Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 31-03-2011) 12-05-2011, n. 18820 Giudizio abbreviato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Previa esclusione dell’aggravante loro contestata ( L. n. 47 del 1975, art. 4), la sentenza qui impugnata ha ridotto la pena e gli effetti penali della condanna inflitti agli odierni ricorrenti che erano stati accusati di avere, in concorso tra loro, favorito e sfruttato la prostituzione di alcune donne facendole prelevare dalla loro casa, accompagnare sul luogo di esercizio della prostituzione, controllare (intervenendo in caso di pericolo o per prevenire interventi della polizia) organizzando l’attività anche nei dettagli ed incamerandone i proventi.

Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso ( T. e B. personalmente, S. tramite il difensore) deducendo:

1) violazione di legge con riferimento agli artt. 192 e 266 c.p.p..

Si fa, infatti, notare che le captazioni telefoniche non vedono mai il T. come interlocutore diretto e che, quindi, mancano (come vorrebbe l’art. 192 c.p.p.) indizi precisi univoci e concordanti.

Aggiungasi, poi, che le quattro conversazioni evocate dall’accusa sono avvenute tra soggetti diversi ma le stesse attività di o.p.c. dalla P.G. non hanno portato alcun elemento idoneo a corroborare il quadro indiziario. Non è stata, infine, neanche valutata adeguatamente la deposizione della E. che ha affermato di non essere mai stata sfruttata dal T.;

2) contraddittorietà e/o mancanza di motivazione in quanto la posizione del T. – trattata solo nelle pagg. 8 e 9 della sentenza – concerne solo il commento ai contenuti delle intercettazioni ma in modo difforme dal reale. Ed infatti, la tel.

2314 del 21.5.07 ha un contenuto diverso da quello che le è stato attribuito visto che, contrariamente a quanto si asserisce, la casa nella quale è stato arrestato l’imputato era della Onu e non di E.. Inoltre, anche le altre conversazioni sono "suscettibili di diverse interpretazioni".

S.:

1) violazione di legge ( art. 606 c.p.p., lett. c)). a) con riguardo alla citazione delle persone offese;

c) con riguardo alla declaratoria di tardività della richiesta di giudizio abbreviato.

La prima questione era stata sollevata già in primo grado e la relativa reiezione era stata impugnata anche con l’atto di appello.

In particolare, si fa notare che l’art. 154 c.p.p. richiama espressamente l’art. 157 che, però, nella specie non risulta essere mai stato applicato nonostante i vari luoghi ove tentare le notificazioni non fossero ignoti. E’, pertanto, ininfluente la obiezione dei giudici secondo cui la questione non avrebbe potuto essere sollevata dalla difesa dell’imputato (perchè, trattandosi di citazione della p.o., vi era carenza di interesse) in quanto i vizi nelle citazioni delle persone offese rientrano tra quelli che, ex art. 178, lett. c) avrebbero dovuto essere rilevati di ufficio. Si fa, altresì, notare che le questioni relative alla nullità della p.o. sono rilevanti non solo ai fini della formazione della prova e ad altri aspetti di carattere civilistico ma anche a fini sostanziali (es. l’interesse dell’imputato ad ottenere l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6);

Con riferimento alla seconda questione, si asserisce che la reiezione della medesima questione dinanzi ala Corte d’appello è censurabile perchè ignora l’abnormità del fatto che il G.u.p. aveva posposto la decisione sulla utilizzabilità delle intercettazioni all’esito della c.p., discussione relativa alla richiesta di rinvio a giudizio. Si fa notare, in proposito che la decisione discutibile del G.u.p. si fonda sulla singolare equiparazione della eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni alla formulazione delle conclusioni in udienza preliminare sì che la successiva richiesta di rito abbreviato avrebbe dovuto essere considerata tardiva. Sostiene, per contro, il difensore che evidentemente la difesa non può decidere per un rito alternativo se, previamente, non conosce il compendio probatorio sul quale verrà giudicato;

2) vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) in relazione alla valutazione delle prove. La responsabilità dello S. si è basata su poche conversazioni telefoniche e sulle dichiarazioni della P.. Con riferimento a quest’ultima, però, la Corte non spiega perchè ritiene credibile la deposizione della donna visto che ciò che ella riferisce riguarda fatti del tutto slegati e precedenti di tre mesi quelli in contestazione. Quanto alle intercettazioni, non si rinviene nella sentenza impugnata risposta alle doglianze difensive secondo cui, dall’unica conversazione tra l’imputato e la p.o., scaturirebbe la prova della identità dello S. quale sfruttatore.

Il ricorrente denuncia, altresì, illogicità di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto di reato avendo la Corte escluso in modo discutibile la tesi che i rapporti tra le parti si potessero giustificare più semplicemente nel quadro di semplice frequentazione e/o amicizia/sentimentale. In sostanza, la Corte non tiene in considerazione le letture alternative proposte dalla difesa. Vi sarebbe, anzi, una evidente contraddizione dovuta al fatto che la Corte ha ritenuto di desumere dalla intercettazioni telefoniche la prova della conferma delle accuse originarie mosse all’imputato ma, contemporaneamente, sulla base di una "diversa" lettura, ha tratto la prova di una sola delle condotte (vale a dire quella in danno della M.).

3) violazione di legge ( art. 606 c.p.p., lett. b) in rel. alla L. n. 75 del 1958, art. 3, n. 8). La Corte descrive una serie di condotte poste in essere dagli imputati senza che in alcuna di esse emergano specificamente elementi a carico dello S.. In particolare, non si precisa per quale ragione il fatto di avere contattato una prostituta in ora notturna chiedendole quanto avesse guadagnato, sia espressivo di condotta di favoreggiamento, tanto più se si considera che l’abitazione nella quale la ragazza viveva era destinata esclusivamente a lei e non anche all’imputato che, dall’attività di meretricio, non avrebbe, quindi tratto alcun vantaggio;

4) vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. In primo luogo, erano state richiesta le attenuante generiche sul cui diniego non si rinviene valida motivazione e, secondariamente, perchè vi è contraddizione nel fatto di avere rideterminato in melius la pena per l’imputato B. sul presupposto che le circostanze dei fatti "non appaiono caratterizzate da brutalità e violenza" e non avere utilizzato lo stesso criterio per lo S., sebbene valessero le medesime considerazioni;

ha:

1) vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) per non essere stata raggiunta la prova della colpevolezza in quanto la deposizione della ragazza straniera accusatrice e le stesse intercettazioni sulle quali si fondano le accuse "si prestano ad una lettura diversa" e "non provano il coinvolgimento" del B.. A tal fine si richiamano i principi giurisprudenziali in tema di obbligo motivazionale.

I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

Tutti i ricorsi sono infondati. ricorso di T..

Le doglianze sollevate da tale imputato sono ai limiti dell’ammissibilità in quanto, come è possibile evincere dal breve riepilogo dei motivi, di cui sopra, si è in presenza di censure che puntano ad una rivisitazione dei dati fattuali.

2.1. In particolare, sebbene il primo motivo denunci una asserita violazione di legge, nei contenuti, si constata che l’obiettivo è quello di rivalutare i contenuti delle intercettazioni per verificare quali e quante di esse si riferiscano al T. e quale ne sia la portata accusatoria. Analogamente si invoca una diversa considerazione della deposizione di un teste ( E.).

E’, però, fin troppo evidente che questo taglio prospettico è inappropriato in sede di legittimità. Tanto più se si considera che, per contro, la decisione impugnata offre, in relazione alla posizione di T., ampie spiegazioni, del convincimento dei giudici, ancorandole ai dati processuali. Si ricorda, nello specifico, che la identificazione del T. nella persona che, nelle telefonate, viene denominata C. – è ammessa dalla stessa difesa nei motivi di appello (f. s) e che il coinvolgimento dell’uomo con l’attività delle donne è testimoniata, tra le altre, dalle conversazioni n. 2314 (delle ore 17,47 e da quella successiva delle ore 17,56) nelle quali P. commenta l’avvenuto arresto di C. e si fa riferimento alla compagna di C. con l’epiteto "la bionda" di cui si dice che era "protetta da C. che "ne aveva imposto la presenza alle altre senza che dovessero pagare perchè ha fatto lui la legge" (f. 9).

