T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, Sent., 16-05-2011, n. 4215 Bellezze naturali e tutela paesaggistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Che con il ricorso in epigrafe E. S.p.A chiede l’annullamento del decreto direttoriale prot. 678 del 14.1.08, emesso dal Direttore Generale della Direzione Generale per la Qualità della Vita del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, concernente il provvedimento finale di adozione, ex art.14 ter della legge 241/1990, delle determinazioni conclusive della Conferenza dei Servizi decisoria relativa al sito di bonifica di interesse nazionale "Basso Bacino Fiume Chienti", nella parte in cui si riferisce ai Punti Vendita AGIP, oggi E. S.p.A. n. 6812; n. 6753; n. 7308, siti rispettivamente nei Comuni di Montecosaro Scalo (MC); Civitanova Marche.(Mç); Porto S. Elpidio (AP) ed inclusi nel sito di bonifica di interesse nazionale del "’Basso Bacino Fiume Chienti"; delle determinazioni adottate dalle suddette amministrazioni in sede di Conferenza dei Servizi del 10.1.08 il cui verbale è stato recepito dal d.d. impugnato, nella parte in cui riguarda i citati punti vendita AGIP, oggi E. (nn. 17, 18, 21 del detto verbale) in quanto recanti illegittimi ordini e prescrizioni, ivi compresi quelli regionali di cui al verbale della Conferenza dei Servizi suindicato;

2. –

Che viene altresì chiesto, ove necessario, l’annullamento delle determinazioni adottate dalle suddette amministrazioni, salvo altre, nella Conferenza dei Servizi del 2.10.07 e nelle precedenti Conferenze dei Servizi con riferimento alla bonifica dei siti E., nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso a quelli impugnati;

3. –

Che la società ricorrente E. S.p.A espone di essere proprietaria dei punti vendita di carburante ex AGIP n. 6812, S.S. 485, in Comune di Montecosaro (MC); n. 7308, S.S. 16, nel Comune di Porto S. Elpidio (AP); n. 6753, S.S. 16, in Civitanova Marche, tutti inclusi nell’area "Basso Bacino del Fiume Chienti", dichiarato sito di interesse nazionale su proposta dalla Regione Marche con d.m. 18.9.2001 n. 468, cui ha fatto seguito la perimetrazione provvisoria prevista dal d.m. 26.2.2003. con la conseguente necessità di effettuare le attività di caratterizzazione per l’accertamento delle effettive condizioni di inquinamento, ed, ove occorrenti, quelle di messa in sicurezza d’emergenza, di bonifica, di ripristino ambientale;

4. –

Che la stessa società riferisce che, su richiesta delle competenti Amministrazioni, ha effettuato numerose analisi ed eseguito numerose indagini di caratterizzazione dei terreni e delle acque di falda, nelle aree di sua proprietà, per l’accertamento delle effettive condizioni di inquinamento, esponendo le relative conclusioni nelle "Relazioni tecniche descrittive delle indagini di caratterizzazione ambientale", elaborate per l’E. da ENSR Italia s.r.l., per tutti e tre i punti vendita e trasmesse al Ministero dell’ Ambiente, alla Regione, all’ARPAM, all’Azienda sanitaria competente nel 2007;

5. –

Che, secondo quanto allegato dalla ricorrente, Circa il punto vendita n. 6812 sarebbero stati riscontrati composti alifatici clorurati che non sarebbero connessi alla tipologia delle attività commerciali svolte presso il punto vendita, non essendo relative a composti idrocarburici ed essendo pertanto riconducibili a sorgenti di contaminazione localizzate al di fuori di questo, mentre circa i composti idrocarburici, le indagini eseguite avrebbero attestato la conformità delle percentuali delle dette sostanze ai limiti di legge; circa il punto vendita n. 7308, la relazione avrebbe evidenziato la conformità dei terreni ai parametri di legge e la presenza nelle acque di falda superficiali di composti inorganici quali ferro, mercurio, manganese ed alifatici clorurati non riconducibili a composti idrocarburici, ma attribuibili a fonti localizzate al di fuori dell’area di cui al punto vendita, ed inoltre la presenza di diossine e furani mentre circa i composti idrocarburici, questi sarebbero nei limiti di legge; per il P. V. n. 6753 la relazione dell’ENSR avrebbe evidenziato una passività ambientale per due composti idrocarburici: m p Xilene ed MtBE, nonché composti inorganici quali Ferro, Nichel, Manganese e clorurati, restando le ultime due tipologie di composti totalmente estranee all’attività di vendita di idrocarburi;

6. –

Che, quanto ai composti idrocarburici, la medesima società riferisce di aver attivato un intervento di messa in sicurezza tramite il sistema di emungimento e trattamento (pump and treat) delle acque di falda, peraltro limitato al sistema pump and stock, stante la mancata risposta del Comune di Civitanova Marche alla richiesta, con prescrizioni, dello scarico in fogna), in corrispondenza dei piezometri PM3 e PM4 istallati in sito, finalizzato a contenere la diffusione dei contaminanti idrocarburici individuati, e che pertanto emunge i derivati idrocarburici nelle acque di falda ove presenti, ed in tal caso, li stocca in una cisterna, con asportazione e smaltimento periodico da parte di impresa autorizzata;

7. –

Che successivamente alle indagini, alle relazioni ed alla attivazione dei predetti interventi, è stata convocata la Conferenza dei Servizi del 2.10.2007 e di seguito quella decisoria del 10.1.08, impugnata, convocata ex art. 14 ter l. 241/90, per acquisire la volontà delle amministrazioni partecipanti con la conseguente adozione della determinazione di conclusione del procedimento (art.14 ter comma 6 bis).

