Cons. Stato Sez. VI, Sent., 13-05-2011, n. 2909 Appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze del T.A.R Giustizia amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso n. 1830 del 2002 proposto al T.A.R. per il Veneto, la dott.ssa M. chiedeva l’annullamento: a) della delibera del consiglio di amministrazione dell’Ente autonomo Arena di Verona in data 20 gennaio 1998, con cui era stato prorogato sino al 31 agosto 1998 il rapporto di lavoro con lei instaurato in data 1° febbraio 1996; b) del provvedimento della Soprintendenza dell’Ente autonomo Arena di Verona in data 29 gennaio 1998, con cui le era stata comunicata la proroga del rapporto di lavoro instaurato, e infine c) dell’atto della medesima Soprintendenza in data 30 maggio 1998, con il quale l’Ente aveva comunicato il preavviso di recesso del rapporto di lavoro in corso di svolgimento.

Al riguardo, l’interessata esponeva che:

– con deliberazione in data 18 dicembre 1995, il consiglio di amministrazione dell’Ente Autonomo Arena di Verona le aveva conferito l’incarico di "addetto stampà dell’Ente;

– con la deliberazione in data 24 febbraio 1996, il consiglio di amministrazione le aveva conferito l’incarico di Capo dell’Ufficio Stampa per il periodo 1° febbraio 1996 – 31 gennaio 1998, anche se la sua attività restava assoggettata alla "responsabilità di ordine generale" del responsabile del servizio promozione e Marketing (il contenuto specifico dell’incarico in tal modo attribuito veniva specificato con nota del Soprintendente del 9 marzo 1996 e fra gli obblighi essenziali posti a suo carico figuravano: a) l’esclusività della prestazione; b) l’obbligo della residenza a Verona; c) il riconoscimento di particolari indennità per le trasferte e la malattia);

– nello svolgimento del suo incarico, all’appellante (sia pure inizialmente incardinata nell’ambito del "servizio promozione e marketing’, comprendente anche l’Ufficio stampa) venivano attribuiti rilevanti compiti di responsabilità implicanti (fra l’altro) la gestione di unità dei personale, l’adozione di atti a rilevanza esterna, la partecipazione a riunioni organizzative di alto profilo e l’impostazione di campagne promopubblicitarie;

– gli orari della prestazione lavorativa "erano da reputarsi fissi" (pag. 14 del ricorso in appello), con diversa articolazione nel periodo invernale e primaverile e nel periodo estivo ed autunnale;

– in occasione dell’assenza per malattia del sovraordinato responsabile del servizio promozione e marketing (lugliodicembre 1996), all’appellante venivano attribuiti ulteriori, rilevanti compiti rientranti nelle competenze proprie del relativo responsabile (ad es.: svolgimento di attività di pianificazione ed organizzazione di eventi, progettazione di iniziative promozionali, stipula di convenzioni con Enti) e che una parte di tali compiti continuavano ad essere da lei espletati anche dopo il rientro dalla malattia del responsabile del servizio;

– con la delibera in data 20 gennaio 1998, il consiglio di amministrazione della Fondazione stabiliva di prorogare l’incarico intercorso con l’appellante dal 1° febbraio 1998 sino alla trasformazione dell’Ente in Fondazione di diritto privato;

– con due successive note (rispettivamente in data 28 e 30 maggio 1998), l’Ente comunicava che, a seguito dell’emanazione del d.lgs. 23 aprile 1998, n. 134, esso aveva acquistato la personalità giuridica di diritto privato con decorrenza dal 24 maggio 1998 e, conseguentemente, all’appellante veniva comunicato il preavviso di recesso dal rapporto in essere (recesso che si sarebbe verificato allo scadere dei tre mesi dal giorno 1° giugno1998), cui è seguita la cessazione effettiva del rapporto in data 31 agosto 1998.

Con la sentenza gravata, il Tribunale adito così decideva:

– dichiarava inammissibile il ricorso introduttivo per la parte in cui erano stati impugnati atti risalenti a circa quattro anni addietro (ci si riferisce, in particolare, agli atti del gennaio 1998 con cui si era stabilito di prorogare l’incarico intercorso con l’appellante dal 1° febbraio 1998 sino alla trasformazione dell’Ente in Fondazione di diritto privato);

– lo respingeva in relazione alle altre domande di giustizia (ivi compresa quella relativa al risarcimento dei danni asseritamente patiti).