Ed anche a proposito della deposizione della E., replicando alla medesima critica qui mossa, la Corte spiega che l’appellativo "la bionda" "non sembra corrispondere ad un preciso soprannome, ma rappresentare piuttosto un generico riferimento ai connotati fisici della ragazza". A tale stregua, corretta e logica risulta la conclusione della Corte circa la scarsa decisività della testimonianza dell’ E. (che, appunto, aveva escluso di essere denominata "la bionda").

L’attenta disamina dei giudici di merito prosegue anche scandagliando le diverse dichiarazioni a proposito della identificabilità di T. nell’appellativo di " Z." o " Z." e si conclude con la giusta osservazione che le critiche delle difese (dei T. e dei suoi coimputati) circa la "insussistenza della prova di condotte integranti il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione" (f. 10) sono destituite di fondamento perchè basate su citazioni giurisprudenziali risalenti nel tempo e superate da quella linea interpretativa più recente secondo la quale (Sez. 1^, 14.10.07, n. 39928; Sez. 3^, 22.1.08, n. 8387) il reato di favoreggiamento della prostituzione si perfeziona con qualunque forma di interposizione agevolativa e qualunque attività che, anche in assenza di un contatto diretto tra l’agente ed il cliente sia idonea a procurare più facili condizioni per l’esercizio del meretricio.

Non solo, quindi, non corrisponde al vero l’affermazione del ricorrente secondo cui la propria posizione sarebbe stata trattata solo alle pagine 8 e 9, ma si constata, al contrario, che essa è stata sviluppata approfonditamente e fornendo una lettura dei dati processuali ampia e conforme alle linee interpretative della giurisprudenza di questa S.C..

Il vizio denunciato da T. con il primo motivo è, quindi, solo formalmente rappresentato da una pretesa violazione di legge ma, nella sostanza, esso intende lamentare i contenuti non condivisi della motivazione tanto da auspicare una diversa lettura dei dati processuali per trame conseguenze diverse da quelle raggiunte conformemente dai giudici di primo e secondo grado.

2.3. Tutto ciò, ripetesi, non è denunciabile nemmeno – come fatto nel secondo motivo – sotto l’egida del vizio di motivazione perchè, una volta che il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della propria analisi probatoria l’esame dei dati processuali (intercettazioni, dichiarazioni di testi ed imputati, eventuali consulenze e/o perizie ecc.) si esaurisce nella fase di merito essendo preclusa in sede di legittimità (Sez. 2^ 11.1.07, Messina, Rv. 235716) "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova". ricorso di S..

2.4. (quanto al primo motivo):