8. –

Che, in particolare, circa il 17° punto all’ o.d.g. sono stati esaminati i risultati della caratterizzazione delle acque di falda del punto vendita AGIP n. 6812 trasmessi per E. da ENSR Italia e le amministrazioni partecipanti alla Conferenza, preso atto dei risultati delle analisi nelle acque di falda condotte nel mese di gennaio 2007 e di ottobre 2007 che hanno evidenziato una contaminazione della falda da Dicloroetilene e tetracloroetilene, hanno deciso di richiedere la validazione di ARPAM e di richiedere l’immediata attivazione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza della falda e la trasmissione del relativo elaborato, nonché di sollecitare l’esecuzione della caratterizzazione dei suoli ai sensi della vigente normativa in materia di bonifiche e del progetto di bonifica. Inoltre, prosegue la ricorrente, sono stati previsti poteri sostitutivi ed è stato richiesto all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona di attivare nei propri confronti ogni iniziativa ritenuta opportuna a tutelare la pretesa erariale dell’Amministrazione in relazione sia agli obblighi di risarcimento dell’eventuale danno ambientale derivato e derivante dalla fuoriuscita di inquinanti dai terreni e dalle falde sottostanti la proprietà, sia alla rivalsa dei costi sostenuti per la messa in sicurezza e la bonifica della medesima area, attivando altresì le procedure per l’iscrizione dell’ipoteca legale sulla proprietà a garanzia dei crediti che saranno azionati, ricordando che l’eventuale inerzia costituirebbe reato ai sensi dell’art. 257 del d.lgs. 152/06;

9. –

Che, circa il 18° punto all’ o.d.g. relativo al punto divendita AGIP n. 6753 in Civitanova Marche, è stata rilevata l’assenza della contaminazione nei suoli e nelle acque di falda degli inquinanti non riferibili ad attività E., nonché dello m,p.xilene e dell’MBTE, derivanti da idrocarbùri, ma è stata richiesta la validazione da parte di Arpam delle misure di messa in sicurezza adottate dalla ricorrente, cui è stato chiesto di presentare il Progetto di bonifica. Secondo le prescrizioni imposte, l’impianto di trattamento delle acque emunte dovrà assicurare allo scarico i limiti di tabella 2 allegato 5, parte quarta, titolo V del d.lgs. n. 152/2006 ovvero avviare le acque di falda ad un idoneo impianto di trattamento esterno all’area,debitamente autorizzato, in grado di rispettare identici limiti allo scarico. La restituzione dell’area agli usi legittimi è stata condizionata alla circostanza che le attività non pregiudichino l’eventuale successiva messa in sicurezza e bonifica della falda, che sia presentato il Progetto di bonifica della falda ed inoltre un’indagine sul sito specificamente svolta sulla base di analisi di campo e riferita agli standard normativi e contrattuali vigenti e che sia verificato, di concerto con gli Enti di controllo, che non vi sia il superamento dei limiti normativi vigenti di esposizione professionale;

10. –

Che, circa il 21° punto all’o.d.g. relativo al punto vendita AGIP n. 7308, è stata confermata la richiesta di attivazione di idonee misure di messa in sicurezza della falda finalizzate a contenere la diffusione della contaminazione e l’immediata rimozione dal terreno contaminato da Diossine e Furani. I partecipanti alla Conferenza di Servizi decisoria hanno altresì deliberato di prendere atto dei risultati di caratterizzazione trasmessi dalla ricorrente, subordinatamente al recepimento delle prescrizioni riportate a verbale e di quelle contenute nella nota della Regione Marche.

I medesimi partecipanti hanno deliberato infine di richiedere la presentazione del Progetto di bonifica delle acque di falda entro 30 giorni dal ricevimento del verbale, secondo le medesime descritte prescrizioni, segnalando che, in difetto, si sarebbero esercitati i poteri sostitutivi e che le inerzie della ricorrente avrebbero integrato gli estremi del reato di cui all’ art. 257 del d.lgs. 152/06, e richiedendo al contempo tutte le azioni legali possibili all’Avvocatura di Stato, con attivazione altresì dell’ipoteca legale;

11. –

Che, argomenta la ricorrente, la documentazione allegata al verbale della Conferenza dei Servizi nulla ha contestato circa le relazioni tecniche ENSR Italia, poi validati dall’ARPAM. Nella Conferenza dei Servizi e nella documentazione allegata non è stata difatti messa in evidenza la presenza di inquinanti diversi da quelli accertati nelle attività di indagine svolte da ENSR Italia per E. nelle aree dei punti vendita in esame. In particolare, prosegue la ricorrente, emerge che nelle aree di cui ai punti 17 e 21 dell’ o.d.g., non esistono inquinanti da idrocarburi, ma presenza di dicloroetilene e tetracloroetilene e di diossine ed i furani, sostanze totalmente estranee, afferam la ricorrente, agli idrocarburi, mentre, circa il punto 18 dell’o.d..g. della Conferenza dei Servizi, gli inquinanti da idrocarburi quali m, p Xi lene ed MtBE, con il sistema pump and treat ed il suo monitoraggio (allo stato limitato al pump and stock) l’eventuale superamento di soglie limite è stato rimediato e le acque reflue potrebbero essere legittimamente scaricate in fogna, previo trattamento, così come descritto della relazione dell’ENSR;

12. –

Che ciononostante, osserva ancora la ricorrente, il decreto direttoriale emesso a seguito della Conferenza dei Servizi del 10.1.2008 ha approvato e considerato definitive tutte le prescrizioni ivi stabilite, ed ha quindi imposto ad E. l’esecuzione di onerose attività di messa in sicurezza, di caratterizzazione dei suoli, nonché di presentazione di progetti di bonifica della falda (v. quanto prescritto per il punto vendita n. 6812 al punto 17 dell’ o.d.g., per quello n. 6753 al punto 18 dell’ o.d.g., e per quello n. 7308 al punto 21 dell’o.d.g. soprarichiamato), con la prescrizione ulteriore, per i punti vendita di cui ai punti 17 e 21 dell’ o.d.g., dell’ obbligo di risarcimento del danno ambientale, della rivalsa in caso dì interventi di ufficio, della iscrizione di ipoteca a garanzia del pagamento delle somme dovute all’amministrazione a causa degli interventi che fossero eseguiti d’ufficio;

13. –

Che, pertanto, la società interessata con il ricorso in epigrafe impugna gli atti che hanno posto a suo carico gli oneri, gli interventi e i progetti di bonifica suindicati, deducendone l’illegittimità con otto motivi di ricorso. In particolare:

1) con il primo e principale motivo di ricorso vengono dedotti la violazione e falsa applicazione del d.m. n. 468/2001 emanato in esecuzione della l. 426/98; la violazione del d.m. n. 471/1999 contenente criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, bonifica, e ripristino dei siti inquinati ex art. 17 d.lgs. n. 22/97; la violazione dei principi normativi dei d.m. suddetti e del d.lgs. n. 152/2006 relativi agli obblighi dei responsabili dell’inquinamento.