La sentenza veniva gravata in sede di appello dalla dott.ssa M., la quale ne chiedeva l’integrale riforma articolando un unico, complesso motivo di doglianza (‘Difetto e incongruità della motivazione ed errore sui punti decisivi della controversia – Violazione di legge’).

In particolare, l’odierna appellante chiedeva che, in riforma della pronuncia oggetto di gravame: –

– siano annullate le delibere con cui era stato dapprima prorogato al 31 agosto 1998 e, successivamente, dichiarato estinto il rapporto di lavoro;

– sia dichiarata l’invalidità dell’atto di risoluzione (in altri punti si parla di recesso) e, conseguentemente, ordinato il reintegro nel posto di Capo dell’Ufficio stampa;

– sia accertato che il rapporto lavorativo in questione avesse natura subordinata;

– sia accertato il diritto dell’appellane alla corresponsione degli importi dovuti in considerazione delle superiori mansioni in concreto svolte rispetto a quelle di formale inquadramento (con definitiva assegnazione delle mansioni in questione);

– in ogni caso, sia condannata l’Amministrazione al ristoro del danno cagionato in conseguenza della propria condotta.

Con il ricorso in appello, inoltre, la dott.ssa M. riproponeva integralmente i motivi di ricorso già articolati nell’ambito del primo giudizio e ritenuti assorbiti dal T.A.R.

Si costituiva in giudizio la Fondazione Arena di Verona, la quale concludeva per la reiezione del gravame.

All’udienza pubblica del giorno 1° febbraio 2011, la causa veniva trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla dott.ssa M., già Capo dell’Ufficio stampa della Fondazione Arena di Verona, avverso la sentenza del T.A.R. del Veneto con cui è stato in parte dichiarato inammissibile e in parte respinto il ricorso finalizzato: a) all’annullamento degli atti con cui la Fondazione Arena di Verona aveva dapprima prorogato il rapporto lavorativo con lei intercorso sino alla data del 31 agosto 1998 e successivamente comunicato l’intervenuta risoluzione del rapporto medesimo, con conseguente ordine di reintegro; b) alla declaratoria del carattere subordinato del rapporto di lavoro già intercorso con la Fondazione; c) alla corresponsione degli importi spettanti in seguito alla prestazione lavorativa svolta (in particolare, per lo svolgimento di mansioni superiori) e alla definitiva assegnazione delle mansioni in concreto svolte; d) al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del comportamento illegittimo – ed illecito – posto in essere dalla Fondazione nell’ambito della complessiva vicenda, ovvero alla corresponsione dell’indennità sostitutiva di cui al quinto comma dell’art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300.

2. Con il motivo di gravame rubricato "Difetto e incongruità della motivazione ed errore sui punti decisivi della controversia – Violazione di legge’, l’appellante articola motivi di doglianza che possono essere così sintetizzati:

a) i primi Giudici non avrebbero offerto un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni per cui ritenevano di non accogliere i profili di doglianza articolati in sede di ricorso (molti dei quali sarebbero stati respinti in modo aprioristico sulla base di circostanze la cui decisività sarebbe stata solo dichiarata, ma non dimostrata in concreto);

b) la sentenza sarebbe erronea per la parte in cui ha dichiarato la tardività del gravame proposto nel 2002 avverso i provvedimenti con cui l’Ente appellato aveva dapprima disposto la proroga del rapporto di lavoro in essere e, successivamente, comunicato l’intenzione di recedere dal rapporto stesso. Sotto tale aspetto, i primi Giudici avrebbero omesso di considerare: i) che un’impugnativa avverso gli atti in parola era stata comunque proposta (anche se non in sede giurisdizionale, bensì con lettera raccomandata indirizzata alla Fondazione), laddove la contestazione del disposto licenziamento non richiede l’utilizzo di formule sacramentali; ii) che, comunque, il rapporto di lavoro in parola si era medio tempore trasformato in rapporto a tempo indeterminato. Ciò, in quanto gli atti dell’Ente del gennaio 1998 avevano disposto la proroga dell’incarico soltanto fino alla data di trasformazione in Fondazione di diritto privato (evento, questo, che si era perfezionato in data 23 maggio 1998). Tuttavia, anche all’indomani di tale data il rapporto era proseguito con la neoistituita Fondazione sino al 31 agosto 1998, in tal modo rendendo operativa la previsione di cui all’art. 2 della l. 18 aprile 1962, n. 230 in tema di stabilizzazioni dei rapporti di lavoro a tempo determinato laddove il rapporto prosegua anche dopo la scadenza dei termini inizialmente previsti.