a) La questione relativa alla irregolare notifica delle persone offese – sollevata anche dinanzi alla Corte d’appello – è stata già affrontata e risolta dai giudici di merito in modo più che congruo, logico e corretto anche sul piano giurisprudenziale (f. 6) facendosi notare che non vanno confuse "/e finalità proprie della citazione della persona offesa (pertinenti esclusivamente alla tutela dei diritti ad essa spettanti) con gli scopi della citazione dei testimoni, finalizzata – essa si – a garantire la raccolta delle prove nella pienezza del contraddittorio". Si rammentano, poi, quelle decisioni di questa S.C. (Sez. 6^, 11.3.05, n. 12196 e Sez. 6^, 10.4.03, n. 35555) con le quali è stato escluso che l’imputato possa eccepire la nullità derivante dalla omessa citazione della p.o.. In particolare, va ricordato che quest’ultima, pur costituendo una nullità ai sensi dell’art. 178 c.p.p., essa, a norma dell’art. 182 c.p.p., può essere eccepita solo da chi vi abbia interesse "e tale non è l’imputato che conserva sempre al facoltà di citare la persona offesa come teste". In tal modo, si replica implicitamente anche alle considerazioni del ricorrente secondo le quali la semplice "rilevanza" della citazione della persona offesa ai fini degli interessi dell’imputato giustificherebbe la possibilità di formulare la relativa eccezione di nullità. b) anche la questione della tardività della richiesta di abbreviato, è destituita di fondamento perchè, come giustamente ricordano i giudici di merito, "avanzata dopo che la discussione era già stata avviata e dopo che il P.M. ed alcuni difensori avevano già formulato richieste conclusive" risultando, effettivamente "irrilevante" la circostanza che il G.u.p. "avesse affermato di non potersi esprimere preliminarmente sull’utilizzabilità di atti del fascicoletto del P.M., dato che questa presa di posizione non interferiva formalmente con l’ammissibilità o meno del rito abbreviato.

Ed invero, riflettendo sul tema del momento entro cui va richiesto del rito abbreviato, sembra il caso di fare alcune precisazioni considerato anche che questa S.C. si è pronunciata solo due volte sul tema interpretando l’espressione normativa prima indicata in un senso lato che, come si dirà, offre il destro ad equivoci.

Si ritiene, pertanto, di dover fare talune puntualizzazioni che il presente ricorso offre lo spunto per sviluppare brevemente.

Occorre prendere le mosse dal richiamo al dato normativo secondo cui ( art. 438 c.p.p., comma 2), la richiesta può essere proposta "….fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422".

Secondo Sez. 1^, 14.11.02 (rv. 223251 – conf. rv. 227751) il termine finale per la rituale proposizione della domanda sarebbe rappresentato dal "…momento in cui la discussione si esaurisce con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti".

Nel soppesare la portata di questa affermazione non va, però, dimenticato che, dal fatto stesso che la norma abbia indicato il termine nel momento precedente quello in cui "siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" è lecito arguire che il legislatore ha inteso individuare "momenti" diversi anche all’interno dell’udienza preliminare. La qual cosa appare coerente con la considerazione che, a ben vedere, anche tale passaggio procedimentale, pur nella sua apparente informalità (se raffrontata all’udienza dibattimentale) conosce, al proprio interno, delle "fasi" che, in parte, evocano la struttura dell’udienza dibattimentale.

E’, così, possibile individuare ( art 420 c.p.p.) un momento iniziale di "costituzione delle parti", un momento di "discussione" (nel corso del quale il P.M. illustra le ragioni a sostegno della propria richiesta di rinvio a giudizio ed i difensori quelle opposte) ed un momento di "conclusioni" (in cui il pubblico ministero, prima, ed i difensori, poi, rassegnano) le rispettive richieste finali.

L’intento del legislatore di scandire anche nell’udienza preliminare delle "fasi" lo si coglie chiaramente dalla stessa lettera della norma (es. – art. 421, comma 1 – "…conclusi gii accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione …. – ovvero comma 4 – ….se il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti, dichiara chiusa la discussione").

Il senso di tale scansione va ricercato nell’intuibile sforzo legislativo di dare ordine ad uh rito (l’udienza preliminare) che non può, e non deve, risolversi in una generica ed informale discussione produttrice di confusione e di probabili iniquità.

Tale senso è ancora più evidente e rilevante quando è proprio al richiamo di uno di tali momenti che viene correlata una decadenza (come è il caso, quanto alla costituzione di parte civile, del combinato disposto dell’art. 420 c.p.p. e art. 79 c.p.p., commi 1 e 2) ovvero alla estinzione del termine ultimo entro cui esercitare una facoltà (come è appunto il caso che occupa).

Individuare senza equivoci il termine descritto con l’espressione "….fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" è, pertanto, fondamentale per acquisire parametri di riferimento chiari che delimitino i confini delle varie fasi.