La ricorrente premette che con la legge n. 426/1998 sono stati previsti nuovi interventi in campo ambientale con il concorso pubblico nella realizzazione degli interventi di interesse nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, secondo un programma nazionale di bonifica relativo a zone particolarmente inquinate già individuate dalla legge. In seguito è stato emesso il d.m. n. 471/1999 contenente il regolamento per la bonifica dei siti inquinati ex art. 17 del d.lgs. n. 22/1997. Detto regolamento, all’art. 15, ha anche disciplinato gli interventi di interesse nazionale, prevedendo che questi sono individuabili in base alle caratteristiche del sito inquinato, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell’impatto sull’ ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, secondo i criteri direttivi ivi stabiliti ai sensi dell’ art.18 del d.lgs. 22/1997.

In tale quadro, il programma nazionale di bonifica in esame, previsto dalla 1. n. 426/1998 ha trovato il suo regolamento nel d.m. n. 468/2001, che ha introdotto nuovi siti di interesse nazionale, tra i quali, su proposta della Regione Marche, quello del Basso Bacino del fiume Chienti, quale area ad alto rischio ambientale in quanto caratterizzato dall’inquinamento di agenti chimici connessi alla lavorazione delle calzature che hanno inquinato suolo, sottosuolo e falde acquifere, mentre dallo stesso d.m. non si ricava nessuna evidenza di aree, inserite nel perimetro del sito da bonificare, destinate ad impianti di erogazione di idrocarburi.

Infatti, argomenta la ricorrente, secondo la scheda allegata al d.m. 468/2001, riferita alle Marche -Basso Bacino fiume Chienti "l’area della bassa Valle del fiume Chienti è interessata dalla presenza di numerose aziende del settore calzaturiero, che utilizzano composti organoalogenati per il lavaggio di fondi di calzature in poliuretano. I rifiuti di tali processi, caratterizzati come pericolosi, sono stati versati sul suolo, nel sottosuolo e nelle acque di falda attraverso pozzi. Gli inquinanti, costituiti prevalentemente da tricloroetano, tricloroetilene, tetracloraetilene, hanno contaminato una vasta area a sinistra del fiume Chienti. Il piano di caratterizzazione già eseguito con analisi sulle acque di falda ha evidenziato una vasta area con concentrazioni di tricloroetano e pericloroetilene maggiori di 30 mcg".

L’inquinamento, a suo tempo accertato nel sottosuolo e nell’acqua di falda, prodotto dalle numerose ditte calzaturiere, trova quindi la propria disciplina nel predetto programma nazionale, mentre le fonti di inquinamento non derivanti da tale attività, conclude la ricorrente, non sarebbero ricomprese nel programma nazionale di bonifica, e le procedure per il loro accertamento e gli interventi a rimedio e ripristino dello status quo ante non atterrebbero a competenze ministeriali.

Al riguardo, la ricorrente richiama il d.lgs. 22/1997, che all’art. 17 ha previsto in via generale la bonifica dei siti sulla base dei limiti di accettabilità degli inquinanti e dei criteri generali per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale, stabiliti dal Ministro dell’ Ambiente. E’ il Comune peraltro che diffida il responsabile a provvedere agli interventi di eliminazione delle cause inquinanti ed è questo, con comunicazione anche alla Regione, che approva il progetto degli interventi e li autorizza. All’art. 18 sono state previste le competenze dello Stato, che invece riguardano criteri, indicazioni, norme tecniche, limiti di accettabilità, indirizzo e coordinamento. In ogni caso, aggiunge la ricorrente, anche ove non si ritenesse di aderire alla predetta impostazione, anche in applicazione delle norme sui siti di interesse nazionale (art. 15 d.m. 471/1999) solo il responsabile dell’inquinamento sarebbe tenuto a presentare un piano di caratterizzazione ed il progetto preliminare e quello definitivo per la bonifica del sito. In tal senso disporrebbe anche l’art. 252 del d.lgs. 152/2006, che ha introdotto nel nostro ordinamento il principio "chi inquina paga". Pertanto, la responsabilità ambientale deve essere posta a carico dei soggetti responsabili, ossia, nel presente caso, delle aziende calzaturiere esterne alle aree dei punti vendita E..

Risulterebbe, quindi, la illegittimità del d.d. impugnato in quanto, pur ben conoscendo la causa della contaminazione del sottosuolo e della falda, e pur descrivendo la tipologia degli agenti inquinanti (non riconducibili ad idrocarburi) ha posto le gravi misure sopraindicate a carico di un soggetto del tutto non responsabile;

In conclusione, vuoi perché irresponsabile, vuoi perché la concentrazione degli inquinanti non raggiungeva al gennaio 2008, circa le sostanze da idrocarburi, alcuna soglia di rischio, la ricorrente non doveva essere gravata degli oneri procedurali e degli interventi previsti dalla conferenza dei servizi di cui al d.d. impugnato;

2) – 3) – 4) Con il secondo, terzo e quarto motivo sono specificamente censurate le diverse, ma analoghe, prescrizioni emanate con il d.d. impugnato, in seguito alla citata Conferenza dei Servizi, relativamente a ciascun punto vendita E. ed inoltre vengono contestate le prescrizioni concernenti le modalità di smaltimento dei reflui liquidi derivanti dalla prescritte attività di emungimento in falda. I tre motivi di ricorso in esame, pertanto, possono essere trattati congiuntamente.

In particolare, viene dedotta l’illegittimità delle predette prescrizioni per violazione dell’art: 2 lett. f) d. m. n. 471/1999 e dei principi in materia, il travisamento dei fatti, l’erronea istruttoria, l’illogicità manifesta, il difetto e l’errore nella motivazione, la violazione della 1. n. 426/1998 e del d.lgs. n. 152/2006 e dei principi da esso deducibili. In particolare, poiché nell’area del P.V. n. 6812 era stata evidenziata una contaminazione della falda da dicloretilene e con incrementi monte valle (PM5, PM3, PM2) della concentrazione da tetracloroetilene, per tale contaminazione, non connessa ad idrocarburi, non poteva essere richiesta come ha fatto il d.d. impugnato: 1) l’attivazione delle misure di emergenza in sicurezza della falda entro 30 gg.; 2) la consegna della caratterizzazione dei suoli entro 30 gg; 3) la presentazione del progetto di bonifica entro 30 gg..