c) inoltre, i primi Giudici avrebbero errato nel negare l’esistenza di un rapporto di lavoro di carattere subordinato con l’Ente appellato in quanto (al contrario) nel corso del giudizio sarebbero stati offerti numerosi e univoci indici in tal senso (ad es.: l’imposizione dell’obbligo di residenza a Verona, lo stabile inserimento nell’ambito della struttura organizzativa dell’Ente, l’invariabilità dei corrispettivi e il carattere fisso e periodico dei pagamenti, l’esistenza – di fatto – di orari fissi di lavoro). Del resto, le modalità concrete di svolgimento del rapporto lavorativo avevano indotto nell’odierna appellante il convincimento di essere legata con l’Ente a un rapporto di lavoro di carattere subordinato (ricorso in appello, pag. 38);

d) ancora, i primi Giudici avrebbero omesso di considerare che, al momento del disposto licenziamento, il rapporto di lavoro era intrattenuto con una Fondazione di diritto privato, nei cui confronti non sussistevano i limiti all’assunzione di cui all’art. 4 della l. 23 dicembre 1992, n. 498;

e) il T.A.R. avrebbe omesso di considerare il fatto che la posizione lavorativa della dott.ssa M. fosse stata assoggettata sin dall’inizio a contribuzione INPS, al pari degli altri lavoratori subordinati dell’Ente;

f) la pronuncia sarebbe erronea per la parte in cui ha negato la possibilità di corrispondere gli importi dovuti in relazione alla differenza fra le mansioni in concreto svolte e quelle di assegnazione, perché avrebbe fondato tale statuizione sull’erroneo presupposto per cui il rapporto in questione non avesse carattere subordinato (ignorando, peraltro, le numerose istanze istruttorie formulate in tal senso dell’odierna appellante nell’ambito del primo giudizio).

Nella seconda parte dell’atto di appello, poi, la dott..ssa M. ripropone in modo integrale i motivi di doglianza già articolati nel corso del primo giudizio, nonché la memoria predisposta in vista della discussione nel merito, "da valersi come motivi di appello".

2. I motivi dinanzi sinteticamente richiamati, che possono essere esaminati in modo congiunto, non possono trovare accoglimento.

2.1. In primo luogo, il Collegio rileva l’inammissibilità dei motivi di appello contenuti dalla pagina 45 alla pagina 128 del ricorso, in quanto consistenti nella letterale riproposizione degli scritti difensivi del primo grado di giudizio, senza che dalla loro articolazione siano evincibili presunti vizi inficianti la pronuncia oggetto di gravame.

Sotto tale aspetto, deve trovare applicazione il consolidato orientamento secondo cui nel processo amministrativo di appello è inammissibile la mera riproposizione delle censure svolte in primo grado, laddove esse non implichino specifica e concreta impugnativa dei diversi capi della sentenza appellata, in quanto è onere dell’appellante investire puntualmente il decisum di prime cure e, in particolare, precisare i motivi per cui quest’ultimo sarebbe erroneo e da riformare (sul punto -ex plurimis -: Cons. Stato, Sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094; Sez. VI, 24 aprile 2009, n. 2560; Sez. V, 23 dicembre 2008, n. 6535; Sez. IV, 18 dicembre 2008, n. 6369; Sez. VI, 9 settembre 2008, n. 4300).

2.1.1. Conseguentemente, l’esame dell’appello in epigrafe si concentrerà sui profili di doglianza articolati nell’unico, complesso motivo di gravame richiamato in premessa (da pag. 24 a pag. 45 dell’atto di appello), tenendo in considerazione il contenuto degli scritti difensivi di primo grado laddove espressamente richiamati e pertinenti con la concreta articolazione dei motivi di gravame.

2.2. In secondo luogo, il Collegio rileva l’inammissibilità – per genericità – del motivo di appello con cui si è lamentata l’erroneità della pronuncia in epigrafe, per avere essa ritenuto "decisivè ai fini del decidere talune circostanze delle quali – al contrario – non sarebbe stata in alcun modo dimostrata la decisività e la stessa pertinenza con il thema decidendum.

Al riguardo, osserva il Collegio che è la stessa censura dell’appellante a risultare generica (e quindi, inammissibile), in quanto non ha fornito un elemento concreto per individuare le parti della pronuncia che avrebbero apoditticamente dichiarato la decisività di alcuni argomenti e circostanze ai fini della reiezione del ricorso.

