specificamente rivolta alla affermazione del Tribunale che quanto detto da F.P. ai Carabinieri, all’atto del loro intervento, appariva frutto delle minacce subite e non era sufficiente ad escludere credibilità e verosimiglianza del suo successivo racconto.
2. Corretta e insindacabile la interpretazione degli elementi di prova, quanto alla configurabilità del reato di tentato omicidio, plausibilmente il Tribunale ha ritenuto l’idoneità e la direzione non equivoca degli atti compiuti dal ricorrente – che secondo il racconto del ragazzo l’aveva cosparso di liquido infiammabile sulla parte anteriore e posteriore del busto, all’altezza di organi vitali, e aveva impugnato un accendino dicendo "arrabbiato" che gli avrebbe appiccato fuoco – sottolineando la loro valenza obiettiva, sintomatica dell’intenzione di porre in essere davvero quanto preannunciato.
Nè può validamente negarsi, come pretende il ricorrente, l’esistenza di atti idonei riconducibili al paradigma del tentativo punibile, solo perchè la serie causale non risulta compiuta, non avendo il P. avvicinato la fiamma agli indumenti del figlio già da lui inzuppati d’alcool. Quello che si richiede ed è sufficiente, a norma dell’art. 56 c.p., per la integrazione del tentativo è infatti che gli atti abbiano due qualità: un valore, un’attitudine causale, cioè la capacità di concorrere alla produzione dell’evento; un valore sintomatico, cioè siano prova di una volontà, o fine, o intenzione di commettere un delitto (lavori preparatori: verbale C.M. n. 15; R.G., p. 1, n. 100).
La distinzione tra atti meramente preparatori e atti esecutivi, o più esattamente tra delitto mancato e delitto tentato, era stata d’altronde volutamente abbandonata nella formulazione lessicale adottata dal codice Rocco per la ritenuta impossibilità di individuare "una netta e condivisa linea di demarcazione, in concreto, tra preparazione ed esecuzione¯ (vedi verbale e relazione citati); sicchè, a prescindere da ogni sforzo definitorio che implica comunque una adesione di principio al significato delle terminologia adottata, ciò che importa, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. da ultimo Sez. 1, n. 40058 del 24 settembre 2008, Costello e Sez. 6, Sentenza n. 27323 del 20/05/2008 Portoghese, che pur partendo da affermazione di principio apparentemente distanti giungono a conclusioni conformi nella sostanza), è che anche un’attività non completata può configurare tentativo punibile se rivela, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei, l’adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto (se predispone i mezzi e crea le condizioni per il delitto, come dice la sent. 40058/2008 citata), dimostrando contemporaneamente, per le modalità di realizzazione e il contesto, la volontà dell’agente di commettere il delitto.
Del pari adeguato, nel contesto fattuale evidenziato e atteso lo stadio delle indagini, appare il riconoscimento di gravi elementi deponenti per il dolo d’omicidio. Plausibile è infatti il rilievo che siffatta intenzione era sufficientemente dimostrata dalle parole di F.P. (per prima cosa il padre aveva preso alcol ed accendino e lo aveva "minacciato" "arrabbiato") e dalla pervicacia con cui, dopo il salto dal balcone del figlio, aveva continuato a versare l’alcool alle persone che erano dabbasso ("minacciando" anche loro, con l’accendino in mano, di dar fuoco). E plausibile è la considerazione che il comportamento in concreto tenuto non consentiva affatto di condividere l’affermazione difensiva che il P. non aveva intenzione di appiccare il fuoco perchè non l’aveva – e non l’avrebbe – fatto pur avendone la possibilità, argomentata sul rilievo che risultava al contrario che il P. era stato "distratto" dall’arrivo della F. e dal timore che lei riuscisse ad entrare.
3. Sulla base della complessiva ricostruzione della vicenda è altresì corretta la configurazione del delitto di sequestro di persona. Il Tribunale ha difatti adeguatamente giustificato l’affermazione che con il suo comportamento il P. aveva realizzato una limitazione della libertà fisica del bambino, trascinato a forza e costretto in casa del padre con minacce, tanto che era stato costretto, per sfuggirgli, a lanciarsi dal balcone quando il ricorrente era stato distolto dall’intervento della madre.
3.1. Manifestamente infondata, in diritto, è la prospettazione difensiva con la quale si sostiene che la condotta sarebbe scriminata dall’esercizio dello ius corrigendi derivante dalla potestà genitoriale (assertivamente perchè il bambino stava giocando in strada, di sera), prospettazione sulla quale la difesa del ricorrente ha insistito anche in sede di discussione orale.
Pure ammettendosi che nei confronti di un minore il potere educativo attribuito ai genitori (Cost., art. 30) comprenda l’uso moderato di mezzi coercitivi e repressivi, deve escludersi che detto potere consenta il ricorso ad azioni violente o brutali che incidono su diritti fondamentali del fanciullo, per lui prima che per ogni adulto insopprimibili, in coerenza con i principi costituzionali e con le Convenzioni internazionali (Convenzione di New York del 1989, ratificata in Italia con L. n. 176 del 1991) che impongono di considerare il minore non un "oggetto di protezione e tutela, ma un soggetto di diritto, che va aiutato a crescere, assecondato nelle sue inclinazioni, rispettato, vedendo in lui una persona in formazione, che ha bisogno di una guida" che ne rispetti dunque la fragilità e la dignità (per tutte, tra molte: Sez. 6, Sentenza n. 39927 del 22/09/2005, Agugliaro).
Nè rileverebbe, alla luce dell’evoluzione culturale e, di conseguenza, normativa, l’eventuale diversa opinione dell’agente.