Ciò vale, si sostiene, anche per il p. v.7308 per il quale, del pari, sono stati rinvenuti inquinanti del tutto estranei all’ attività di impianto di distribuzione di carburante.

Le stesse considerazioni riguardano, si aggiunge, il punto vendita n. 6753 in ordine a tutte le sostanze rinvenute a suo tempo. Sarebbe difatti illegittimo porre a carico di un soggetto irresponsabile gli oneri, i costi, le limitazioni, le responsabilità connesse alla messa in sicurezza di emergenza della falda, il piano di caratterizzazione dei suoli, il progetto di bonifica, considerato anche il rilascio del tutto assente già dal 2008, di m, p, xilene ed MBTE.

Quanto al prescritto trattamento delle acque rivenienti dalla bonifica, secondo quanto ancora dedotto nel secondo, terzo e quarto motivo, del tutto contrastante con il quadro normativo di cui al d.lgs. n. 152/2006 sarebbe la prescrizione di trattare le acque emunte come rifiuti alla luce dell’ art. 243 d.lgs. 152/2006 e dell’allegato V alla parte m, Titolo V. In particolare, il Ministero ha equiparato le acque emunte dalla falda ad opera della ricorrente ai rifiuti liquidi con il loro assoggettamento alla normativa in tema di rifiuti (trattamento in impianti autorizzati ed osservanza dei limiti di concentrazione delle sostanze inquinanti di cui al d.m. 471/1999, anziché alla disciplina stabilita per gli scarichi idrici. La ricorrente, viceversa, richiama la giurisprudenza amministrativa (in particolare, Consiglio di Stato sez. VI, sentenza n. 5256 /2009), in tema di trattamento delle acque emunte dalle falde sotterranee nell’ambito della bonifica dei siti contaminati, che ha preso in esame le due interpretazioni contrapposte: quella del Ministero dell’ Ambiente, che richiede il rispetto dei limiti di accettabilità più restrittivi previsti dalla normativa sulle bonifiche ( d.m. n. 471/1999) e quella dell’appellante, secondo la quale la questione era stata risolta nell’ art. 243 del d.lgs. n. 152/2006, per il quale, le acque emunte nel corso di operazioni di bonifica debbono essere scaricate nel rispetto dei limiti stabiliti per lo scarico delle acque reflue industriali in acque superficiali. La sentenza richiamata, in particolare, ha esteso (oltre che agli idrocarburi totali ed al piombo tetraetile già positivamente valutati dalla decisione di primo grado) anche all’MTBE il principio della applicazione dell’ art. 243 d.lgs. citato, con l’applicabilità anche per lo scarico in fogna delle regole stabilite per i reflui industriali, evidenziando, specificamente che i limiti stabiliti dall’ Istituto Superiore di Sanità erano del tutto inapplicabili, non essendo previsto alcun potere di integrazione di parametri, ove questi non siano previsti dalla legge o da un regolamento.

La normativa di cui all’ art. 243, 1 comma, come interpretata da parte ricorrente circa la possibilità delle acque emunte da falde sotterranee, nell’ ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, di essere scaricate in acque superficiali, nei limiti di emissione delle acque reflue industriali, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi, è stata confermata, espone la stessa ricorrente, dal d.l. n. 208/2008 convertito con modificazioni dalla legge n. 13/2009. Tale normativa, come evidenziato dalla sua collocazione sistematica nel titolo V dedicato alla bonifica dei siti contaminati, secondo la ricorrente sarebbe applicabile al caso di specie, disponendo specificamente per le acque emunte da falda sotterranea il trattamento dei reflui industriali. Inoltre quanto agli scarichi in rete fognaria, aggiunge la ricorrente, l’art. 107, 1 comma prevede gli scarichi di acque reflue industriali, così come da essa richiesto, così come previsto, da ultimo, dal d.l. n. 172/2008, convertito con modificazioni con la legge n. 210/2008. Non si tratterebbe, dunque, di rifiuti liquidi da trattare e da gestire secondo la normativa dei rifiuti, ma con evidenza, stante l’inserimento dell’art. 243 soprarichiamato nel Titolo V riguardante le bonifiche dei siti contaminati, della applicazione della disciplina dello scarico dei reflui industriali nelle acque superficiali e pertanto dello scarico di tali reflui anche nelle fognature, secondo quanto dispone l’art.107 citato;

5) Con il quinto motivo viene evidenziato che l’iter seguito dal Ministero dell’ Ambiente, impositivo di ordini e prescrizioni quali la presentazione del piano di caratterizzazione delle acque, il progetto di bonifica della falda, gli interventi conseguenti, non rispondono alle previsioni dell’art. 15 del d.m. n. 471/1999, che invece prevede che il responsabile o il proprietario dell’ area inquinata presentino i progetti al Ministero dell’ Ambiente e, solo nel caso di inerzia, il potere sostituivo ministeriale;

6) Con il sesto motivo, in ordine alla applicazione dell’ art. 252 del d.lgs n. 152/2006, si osserva che la norma rinvia all’ art. 242 per le competenze in materia di siti di bonifica di interesse nazionale, stabilendo la procedura da adottare che non attiene ad ordini e prescrizioni. Questa difatti non farebbe richiamo all’ art. 244 (ordinanza di diffida a provvedere);

7) Con il settimo motivo viene dedotto che l’art. 14 ter, comma 6 bis, della l. n. 241/1990 prevede che l’amministrazione adotti la determinazione motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della Conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede. Ebbene, il d.d. impugnato è privo di motivazione in ordine ai motivi del recepimento delle risultanze della Conferenza dei Servizi, riprodotte senza l’autonomo supporto motivazionale prescritto per il provvedimento conclusivo alla stregua della giurisprudenza amministrativa secondo cui la Conferenza dei Servizi non è un organo deliberante, ma un modulo procedimentale, le cui valutazioni e decisioni non possono che essere ponderate, con piena responsabilità di decisione, da parte di chi è chiamato ad adottare il provvedimento finale;