2.3. Nel merito l’appello è infondato

2.3.1. Il Collegio ritiene in primo luogo di poter prescindere dalla questione della tempestività o meno dell’impugnativa della delibera del C.d.A. emessa in data 20 gennaio 1998 e dell’atto emesso dalla Soprintendenza in data 29 gennaio 1998 (le quali avevano disposto la proroga dell’efficacia del contratto con l’appellante fino alla trasformazione in Fondazione di diritto privato), in quanto le pretese della dott.ssa M. non possono comunque trovare accoglimento.

2.3.2. Ad avviso del Collegio, la pur complessa res controversa può essere risolta affrontando – in via sequenziale – le seguenti questioni:

a) se fosse possibile almeno in astratto (sulla base dello stato di fatto e di diritto nella specie rilevante) la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’interessata;

b) se, in caso di risposta affermativa al precedente quesito, possa affermarsi che la tipologia di attività in concreto svolte dalla dott.ssa M. presentasse i tipici indici rivelatori di un rapporto di carattere subordinato, ovvero se tali attività fossero comunque quelle tipiche del contratto di opera professionale stipulato con l’Ente;

c) se, in caso di risposta affermativa al precedente quesito, possa affermarsi che l’appellante abbia svolto mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento e se – conseguentemente – abbia titolo alla corresponsione delle differenze economiche;

d) se, infine, possa trovare accoglimento la domanda risarcitoria proposta in primo grado e nella presente sede puntualmente riproposta.

2.3.2.1. La risposta al primo quesito (relativa all’astratta possibilità di costituire nella specie un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato) non può che essere negativa.

Come condivisibilmente affermato dalla difesa dell’Ente Autonomo Fiera di Verona (in seguito: Fondazione Arena di Verona), nel periodo di tempo rilevante ai fini della presente decisione l’Ente non avrebbe in alcun modo potuto procedere alla costituzione di rapporti di lavoro subordinato, ostandovi puntuali previsioni di legge.

In particolare:

– il comma 4 dell’art. 9 della l. 23 dicembre 1992, n. 498, aveva disposto che "per il 1993 (gli Enti lirici e le Istituzioni concertistiche) non possono assumere personale a tempo indeterminato neanche in sostituzione di personale cessato dal servizio";

– il comma 8 dell’art. 3 della l. 24 dicembre 1993, n. 537, aveva prorogato per l’intero periodo 19931996 il divieto di cui alla l. 498 del 1992, cit.;

– il comma 7 dell’articolo 22 della l. 23 dicembre 1994, n. 724, aveva nuovamente prorogato il termine in questione sino al 31 dicembre 1997;

– anche dopo il 31 dicembre 1997 non era possibile procedere alla copertura del posto di capo ufficio stampa dell’Ente attraverso la stipula di un contratto di lavoro di tipo subordinato e a tempo indeterminato, dal momento che il decreto ministeriale di approvazione della dotazione organica dell’Ente ( d.m. 22 aprile 1998) aveva stabilito che tale posizione dovesse essere coperta esclusivamente attraverso la stipula di un contratto di collaborazione professionale autonoma.

Ebbene, una volta accertato che la normativa ratione temporis rilevante non avrebbe comunque consentito la stipula del rapporto di lavoro di cui la dott.ssa M. chiede il riconoscimento, ne emerge con evidenza l’infondatezza delle pretese da lei avanzate atteso che – quand’anche un siffatto rapporto fosse stato in concreto instaurato – esso sarebbe risultato radicalmente nullo.

Ed infatti, la vicenda di causa può essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui il rapporto il quale – pure – abbia le caratteristiche di un impiego pubblico di tipo subordinato, ma che sia stato posto in essere dall’amministrazione al di fuori della regola concorsuale e delle altre disposizioni in tema di instaurazione, è sanzionato con la nullità e, conseguentemente, deve ritenersi costituito e prestato di mero fatto (sul punto: Ad. Plen., 29 febbraio 1992, n. 1)

Inoltre, la giurisprudenza ha chiarito che la nullità ex lege della costituzione di un rapporto di pubblico impiego non ammette l’applicabilità dell’art. 2 della l. 18 aprile 1962 n. 230 – peraltro, espressamente invocato dall’appellante – (il quale consente la trasformabilità automatica di un rapporto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato), ma implica che tale rapporto nasca e viva come mero rapporto di fatto, con conseguente applicabilità (laddove ne sussistano le condizioni) del solo art. 2126 c.c., salvo che non vi si ravvisino elementi da cui desumere l’illiceità bilaterale delle parti e l’illiceità della causa (Cons. Stato, Sez. V, 3 marzo 2001, n. 1218).