Come detto, nelle decisioni pregresse, questa Corte si è espressa in maniera ampia individuando tale momento in quello in cui si esaurisce la discussione "con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti" sì da ingenerare, però, il dubbio che esso vada a coincidere, in buona sostanza, con il momento in cui (avendo, appunto, tutte le parti concluso), il giudice dichiara chiusa la discussione e si ritira in camera di consiglio per decidere.

In realtà, se tale fosse stato l’intento del legislatore, non si sarebbe stato alcun motivo di usare questa espressione composita ed apparentemente ambigua ma si sarebbe, piuttosto, detto – come fatto chiaramente nell’art. 421, comma 4 – che la facoltà di richiedere il rito abbreviato avrebbe potuto, e dovuto, essere esercitata "prima che il giudice dichiari chiusa la discussione".

Se ciò non è avvenuto, dunque, è perchè, evidentemente, si è inteso proprio (come aumentabile dalla lettera dell’art. 421, comma 2) individuare un termine diverso ed un po’ "anticipato" rispetto a quello della "fine della discussione".

Pur intuendo, dunque, che lo spirito delle pregresse decisioni di questa S.C., prima citate, sia stato quello di agevolare al massimo la celebrazione dei riti alternativi in un ottica deflativa del dibattimento, è pur vero che, allo stato della normativa, non si può neppure incorrere nel rischio di derogare ad una disposizione decisamente chiara che, a ben vedere, risponde anche a precise esigenze di trasparenza sulle modalità di svolgimento del rito ed anche di par condicio (quando, ad esempio, si tratti di procedimento con più imputati).

In tale ultima situazione, infatti, considerata la possibilità, tutt’altro che remota, che vi siano imputati in posizioni differenti (si che le scelte difensive dell’uno possono riverberare sull’altro) deve essere necessario che tutti siano posti nelle medesime condizioni e che quindi, per tutti, il termine-sbarramento, entro cui rappresentare le proprie strategie processuali, sia il medesimo.

Ciò può avvenire solo se – come si ritiene – la lettura dell’art. 421, comma 2 sia quella che lo stesso tenore della norma suggerisce (tanto più se raffrontato ai diverso linguaggio normativo nell’art. 421, comma 4) e cioè, che la linea di confine è data dal momento in cui il G.u.p. concede la parola al P.M. per "formulare le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422".

Diversamente opinando, si potrebbero ingenerare ulteriori motivi di confusione e di disparità di trattamento a seconda che l’espressione "formulazione delle conclusioni di tutte le parti" venga intesa paratamente (vale a dire per ciascun imputato) ovvero, per tutti gli imputati.

Le conclusioni sarebbero evidentemente diverse in dipendenza della soluzione adottata e, comunque, in entrambe le ipotesi, le conseguenze sarebbero a dir poco discutibili.

Potrebbe, infatti, darsi il caso (soprattutto per procedimenti con più imputati) in cui, ad un’udienza preliminare completa, dove tutti abbiano concluso, in limine della camera di consiglio, uno o più imputati improvvisamente cambino opinione e riaprano interamente il discorso formulando una richiesta di rito abbreviato, cui potrebbe accodarsi anche qualche altro imputato.

Ben si comprendono gli effetti di siffatta ipotesi per il dispendio di inutili energie e per le ricadute sulla durata dei procedimenti (senza tralasciare di osservare che ciò potrebbe avvenire, sempre e solo, ad nutum imputati).

Ma potrebbe anche verificarsi l’ipotesi in cui, invece, si voglia ritenere ancora aperta la possibilità di chiedere il rito abbreviato solo a "quell’imputato perii quale il difensore non abbia ancora concluso", in tal caso, però, si scivolerebbe su un piano di palese disparità di trattamento tra imputati essendo evidente che, poichè le discussioni difensive non possono essere simultanee, la scansione dei tempi di discussione (talvolta, necessariamente ripartita in giorni diversi) non avrebbe più – come è sempre stato – un obiettivo meramente pratico di pianificare gli interventi ma potrebbe diventare esso stesso strumento per nuove strategie difensive alla luce delle conclusioni che vengano, via via, rassegnate da altri.