8) Infine, con l’ ottavo motivo si censura l’illegittima partecipazione della Regione Marche alla conferenza di servizi, non avendo le resistenti depositato la delega motivata all’architetto che ha presenziato in rappresentanza della Regione Marche;

14. –

Che l’intimato Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio si è costituito in giudizio, ma che la sua Difesa non ha apportato in giudizio elementi ritenuti utili dal Collegio ai fini della controdeduzione delle affermazioni rese da parte ricorrente, e quindi ai fini della decisione del ricorso nel contraddittorio fra le diverse tesi delle Parti in giudizio;

15. –

Che, tuttavia, il Collegio ritiene il giudizio maturo per la decisione, senza ricorrere ad attività istruttorie ovvero di verificazione o di nomina di consulenze tecniche d’ufficio, alla stregua di un criterio di economia dei mezzi e dei tempi processuali, e senza che sia neppure necessario ricorrere ai principi in materia di mancato assolvimento dell’onere della prova incombente alle Parti in giudizio, in quanto le molteplici ed articolate censure della società ricorrente, che sono state sopra sinteticamente riportate, ad un attento esame risultano in gran parte sovrapponibili l’una con l’altra, in quanto miranti a sindacare non la evidente irragionevolezza o la manifesta ingiustizia del contenuto delle singole prescrizioni, minuziosamente individuate e descritte, adottate in relazione alle specifiche condizioni del sito ambientale in esame (afferendo ogni ulteriore considerazione tecnica all’insindacabile ambito di apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione), bensì a contestare la violazione della normativa di riferimento, con particolare riguardo alla dedotta violazione del principio "chi inquina paga", alla ritenuta errata individuazione della disciplina applicabile quanto agli scarichi idrici ed alla affermata violazione delle norme procedurali poste a salvaguardia della ricorrente.

La decisione di tutte le predette censure si risolve, quindi, nella necessità di accertare l’esatto contenuto della disciplina normativa applicabile alle fattispecie minuziosamente individuate da parte ricorrente e non controverse in giudizio, unitamente alle conseguenze derivanti dalla sua applicazione alle stesse fattispecie, secondo un processo logico delle fonti di diritto dell’ordinamento e logicocognitivo rimesso all’autonoma ed imparziale responsabilità del giudice;

16. –

Che il Collegio deve quindi, in primo luogo, esaminare il nodo centrale della controversia, riferito alla violazione del principio "chi inquina paga", che occupa per intero il primo e principale motivo di impugnazione, ma anche, in larga parte, le successive censure.

La stessa censura infatti, osserva il Collegio, è posta alla base del motivo d’impugnazione n. 5, che contesta la violazione della normativa che pone le misure in esame in primo luogo a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento, ed in particolare dell’art. 15 del d.m. n. 471/1999, che prevede che il responsabile o il proprietario dell’ area inquinata presentino i progetti al Ministero dell’ Ambiente e, solo nel caso di inerzia, il potere sostituivo ministeriale.

Ed anche i motivi di ricorso nn. 2, 3 e 4 presuppongono la medesima censura, per la parte in cui contestano l’applicazione delle singole e specifiche misure disposte dalla conferenza di servizi e dal conseguente decreto direttoriale per ogni punto vendita di carburanti, non perché tecnicamente incongrue o poiché irragionevoli in relazione al riscontrato inquinamento del sito, bensì poiché sono poste a carico della ricorrente in quanto proprietaria dei relativi siti, indipendentemente dall’accertamento della sua responsabilità per l’inquinamento, ovvero in assenza di un significativo tasso di inquinanti da idrocarburi, quindi afferenti alle attività di distribuzione di carburanti svolte dalla ricorrente, ed invece di più alte concentrazioni di inquinanti con ogni probabilità riferibili all’attività manifatturiera di produzione di scarpe, il cui inquinamento dei suoli e della falda motivò l’individuazione del sito d’interesse nazionale in esame a prescindere dalla presenza di distributori di carburanti;

17. –

Che la controversia concerne il principio "chi inquina paga", introdotto dall’art. 174, comma 2, del Trattato UE e dalla direttiva 21 aprile 2004, 2004/35/CE, che pongono un principio generale del diritto comunitario legato alla politica della Comunità in materia ambientale, che mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è infatti fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga", individuando nel responsabile dell’inquinamento il soggetto responsabile per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie, e che, sul punto, il Collegio è ben consapevole delle diverse conclusioni cui è giunta la giurisprudenza amministrativa, ed in particolare di quell’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009 n. 3885; TAR Piemonte, sez. I, 24 novembre 2010 n. 1575; TAR Toscana, sez. II, 19 maggio 2010, n. 1524), secondo il quale l’obbligo di bonifica è posto in capo al responsabile dell’inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l’onere di ricercare ed individuare, mentre il proprietario non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica;

18. –

Che, tuttavia, proprio la stretta e diretta connessione del predetto principio all’elevato livello di tutela ambientale e sanitaria perseguito dal diritto dell’Unione Europea, che risulta fondato sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente, e solo infine, quale misura di chiusura in questo contesto, sull’invocato principio secondo cui il responsabile dell’inquinamento è responsabile per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie, a giudizio del Collegio depongono per una diversa interpretazione della normativa nazionale di riferimento.

Infatti, a giudizio del Collegio deve essere apprezzata la illegittimità, non solo sul piano nazionale, bensì anche sul piano comunitario, di una disciplina nazionale che dovesse essere interpretata nel senso di precludere, fino al definitivo accertamento delle responsabilità (e quindi sine die), la possibilità dell’Autorità nazionale competente alla tutela ambientale di imporre al proprietario la tempestiva adozione delle necessarie ed urgenti misure di tutela, in quanto aventi un precipuo contenuto né sanzionatorio né risarcitorio, bensì di salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela dell’inviolabile diritto alla salute della popolazione esposta, come sancito dagli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione ma anche dal Diritto Europeo, fermi restando l’obbligo dell’Amministrazione di procedere all’individuazione del responsabile e la facoltà del proprietario di rivalersi nei suoi confronti e di tutti gli altri interessati di agire contro di lui per il risarcimento del danno, restando, quindi, impregiudicato il principio "chi inquina paga" nel più complessivo rapporto fra l’amministrazione, i soggetti imprenditoriali operanti in aree limitrofe o succedutisi nel tempo ed i soggetti eventualmente lesi dall’inquinamento.