Concludendo sul punto, non può in alcun modo trovare accoglimento la domanda di accertamento dell’avvenuta costituzione di un rapporto di lavoro di carattere subordinato a tempo parziale, atteso che (anche ad ammettere che la prestazione in concreto svolta dalla dott.ssa M. ne presentasse i caratteri) una siffatta tipologia di rapporto non si sarebbe in alcun caso potuta instaurare, a pena di radicale nullità.

2.3.2.2. Neppure può trovare accoglimento l’argomento secondo cui la previsione di cui all’art. 2 della l. 230 del 1962 (in tema di consolidamento dei rapporti di lavoro a tempo determinato inapplicabile nei confronti delle amministrazioni pubbliche) troverebbe tuttavia applicazione nei confronti della Fondazione Arena di Verona (istituita a decorrere dal 23 maggio 1998), per essere il rapporto in questione proseguito per circa novanta giorni dopo l’avvenuta trasformazione dell’Ente.

Al riguardo si osserva che la richiamata previsione normativa potrebbe essere invocata solo nel caso in cui il rapporto intercorso fra l’odierna appellante e l’Ente presentasse i caratteri tipici di un contratto di lavoro subordinato.

Tuttavia, per le ragioni che si esporranno infra, sub 2.3.2.3, 2.3.2.4. e 2.3.2.5., il rapporto all’origine dei fatti di causa era certamente privo dei caratteri tipici di un lavoro di tipo subordinato.

2.3.2.3. Passando, quindi, al secondo dei richiamati quesiti, si ritiene che il complesso degli atti di causa deponga nel senso di negare che i caratteri concreti della prestazione lavorativa svolta dall’interessata (l’atto costitutivo faceva espresso riferimento a un rapporto di collaborazione professionale) fossero riconducibili a un rapporti di tipo subordinato.

Al riguardo, è innegabile che l’appellante abbia versato in atti copiosissima documentazione idonea a suffragare l’esistenza di alcuni almeno fra gli indici tipicamente rivelatori di un rapporto di lavoro di carattere subordinato.

Ci si riferisce, in particolare: a) al carattere esclusivo della prestazione nei confronti dell’Ente; b) all’obbligo di assunzione della residenza a Verona; c) al riconoscimento di indennità in caso di trasferta e di malattia (secondo modalità assimilabili a quelle proprie dei dipendenti dell’Ente).

D’altra parte è parimenti innegabile che sussistessero ulteriori e diversi elementi idonei a deporre in senso opposto (i.e.: nel senso che la sostanza della prestazione lavorativa in concreto svolta dalla dott.ssa M. fosse effettivamente compatibile con il nomen juris utilizzato di rapporto di collaborazione professionale, in quanto tale privo del vincolo di subordinazione).

2.3.2.4. Inoltre, ad avviso del Collegio, alcuni degli elementi addotti dall’appellante per confermare l’esistenza di un rapporto di carattere subordinato (ad es., la tempistica della prestazione lavorativa e l’inserimento della stabile organizzazione dell’Ente) non risultano idonei a confermare la tesi proposta, essendo – al contrario – ben compatibili anche con una prestazione di carattere autonomo.

In definitiva, si ritiene che la questione possa essere risolta facendo ricorso al consolidato orientamento secondo cui (pur dandosi atto della molteplicità degli indici idonei a rivelare l’esistenza di un rapporto di carattere subordinato) l’elemento principale che contraddistingue tale tipologia di lavoro rispetto al rapporto di lavoro autonomo è rappresentato dal vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e organizzativo del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale (sul punto, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. lav., 30 gennaio 2007, 1893)

Ad avviso del Collegio (pur dovendosi dare atto della complessità della situazione in fatto prospettata dall’appellante), sussistono numerosi e prevalenti indici i quali depongono nel senso dell’effettiva sussistenza di un rilevante grado di autonomia nell’organizzazione della propria attività lavorativa da parte della dott.ssa M., nonché nel senso dell’insussistenza di un effettivo vincolo di soggezione di tipo gerarchico nei confronti degli organi o dei dirigenti dell’Ente.