L’attuale formulazione dell’art. 147 c.c., movendo nell’ottica ricordata, prevede che i genitori, nell’ambito del loro obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, debbono tenere conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli:
con l’effetto naturale "che dalle relazioni familiari deve ritenersi bandita ogni forma di violenza, quale legittimo strumento al quale fare ricorso a fini educativi". Anche una vis modicissima, eccezionale ed estrema, deve essere perciò in ogni caso compatibile con la finalità di ""correzione" da intendersi come sinonimo di "educazione""; il mezzo deve essere perciò adeguato e proporzionato alla eventuale manchevolezza commessa e mai può risolversi in una ingiustificata mortificazione del "modo naturale di essere bambino";
e come fatto educativo, soprattutto, deve potere essere avvertito dal minore. Costituiscono mezzi educativi, in conclusione, non quei mezzi, di qualunque specie, che vengano usati a tale fine, "ma soltanto quelli per loro natura a ciò deputati", l’uso di mezzi di per se illeciti o contrari allo scopo non rientrando neppure nella previsione dell’art. 571 c.p., ma integrando, a seconda degli effetti prodotti, altre ipotesi incriminatici, ed essendo definitivamente da ripudiare la tesi che individua nella proiezione soggettiva dell’agente una sorta di legittimazione del mezzo usato, quale che esso sia (sent. Agugliaro, citata).
3.2. Infondata è poi la doglianza con la quale s’assume che il fatto andava al più qualificato ai sensi dell’art. 574 c.p. (sottrazione di persona incapace).
La condotta del ricorrente, per come ricostruita, ha determinato una grave limitazione della libertà fisica, intesa quale possibilità di movimento, del minore, risultando che il P. aveva preso con la forza il bambino, costringendolo ad abbandonare il fratello più grande con il quale si trovava, a seguirlo in casa, a restare lì, accanto a lui, "tenendolo stretto e tirandoselo dietro" (secondo il racconto del ragazzino riportato dal Tribunale). E non v’è dubbio, sulla base dei comportamenti così descritti, che il minore avesse manifestato il proprio dissenso e che il ricorrente ne fosse consapevole e intendesse costringerlo.
Non vi sarebbe stata dunque solo sottrazione del minore alla madre, cui era affidato (la qual cosa, ricorrendo la lesione della posizione giuridica di questa, potrebbe integrare l’ipotesi concorrente dell’art. 574 c.p., non contestata e non oggetto in concreto d’esame), ma – ed è ciò che conta ai fini del presente ricorso – risulta (anche) esservi stata menomazione della libertà fisica del minore sottratto, e cioè lesione di diritto autonomamente tutelato – a prescindere dall’età dell’offeso – dall’art. 605 c.p..
E le due norme non sono fra di loro alternative nè l’una assorbe l’altra (cfr. Sez. 5, n. 38438 del 20/09/2001, Welsch e l’analisi della giurisprudenza ivi contenuta, nonchè Sez. 5, n. 21954 del 20/02/2008, Cogorno), non tanto perchè, come pure è stato rilevato, hanno diversa obiettività giuridica (nel senso che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità, cfr. da ultimo S.U. n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi), quanto perchè le fattispecie sono indiscutibilmente diverse dal punto di vista strutturale (S.U. n. 47164 del 20/12/2005, Marino) e sanzionano, in particolare, offese diverse; hanno cioè diverso oggetto materiale: l’una, quella evocata, l’affidamento del minore, ovvero -in ipotesi di sottrazione ad opera di uno dei due genitori – l’esercizio da parte dell’altro genitore della potestà attribuitagli; l’altra, quella contestata e ritenuta, la libertà fisica e di movimento del minore.
D’altronde alla commissione del reato di cui all’art. 574 c.p. non consegue affatto, secondo l’id quod plerumque accidit, anche la commissione del reato di cui all’art. 605 c.p. e nessuna delle due fattispecie incriminatrici esaurisce, in concreto, l’intero disvalore del fatto in esame (l’esclusione dell’ipotesi contestata lascerebbe senza tutela il diritto alla libertà di movimento del minore, cui pure vanno riconosciuti, come s’è già detto, i diritti fondamentali). Non vi è davvero spazio, perciò, per considerare solo apparente il concorso tra le due norme in applicazione sostanziale del principio processuale del ne bis in idem.
4. Inammissibili sono infine le censure rivolte alla affermazione che sussistevano esigenze cautelari non contenibili con misure meno afflittive, giustificata sulla base di valutazioni di merito correttamente formulate e insindacabili in questa sede.
Adeguata, in particolare, appare la considerazione che la applicazione della custodia in carcere era, nel contesto fattuale ricostruito, giustificata dalla natura dei reati commessi, dalle specifiche modalità dei fatti, dalla violenza dimostrata e dalla gravità dei singoli episodi e, dunque, dalla pericolosità che i comportamenti in concreto tenuti esprimevano, anche alla luce dei precedenti episodi di cui si era dato conto in premessa. E plausibilmente è stato dato rilievo, alla luce dei medesimi elementi di fatto, alla circostanza che la persona offesa e sua madre abitavano nelle immediate vicinanze del ricorrente per escludere l’adeguatezza, allo stato, degli arresti domiciliari. Nè ha pregio la censura che così facendo il Tribunale avrebbe ipotizzato un’evasione, giacchè è appunto sul pericolo di commissione d’altri reati che va fondata la prognosi di pericolosità ed è proprio il pericolo che l’imputato non s’attenga alle prescrizioni impartitegli che conferisce legittimità alla esclusione degli arresti domiciliari 5. Conclusivamente, apparendo il provvedimento impugnato immune dai vizi denunziati, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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