Pertanto, a giudizio del Collegio alla stregua del vigente ordinamento nazionale e comunitario, l’interesse economicoimprenditoriale del ricorrente a non "anticipare" l’effettuazione delle misure di messa in sicurezza e bonifica del sito nelle more dell’accertamento delle responsabilità per l’inquinamento, deve essere considerato recessivo rispetto alla necessità di procedere alla tempestiva tutela, secondo la disciplina normativa in materia di bonifica dei siti di interesse nazionale, della salubrità dell’ambiente e della salute della popolazione, in quanto afferente sia a diritti "inviolabili" ai sensi degli articoli 2, 9 e 32 della Costituzione, e quindi in nessun caso legittimamente sottoponibili al pregiudizio potenzialmente derivante dalla ulteriore esposizione a sostanze inquinanti tossiche e nocive, comportanti effetti anche irreversibili per la salute e difficilmente rimuovibili dopo la loro ulteriore diffusione nell’ambiente, sia all’alto livello di tutela ambientale e sanitaria perseguito dal diritto dell’Unione Europea secondo i principi della precauzione e prevenzione.

Ciò significa, in particolare, che qualora specifiche disposizioni della normativa nazionale di riferimento dovessero essere ritenute incompatibili con le precedenti considerazioni, non residuerebbe al Giudice a quo altra via, prima ancora della necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale, che la sottoposizione della questione interpretativa della norma nazionale alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ai fini dell’accertamento della sua eventuale incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea e della sua conseguente disapplicazione, in linea con l’orientamento desumibile dalla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia (9 marzo 2010, cause riunite C 379/08 e C 380/08);

19. –

Che il Collegio ritiene che la controversia possa essere, peraltro, risolta sul piano del diritto interno, condividendo sul punto la recente evoluzione della giurisprudenza nazionale (cfr in particolare T.A.R. LAZIO, Roma, Sez. I – 14 marzo 2011, n. 2263,, le cui tesi appaiono indirettamente confermate anche dalla pronuncia delle S.U. della Corte di Cassazione n. 4472/09), secondo cui la possibilità di indirizzare le misure in esame al proprietario dell’area, indipendentemente dal definitivo accertamento delle responsabilità per l’inquinamento, pur non essendo esplicitamente prevista da alcuna disposizione, può essere dedotta dall’intero sistema normativo di riferimento, oltreché da pregnanti considerazioni in termini di ragionevolezza dell’ordinamento, anche riferite alla tutela dello stesso proprietario rispetto a possibili conseguenze ben più negative;

20. –

Che, in particolare, secondo la predetta sentenza di questo TAR, Sez. I – 14 marzo 2011, n. 2263, appare evidente che il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell’inquinamento (pur potendo, ovviamente, i due soggetti coincidere), e che su quest’ultimo gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell’ambiente (in particolare, dagli artt. 242 ss.), e tuttavia il proprietario dell’immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione. Ed infatti, in primo luogo, il proprietario è comunque tenuto ad attuare le misure di prevenzione di cui all’art. 242 (art. 245); in secondo luogo, il proprietario, ancorchè non responsabile, può sempre attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale (art. 245); infine, il proprietario è il soggetto sul quale l’ordinamento fa gravare – in mancanza di individuazione del responsabile o in caso di sua infruttuosa escussione – le conseguenze dell’inquinamento e dei successivi interventi (art. 253), ponendo tali costi a carico della proprietà, attesa la loro natura di onere reale. Resta quindi preclusa la possibilità che il costo degli interventi gravi sulla collettività per il tramite di uno dei suoi enti esponenziali, dandosi così piena in piena applicazione alla ratio sottesa al principio comunitario "chi inquina paga". Di conseguenza, l’attribuzione al proprietario di interventi sui siti contaminati non comporta alcuna affermazione, nemmeno implicita, di una sua responsabilità per l’inquinamento, restando fermo il suo diritto di rivalsa nei confronti del responsabile, che l’amministrazione ha obbligo di individuare, restando in astratto responsabile nei confronti del proprietario da essa stessa gravato in via provvisoria in caso di colpevole mancata individuazione;

21. –

Che al riguardo, conviene il Collegio che il d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Codice dell’ambiente), prevede (Titolo V, "Bonifica dei siti contaminati"): – all’art. 242, una pluralità di obblighi a carico del soggetto responsabile dell’inquinamento; – all’art. 244, relativo al potere di ordinanza, che l’amministrazione "dopo avere svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento" dei livelli di contaminazione, "diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" (co. 2); tale ordinanza "è comunque notificata anche al proprietario del sito" (co. 3), ai sensi e per gli effetti dell’art. 253. Inoltre, si prevede che (co. 4) "se il responsabile non sia individuabile o non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari… sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’art. 250"; – all’art. 245, che "le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili"; inoltre, "fatti salvi gli obblighi della potenziale contaminazione", il proprietario che rilevi il superamento o il pericolo di superamento della concentrazione soglia di contaminazione., deve "attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’art. 242"; – all’art. 250, che "qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’art. 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione"; – all’art. 253, che gli interventi costituiscono onere reale sui siti contaminati, qualora effettuati di ufficio dall’autorità competente (co. 1), e che le spese sostenute per gli interventi "sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime" (co. 2). Infine, il comma 3 prevede che "il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito del provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità".

Le disposizioni sopra richiamate, così come evidenziato dalla predetta sentenza del TAR Lazio, I Sezione, n. 2263/2011, non palesano profili di dubbia legittimità costituzionale, in quanto sono destinate a trovare attuazione, nel superiore interesse sanitario ed ambientale, solo in via d’urgenza nelle more dell’individuazione delle effettive responsabilità dell’inquinamento e salvo rivalsa, ovvero solo a seguito della accertata impossibilità di individuare il responsabile o di escuterlo fruttuosamente. Le medesime disposizioni appaiono altresì pienamente conformi al principio generale del nostro ordinamento relativo alla funzione sociale della proprietà ( art. 42 Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per espropriazione del diritto; d’altro lato le stesse previsioni, spingendosi fino all’effettuazione d’ufficio degli interventi sottraendo l’area al proprietario, e fino all’addebito al proprietario delle obbligazioni risarcitorie, rendono il proprietario titolare di un interesse legittimo al corretto operato dell’amministrazione, ma al tempo stesso consentono di ritenere, secondo ragionevolezza, che il proprietario possa essere reso destinatario dall’amministrazione competente – salvo sua rivalsa nei confronti del responsabile – degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, "limitando" in qualche modo il danno che ad esso, come si è visto, alla stregua delle vigenti disposizioni deriverebbe dalla mancata tempestiva effettuazione dei predetti interventi.