Al riguardo, risultano rilevanti le seguenti circostanze:

– il fatto che l’appellante non fosse astretta a un vincolo di presenza propriamente detto, laddove la cospicua presenza in ufficio comunque assicurata risultava piuttosto dettata dalla necessità di coniugare la propria autonoma prestazione lavorativa con le continuative esigenze dell’Ente, anche al fine di conseguire gli obiettivi dedotti nella pattuizione contrattuale;

– il fatto che l’appellante non fosse vincolata a puntuali obblighi in termini di orario. Al contrario, la circostanza per cui l’appellante avesse – nei fatti – plasmato la propria presenza giornaliera secondo moduli temporanei sostanzialmente omogenei risulta certamente compatibile con il carattere autonomo della prestazione lavorativa (sul punto, la giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che l’obbligo di svolgere le proprie mansioni secondo un orario prestabilito, e quindi l’osservanza di un orario di servizio e secondo le direttive impartite dai responsabili dei vari servizi è del tutto conciliabile con una prestazione professionale da effettuare non isolatamente, ma in maniera opportunamente coordinata con le prestazioni di altri professionisti, non essendo la presenza di alcuni tratti caratteristici del lavoro subordinato, propri della cosiddetta parasubordinazione, sufficiente a trasformare il rapporto contrattuale autonomo in rapporto di pubblico impiego: (Cons. Stato, Sez. V, 4 agosto 2010, n. 5185; Sez. V, 24 settembre 2010, n. 7099);

– il fatto che l’appellante non dovesse giustificare le proprie assenze per malattia o ad altro titolo e che non disponesse di un periodo di ferie in senso proprio (essendo tenuta a modulare la presenza in servizio in base all’obiettivo di conseguirei risultati prefissati);

– il fatto che, in definitiva, l’inserimento dell’appellante nella stabile organizzazione dell’Ente non deponeva in modo univoco nel senso del carattere subordinato del rapporto, ma – al contrario – risultava pienamente compatibile con un rapporto di lavoro di tipo autonomo. Al riguardo, la giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che la circostanza per cui la tipologia delle prestazioni richieste ad un consulente esterno si identifichi nei fini istituzionali dell’ente nei confronti del quale viene resa la prestazione, non altera la natura del rapporto trasformandolo in rapporto di pubblico impiego, poiché per il perseguimento di detti fini l’amministrazione può anche valersi di professionalità in posizione di autonomia nell’ambito di una collaborazione prolungata nel tempo. La stessa continuità dell’opus nel tempo, d’altronde, non è elemento che caratterizza il solo rapporto di lavoro subordinato, ma è peculiare anche di prestazioni d’opera di tipo professionale che, per loro natura e per il fine cui sono dirette, comportano un’esecuzione frazionata e reiterata nel tempo (Cons. Stato, VI, 29 febbraio 2008, n. 753).

2.3.2.5. Si osserva, infine, che un rilievo apprezzabile nella corretta qualificazione del tipo di rapporto intercorso con l’Ente è fornito dal nomenjuris utilizzato di contratto di collaborazione professionale autonomo.

Al riguardo è noto che il nomenjuris utilizzato dalle parti non costituisca un elemento univoco e indefettibile ai fini qualificatori, dal momento che in sede di concreta qualificazione è ben possibile giungere a conclusioni diverse rispetto a quelle estrinsecate dalle parti, laddove tali diverse conseguenze siano desumibili dalla volontà delle parti stesse, alla luce del loro comportamento anche successivo alla conclusione del contratto (Cass. Civ., Sez. lavoro, 7 dicembre 2007, n. 25666).

Cionondimeno, è certo che, nei casi dubbi, il riferimento al nomen utilizzato dalle parti costituisca un rilevante strumento sussidiario per ricostruire la concreta volontà delle parti (Cass. Civ. Sez. lavoro, 23 luglio 2004, n. 13884; id., 18 aprile 2001, n. 5665).

Ebbene, riconducendo i princìpi appena richiamati alle peculiarità del caso di specie, risulta dirimente ai fini del decidere la circostanza per cui le parti avessero espressamente qualificato il rapporto in parola come di lavoro autonomo professionale (nella forma della collaborazione coordinata e continuativa)

2.3.2.6. Un ulteriore argomento a sfavore delle tesi dell’appellante è rappresentato dal decreto ministeriale di approvazione della dotazione organica dell’Ente ( d.m. 22 aprile 1998), il quale aveva stabilito che la posizione funzionale di Capo dell’Ufficio stampa dovesse essere coperta esclusivamente attraverso la stipula di un contratto di collaborazione professionale autonoma e non con un contratto di lavoro di tipo subordinato.