Il tutto, all’evidenza, finirebbe per delineare uno scenario sempre più confuso in cui il termine per accedere al rito abbreviato (scelta processuale di non poca rilevanza) non sarebbe più lo stesso per tutti i coimputati ma risulterebbe legato a profili arbitrari, casuali ed (eventualmente) ad astuzie difensive.

Ciò risulterebbe in sè inammissibile anche riflettendo sul fatto che il rito abbreviato è già di per sè una importante facoltà di esclusiva spettanza dell’imputato il quale ha la possibilità di esercitare tale scelta già dall’inizio delle indagini e che perviene all’udienza preliminare, non certo come ad un evento imprevisto ed incerto, ma previo avviso ex art. 415 bis e, comunque, previo avviso di fissazione dell’udienza preliminare con precisi termini di legge a difesa.

Ferma restando, perciò, la facoltà de iure condendo del legislatore di operare una scelta di politica legislativa diversa – e di lasciare aperte le porte per il rito abbreviato fino al momento in cui il giudice, dichiarata chiusa la discussione, stia per ritirarsi in camera di consiglio per decidere – è evidente, che allo stato della normativa, ogni sforzo di prorogare detto termine oltre quello rappresentato dal conferimento della parola al P.M. per concludere, risulta incompatibile con la lettera della stessa norma oltre che con la logica del sistema.

Trasferendo le considerazioni che precedono al caso in esame è vieppiù corretta la decisione impugnata se si riflette sul fatto che, nella specie, come ricordato dalla sentenza (sulla base dei verbali di udienza), quando lo S. ha avanzato la propria richiesta di rito abbreviato, non solo il P.M. aveva già "formulato la richiesta di rinvio a giudizio" ma anche "aveva preso la parola e concluso la difesa di B. (e quella di un coimputato poi giudicato separatamente)" (f. 6) (quanto al secondo motivo). Le censure che il ricorrente muove alla motivazione della sentenza sono inficiate dall’equivoco di ritenere che la verifica di questa S.C. sulla correttezza della motivazione si identifichi con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite ovvero con la possibilità di formulare un giudizio diverso da quello espresso dai giudici di merito sull’intrinseca adeguatezza della valutazione dei risultati probatori o sull’attendibilità delle fonti di prova.

Ciò è ben lungi dall’essere vero, come si è già accennato trattando del ricorso di T.. In particolare, per quanto attiene alla posizione di S., è sufficiente a conferire piena validità alla motivazione impugnata il fatto che essa abbia spiegato ampiamente, in modo argomentato ed ineccepibile sul piano della logica, le ragioni del proprio convincimento sulla responsabilità dell’imputato. Dopo avere, infatti, rammentato le indicazioni della giurisprudenza di legittimità a proposito della individuazione delle condotte agevolatrici, i giudici riportano brani di numerose conversazioni dalle quali emergono i contati che gli imputati avevano tra di loro e con le rispettive "donne" concludendo in modo non più censurabile che a ciascun imputato "debbono essere sicuramente imputate condotte illecite in danno della ragazza alla quale ciascuno di loro era legato, La M., quanto allo S., la E., quanto al T…." (f. 14). Non va poi dimenticato che la motivazione in esame va letta, in uno con quella di primo grado cui essa si riporta.