Inoltre, osserva il Collegio, nel quadro di complesse operazioni dove la adozione di misure di prevenzione (che espressamente compete al proprietario, ex art. 245) è propedeutica o comunque connessa alle opere di bonifica e ripristino ambientale, da un lato appare assai difficile distinguere tra interventi di prevenzione (per i quali lo stesso art. 245 prevede l’obbligo di intervento del proprietario) e le vere e proprie misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, e d’altro lato l’attribuzione complessiva degli interventi al proprietario può costituire la soluzione più ragionevole ed efficiente, che gli consente un più diretto controllo su spese che, come si è visto, rischiano di rimanere a suo carico, oltre ad evitare la temporanea sospensione delle sue facoltà di godimento del bene, fermo restando, in ogni caso, il suo diritto di rivalsa nei confronti del responsabile, che l’amministrazione ha l’obbligo di individuare;

D’altronde, l’impostazione del Diritto comunitario, ormai recepita anche dal diritto nazionale italiano, che riferisce le esigenze di contenimento dell’inquinamento ambientale non solo agli specifici limiti di emissione dei singoli operatori responsabili, bensì ai complessivi limiti di esposizione dei lavoratori e della popolazione all’insieme delle emissioni, osta sotto un ulteriore e diverso profilo, alla possibilità di considerare e contrastare separatamente, così come sembrerebbe suggerire la ricorrente, l’inquinamento del terreno ed in falda che complessivamente interessa la medesima area secondo la pregressa presumibile origine dei diversi inquinanti.

Infine, osserva il Collegio, non può costituire motivo di illegittimità del provvedimento la non ancora intervenuta individuazione del responsabile dell’inquinamento, dovendo l’amministrazione comunque procedervi e ben potendo il proprietario richiedere che l’amministrazione vi provveda, utilizzando gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento avverso l’inerzia della P.A. ovvero avverso le conseguenze dannose di tale inerzia, escludendosi per tali ragioni che il mancato coinvolgimento del soggetto responsabile possa pregiudicare o comunque seriamente ostacolare il diritto di rivalsa per obblighi di bonifica.

22. –

Che ne consegue l’infondatezza dei motivi (nn. 1, 5, ed in parte 2, 3, 4) che in realtà, come si è prima chiarito, risultano fondati sul presupposto della necessaria attribuzione dell’obbligo di intervenire al solo responsabile dell’inquinamento;

23. –

Che del pari infondate risultano le ulteriori censure riferite alle singole misure e prescrizioni in relazione a ciascun punto vendita (ugualmente contenute ai motivi nn. 2, 3, 4), per la loro genericità e per la mancata allegazione di profili di manifesta irragionevolezza o ingiustizia, atteso che la controversia concerne un sito di bonifica d’interesse nazionale, che secondo la documentazione acquisita in atti è stato ritenuto dalle competenti Autorità nazionali e locali di estrema criticità, in relazione alla rilevata e non contestata concentrazione di sostanze tossiche, cancerogene e persistenti, suscettibili di causare un grave inquinamento e danni non reversibili alla salute, e che le prescrizioni e misure oggetto del ricorso, anche alla luce della letteratura scientifica in materia, non appaiono né incongrue, né discriminatorie, né palesemente irragionevoli rispetto all’interesse ambientale e sanitario perseguito, afferendo la questione, per gli altri profili, ad ambiti di discrezionalità tecnica non sindacabili nella presente sede, e che, su tale premessa, neppure può essere contestata la legittimità delle ulteriori misure, naturalmente conseguenti, afferenti alla responsabilità della ricorrente per la loro attuazione;

24. –

Che, in particolare, quanto alla dedotta illegittimità della equiparazione, da parte del Ministero delle acque emunte dalla falda ad opera della ricorrente ai rifiuti liquidi, con il loro assoggettamento alla normativa in tema di rifiuti (trattamento in impianti autorizzati ed osservanza dei limiti di concentrazione delle sostanze inquinanti di cui al d.m. 471/1999, anziché alla disciplina stabilita per gli scarichi idrici, il Collegio conviene che l’incertezza normativa, non risolta neppure dalle più recenti novelle legislative, ha originato una contrastante giurisprudenza, che per una parte sembra seguire le tesi di parte ricorrente (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 5256 /2009).

A tale orientamento giurisprudenziale, favorevole alla natura delle acque emunte quali acque reflue sottoposte al pià favorevole regime degli scarichi di cui alla parte terza del Codice dell’Ambiente, si contrappongono tuttavia recenti pronunce dei giudici amministrativi, condivise dal Collegio, nelle quali le acque emunte vengono di regola ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi. Più precisamente, nella sentenza del TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, del 20 marzo 2009, n. 540, si legge che l’art. 242 del Codice (e successive modifiche e d integrazioni) introduce un peculiare regime diversificato per le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati, di per sé non idoneo tuttavia a parificarne il regime giuridico – per quanto attiene alla gestione e autorizzazione dei relativi impianti di trattamento – a quello proprio delle acque reflue industriali. Una lettura sistematica della previsione normativa in esame non può infatti non tener conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere: individuate dal legislatore quali rifiuti liquidi (cfr. codici CER 19.03.07 e 19.03.07) le acque di falda emunte nell’ambito dell’attività di disinquinamento non derivano certamente ed in via diretta dagli ordinari cicli produttivi delle aziende presenti, impedendo una loro omologazione alle acque reflue industriali come definite chiaramente dal comma 1, lettera h), art. 74 del D.Lgs. 152/2006, e limitandosi l’art. 243 a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie purchè siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali.