2.4. Per le ragioni dinanzi richiamate, risulta irrilevante ai fini del decidere l’ulteriore questione relativa all’esistenza o meno nella dotazione organica dell’Ente della posizione di Capo dell’Ufficio Stampa.

E infatti, anche ad ammettere l’esistenza nella dotazione organica della richiamata posizione, tale circostanza non potrebbe comunque condurre alle radicali conseguenze invocate dall’appellante (e, in particolare, alla definitiva acquisizione di tale posizione), in quanto il rapporto sottostante sarebbe comunque affetto da radicale nullità, in quanto: i) la posizione lavorativa non poteva essere attribuita se non nella forma della collaborazione professionale autonoma; ii) l’eventuale costituzione di un rapporto di tipo subordinato al di fuori delle condizioni di legge sarebbe comunque stata colpita dalla più grave forma di invalidità.

Inoltre, anche dando per acquisita l’esistenza della richiamata posizione nella dotazione organica dell’Ente, tale circostanza non potrebbe comunque sortire conseguenze favorevoli per l’appellante ai fini della corresponsione del trattamento economico per mansioni superiori, ostandovi le circostanze che si esporranno nel punto seguente.

2.5. Venendo, quindi, alla questione della retribuibilità delle mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento che sarebbero state svolte dalla dott.ssa M., il Collegio ritiene che le pretese dell’appellante (volte al riconoscimento del differenziale economico a tale titolo maturato) non possano comunque trovare accoglimento.

Al riguardo risulta dirimente osservare che (in base a quanto esposto infra, sub 2.3.2.3., 2.3.2.4. e 2.3.2.5.) una questione di retribuibilità di mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento non potrebbe eppure in astratto porsi, dal momento che il rapporto intercorso con l’Ente Autonomo prima e con la Fondazione poi non aveva carattere subordinato.

Ai ben limitati fini che qui rilevano si osserva, comunque, che la pretesa dell’appellante non avrebbe potuto comunque trovare accoglimento dal momento che la prestazione lavorativa all’origine dei fatti di causa si era svolta nel corso di un periodo (fra il dicembre del 1995 e l’agosto del 1998) in cui lo svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento non era in alcun modo valutabile ai fini giuridici ovvero economici.

Al riguardo, va richiamato il consolidato orientamento secondo cui il diritto al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore, nel caso di svolgimento di mansioni superiori da parte dei pubblici dipendenti, non può essere ritenuto sussistente per il periodo anteriore alla data di entrata in vigore del d.lg. 29 ottobre 1998 n. 387 (22 novembre 1998), come risulta anche dagli artt. 56 e 57 del d.lgs. n. 29 del 1993 dall’art. 15 del d.lg. n. 387 del 1998.

Nel settore del pubblico impiego, salva diversa disposizione di legge (nella specie non sussistente), le mansioni svolte da un pubblico dipendente sono del tutto irrilevanti (sul punto: Cons. Stato, VI, 24 gennaio 2011, n.467; Sez. VI, 20 ottobre 2010, n. 7584; Sez. VI, 5 febbraio 2010, n. 532; Sez. VI 19 ottobre 2009, n. 6365).

2.6. Non può trovare accoglimento ad alcun titolo la domanda risarcitoria articolata dalla dott.ssa M. in quanto, per tutte le ragioni sin qui esposte, non può in alcun modo ritenersi che l’Amministrazione abbia realizzato, nell’ambito della vicenda di causa, la fattispecie oggettiva di un illecito foriero di danno.

2.7. Per le medesime ragioni (insussistenza di un rapporto di lavoro di carattere subordinato), non può trovare accoglimento l’ulteriore domanda finalizzata alla corresponsione dell’indennità sostitutiva di cui al quinto comma dell’art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300.

2.8. Tutti i motivi di doglianza non espressamente scrutinati – sostanzialmente ripetitivi di quelli esaminati – sono stati ritenuti dal Collegio irrilevanti e, comunque, inidonei a supportare una decisione di segno diverso dalla reiezione.

3. Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere respinto.

Le spese del secondo grado del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 5278 del 2005, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 4.000 (quattromila), oltre gli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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