Infondato ed abbastanza generico è, quindi, lo sforzo difensivo di porre in discussione la decisione impugnata sul rilievo che le dichiarazioni della P. non sarebbero idonee a giustificare le accuse posto che, a ben vedere, esse costituiscono solo una minima parte delle ragioni su cui si fonda l’affermazione di responsabilità e la Corte lo ricorda chiaramente quando afferma che "dalla perizia di trascrizione delle intercettazioni telefoniche emergono numerosi dialoghi comprovanti la realizzazione delle condotte tipiche del reato" (f. 12) ed "è in definitiva certamente da escludersi che la serie di condotte accertate a carico degli imputati, comprensive anche di un evidente interesse economico e di cui ha già dato ampio conto la sentenza di primo grado, possano essere inquadrate nell’ambito di semplici rapporti di frequentazione o di amicizia o di relazioni sentimentali". In particolare, esemplificando, i giudici escludono che possano essere diversamente qualificate – che come reato – "il consentire che fossero le ragazze ad occuparsi del sostentamento anche degli uomini del pagamento dei fitti degli alloggi… le attività di accompagnamento delle ragazze sulla strada ed il loro successivo prelevamento, l’intromissione nella gestione degli spazi da loro occupati, coinvolgimento in discussioni 0 contrasti tra le ragazze, l’attivazione in merito al reperimento delle abitazioni" (f. 11).

(quanto al terzo motivo). Le considerazioni appena svolte ed i passaggi della sentenza richiamati sono sufficienti ad invalidare anche la presente ulteriore doglianza che, sotto la forma della "violazione di legge", di fatto, rinnova le proprie critiche alla motivazione senza che ciò possa dar luogo alla previsione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), considerato che l’eventuale vizio della motivazione non da luogo a violazione di legge tranne che nei casi di mancanza assoluta di motivazione o di motivazione meramente apparente (su, 28.1.04, Bevilacqua, Rv. 226710). Di certo, poi, non da luogo ad alcun vizio il fatto che la medesima situazione possa prestarsi a diverse "letture" e, di certo, quella offerta, nel caso in esame, dai giudici di merito è chiara, logica ed ancorata a dati fattuali.

(quanto al quarto motivo). La doglianza svolta nel presente motivo è ai limiti della inammissibilità per la sua manifesta infondatezza.

E’, infatti, evidente che il rispetto del principio di uguaglianza passa proprio attraverso la possibilità, e doverosità, di giudicare diversamente posizioni differenti. Il fatto di avere i giudici apprezzato in un certo modo la posizione di B. non implicava, infatti, nè il dovere di fare altrettanto per S. e nemmeno quello di dover fornire una giustificazione a riguardo, tanto più se si considera che tale doglianza non è stata oggetto dei motivi di appello. ricorso di B..

Così come già enunciato trattando i ricorsi degli imputati che precedono, la denuncia di vizi della motivazione non si può risolvere nella semplice sottolineatura del fatto che i dati processuali siano suscettibili di letture alternative.

Il ricorso di B., oltre ad incorrere in tale errore, è anche affetto da una sostanziale genericità che non viene superata dal copioso richiamo a decisioni di questa S.C. sul significato da dare all’art. 192 c.p.p..

Al di là di mere affermazioni di principi generali, infatti, il ricorso del presente imputato si caratterizza per la sostanziale negazione della esistenza di una adeguata motivazione. L’assunto è però chiaramente smentito anche solo dalla semplice lettura delle pagine 11/14 ove con numerose citazioni di brani di intercettazioni telefoniche viene ampiamente e congruamente illustrata la posizione proprio di B. che figura in numerose conversazioni come la persona con cui, ad esempio, P. si lamenta del fatto che egli avesse mandato "l’altra ( A.) a "fare soldi"" e, "di fronte alla replica di B., il quale le diceva di non essere interessato a quanto lei guadagnava, P. protestava dicendo che, però, lui non le consentiva di restare a casa" Ed ancora, più avanti, è sempre B. l’uomo che P. chiama per informarlo "di quanto avevano guadagnato D. ed O. (niente), perchè uno l’aveva presa, usata e scaricata senza pagarla" (f. 13).

Come si vede, anche questi brevi passaggi motivazionali, citati a titolo esemplificativo, sono emblematici del fatto che la motivazione impugnata non presenta alcun vizio e che la chiave di lettura data dalla Corte alle conversazioni, nel senso dell’accusa, non appare affatto destituita di fondamento.

Nel respingere tutti i ricorsi, segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.;

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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