Pertanto, osserva il Collegio, la predetta norma di cui all’art. 243, ponendo una particolare disciplina per gli scarichi idrici anche quando afferenti all’emungimento in falda, non per questo può incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l’assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali. Ne consegue, nel necessario coordinamento fra le due fonti di diritto, che non può utilizzare il mero criterio temporale a favore della norma successiva, trattandosi di due norme "speciali" ciascuna nel proprio diverso ambito, la necessità di accertare se, in relazione alle specificità del caso concreto, per le acque in esame, pur emunte in falda, possa essere successivamente esclusa la natura di rifiuto liquido, e quindi possa trovare applicazione la diversa disciplina di cui al citato art. 243.

A tale ultimo riguardo, viene in rilievo la sentenza (che ugualmente nega di regola la qualifica di scarico alle acque emunte) del TAR Sardegna, Sez. II del 21 aprile 2009, n. 549 in cui si legge che la presenza di uno iato – materiale e temporale – tra la fase di emungimento e quella di trattamento già di per sé depone per la qualificabilità delle acque in termini di rifiuto liquido. E, difatti, l’alternativa nozione di "scarico" ontologicamente implica la sussistenza di una continuità tra la fase di generazione del refluo e quella della sua immissione nel corpo recettore, mentre l’esistenza di una fase intermedia, in cui le acque sono stoccate in attesa della loro destinazione finale, richiama direttamente i noti concetti di trattamento e smaltimento, tipici della disciplina dei rifiuti.

Traendo la conclusione delle illustrate considerazioni, stante il mancato coordinamento fra la natura speciale delle due disposizioni potenzialmente in conflitto, sembra doversi ritenere che le acque emunte in falda conservino comunque la loro natura di rifiuto speciale, salvo che specifiche ragioni consentano la loro assimilazione alle acque reflue industriali, potendo in tal caso anche le acque emunte in falda beneficiare di un regime giuridico più favorevole. Al riguardo, un elemento favorevole può essere rappresentato dalla utilizzazione delle acque, pur emunte in falda, in cicli produttivi attivi sul sito in esame, mentre un elemento preclusivo sembra essere rappresentato sia dall’equiparazione del trattamento delle acque emunte in falda a quello dei rifiuti, mediante il loro stoccaggio e solo successivo sversamento periodico (e ciò può anche "amplificare" gli effetti degli inquinanti presenti), sia dalla presenza di inquinanti e contaminati in percentuale comunque superiore a quella massima prevista per le acque reflue industriali.

Conclusivamente, sul punto, ritiene il Collegio che, non avendo la ricorrente assolto all’onere della prova circa l’assenza di fasi di stoccaggio delle acque emunte in falda, ovvero circa la presenza di loro utilizzi in cicli produttivi in esercizio nel sito, ovvero circa la sussistenza di ulteriori circostanze idonee a consentire l’assimilazione delle acque da essa emunte in falda alle acque reflue industriali nel caso specifico, la situazione in esame deve configurarsi come un’attività di gestione di rifiuti vera e propria, e quindi, in ragione della specialità ed inderogabilità della relativa disciplina, non può essere ricompresa in linea generale all’interno della (meno restrittiva) disciplina degli scarichi idrici ai sensi dell’art. 243, comma 1, del Codice dell’ambiente, discendendon la non fondatezza della censura in esame;

25. –

Che, sulla base delle medesime considerazioni, neppure può essere accolto il sesto motivo di ricorso, abbinabile ai precedenti motivi da ultimo esaminati in quanto volto a sindacare la mancanza di legittimazione dell’amministrazione ad adottare un’ordinanza di diffida a provvedere, in quanto prevista dall’art. 244 del Codice, non richiamata dall’art. 242 in materia di siti di bonifica di interesse nazionale.

Infatti, in disparte ogni considerazione circa l’immanenza del potere di autotutela dell’amministrazione ai fini dell’ottemperanza ai propri provvedimenti, la pregressa ricostruzione del sistema normativo applicabile ha già chiarito la necessità di una sua interpretazione ed applicazione unitaria alle diverse fasi ed attività riferite al medesimo sito;

26. –

Che neppure risultano decisive le ulteriori censure di carattere procedimentale o formale, riferite alla mancanza di motivazione in ordine ai motivi del recepimento delle risultanze della Conferenza dei Servizi, con la conseguente pretesa violazione dell’art. 14 ter, comma 6 bis, della l. n. 241/1990, che prevede che l’amministrazione adotti la determinazione motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della Conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede.

In particolare, del tutto incongrue appaiono al Collegio le argomentazioni di parte ricorrente circa la natura procedimentale della conferenza dei servizi, considerata la possibilità, per ogni atto amministrativo e nella specie per l’impugnato decreto direttoriale, di mutuare per relationem i contenuti della propria motivazione, riferendosi ad altri atti ovvero facendo proprie le risultanze dell’attività istruttoria e procedimentale svolta, e quindi, in questo caso, rinviando alle risultanze rinvenibili dal verbale della conferenza di servizi decisoria che la ricorrente parimenti impugna, senza che né il decorso del tempo, né la presenza di sostanziali divergenze in conferenza, né lo scostamento del decreto da quelle risultanze, richiedessero particolari ed ulteriori oneri motivazionali;

27. –

Che analoghe considerazioni valgono per la censurata illegittima partecipazione della Regione Marche alla conferenza di servizi, non avendo le resistenti depositato la delega motivata all’architetto che ha presenziato in sua rappresentanza (ottavo ed ultimo motivo di ricorso). Infatti, a giudizio del Collegio l’ultima censura, ora esaminata, non merita neppure un eventuale approfondimento istruttorio, trattandosi di una doglianza meramente formale, riferita ad una irregolarità documentale, che in ogni caso non si sostanzia, secondo quanto allegato dalla stessa ricorrente, in alcun vizio sostanziale suscettibile di aver determinato la modifica delle conclusioni della conferenza, che come osservato ancora dalla medesima ricorrente, costituisce un modulo procedimentale e non integra un nuovo organo amministrativo, men che mai a composizione perfetta;

28. –

Che, conclusivamente, tutti i motivi di censura del ricorso in epigrafe risultano non fondati alla stregua del diritto nazionale applicabile, e che, in particolare, le impugnate misure risultano essere state legittimamente adottate nei confronti del proprietario dell’area ricompresa nel sito di bonifica d’interesse nazionale in esame, e ciò consente al Collegio di respingere il ricorso senza dover proporre questione incidentale di compatibilità comunitaria, ma la complessità e novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese di giudizio;
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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