Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-04-2011) 16-05-2011, n. 19126

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

e il ricorso sia dichiarato inammissibile.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza dell’8 maggio 2009, la Corte di appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto che aveva dichiarato V.G. colpevole dei reati di cui agli artt. 570 e 572 c.p., condannandolo alla pena di giustizia.

Al V. era addebitato di aver maltrattato la moglie, ingiuriandola, picchiandola e umiliandola continuamente davanti ai figli, e di aver fatto mancare ai due figli minori i mezzi di sostentamento, non corrispondendo alcuna somma per il loro mantenimento.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, denunciando la violazione di legge e il vizio di motivazione, con riferimento alla condotta integrante i reati ascritti all’imputato.

Sostiene il ricorrente che nessuna prova certa risulterebbe acquisita in ordine ai presunti maltrattamenti in famiglia. La responsabilità dell’imputato sarebbe stata basata sulle dichiarazioni della moglie, benchè interessata come parte civile, e su quelle del fratello di costei, nonostante i sentimenti di odio e rivalsa da lui nutriti nei confronti dell’imputato, tanto da cadere in contraddizione o andare in escandescenze.

La sentenza impugnata avrebbe inoltre stravolto il contenuto di atti di indagine ed obliterato alcune prove, come la testimonianza del figlio che aveva spiegato i motivi contingenti del comportamento dell’imputato.

La Corte inoltre non avrebbe stabilito l’abitualità della condotta nè avrebbe dato rilievo ai motivi scatenanti la conflittualità tra i coniugi. Il ricorrente sostiene che non possa configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia, mancando l’elemento del dolo.

Difetterebbe, secondo il ricorrente, anche la prova del reato di cui all’art. 570 c.p., avendo la Corte di merito omesso di verificare lo stato di indigenza della famiglia e di considerare la difficoltà economica in cui si trovava l’imputato, dimostrata dalla condizione di disoccupato e dalla ammissione al gratuito patrocinio.
Motivi della decisione

1. Le illustrate censure sono manifestamente infondate ed indeducibili.

2. Quanto al dedotto vizio di motivazione in ordine alla prova dei reati ascritti all’imputato, deve ribadirsi che la denunzia di questo vizio non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico e della correttezza giuridica – in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio – le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Pertanto, il controllo in sede di legittimità dell’osservanza dell’obbligo della motivazione non può trasmodare in una inammissibile rinnovazione del giudizio di merito; nè può servire a mettere in discussione il convincimento in fatto espresso nella sentenza impugnata, che come tale è incensurabile, ma costituisce lo strumento attraverso il quale è possibile valutare la legittimità della base di quel convincimento; sicchè il vizio di motivazione non sussiste quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi vagliati un significato non conforme alle attese ed alle deduzioni della parte.

Esaminata in questa ottica, la sentenza impugnata dimostra di aver dato adeguata e non illogica motivazione del convincimento dei giudici di merito in ordine alla penale responsabilità dell’imputato.

Specificamente i giudici di merito hanno valutato le dichiarazioni rese dalla parte offesa, ritenendo che le dichiarazioni rese da costei, quant’anche provenienti da soggetto costituitosi parte civile ed in posizione contrastante con quella dell’imputato, dovevano ritenersi attendibili, perchè spontanee, costanti, logiche e coerenti, e comunque confermate sia dalla deposizione del fratello, che aveva riferito di essere intervenuto spesso (due o tre volte a settimana) per difendere la donna dalle aggressioni fisiche del marito e di aver provveduto, unitamente alla propria madre, al mantenimento dei nipoti, poichè l’imputato consumava i propri guadagni per ubriacarsi e per giocare ai videopoker; sia dalla relazione dell’agente di p.s., che, intervenuto su richiesta della Centrale operativa alle prime ore del 3 agosto 2004 presso la casa dei coniugi V., aveva appreso che poco prima la donna era stata picchiata dal marito.

Pertanto, quanto alla valutazione della deposizione della persona offesa, i giudici di merito hanno correttamente applicato i principi elaborati sul tema dalla giurisprudenza di legittimità, che richiedono, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, un più rigoroso controllo della sua attendibilità rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone, che può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (da ultimo, Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, dep. 27/07/2010, Stefanini Rv. 248016).

La sentenza impugnata, contrariamente alle deduzioni difensive, ha altresì esaminato la testimonianza del figlio della coppia, evidenziando come la stessa non inficiasse le suindicate risultanze probatorie, posto che questi aveva dichiarato di non sapere se il padre provvedesse o meno al mantenimento dei fratelli minori, che era comunque assicurato dalla nonna, e che tra i genitori insorgevano talora accese discussioni a motivo della gelosia nutrita dal padre nei confronti della moglie.

In merito alla valutazione dell’attendibilità delle testimonianze rese dai fratelli M., sulla quale si appuntano le doglianze del ricorrente, si tratta di una valutazione in fatto, non censurabile in sede di giudizio di legittimità, alla quale il ricorso contrappone nella sostanza un diverso apprezzamento di merito che è inammissibile nel giudizio di cassazione, non ricorrendo l’ipotesi, eccezionale e residuale, della manifesta illogicità.

Manifestamente infondate sono infine anche le censure relative alla prova del reato di cui all’art. 570 c.p., posto che i giudici di merito hanno accertato che la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza ai figli minori non era dovuto ad uno stato di indigenza dell’imputato, come riferito dai testi, e che per sostenere i predetti erano dovuti intervenire economicamente lo zio e la nonna materni.

Si rammenta che la responsabilità penale per il suddetto reato non può essere esclusa in base alla mera esibizione di documentazione formale (ad es. lo stato di disoccupazione), incombendo all’interessato l’onere di allegare gli elementi concreti dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione (Sez. 6, n. 2736 del 13/11/2008, dep. 21/01/2009, L, Rv.

242853).

3. Relativamente al vizio di violazione della legge penale, le doglianze esposte nel ricorso appaiono del tutto destituite di fondamento.

I giudici di merito hanno accertato la sottoposizione della parte offesa a continue vessazioni ed umiliazioni ad opera del marito, che era solito, "settimanalmente" e comunque "a distanza di giorni vicini", percuoterla con calci e pugni, minacciarla ed insultarla.

A fonte di tale accertamento, incensurabile in cassazione, come sopra evidenziato, appare del tutto priva di pregio giuridico la tesi difensiva volta a sostenere la non configurabilità della fattispecie penale di maltrattamenti in famiglia. Infatti, non integra il suddetto reato soltanto la commissione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio.

Quanto all’elemento soggettivo, ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, l’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità.

Essendo sufficiente il dolo generico, non rilevano i motivi che abbiano spinto l’agente ad infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali (Sez. 6, n. 1067 del 03/07/1990, dep. 30/01/1991, Soru, Rv.

186275).

Nel caso in esame, sulla base degli accertamenti compiuti in punto di fatto dai giudici di merito, non può seriamente dubitarsi che gli atti di vessazione reiteratamente posti in essere dal V. nei confronti della moglie siano riconducibili nella previsione normativa di cui all’art. 572 c.p. anche dal punto di vista soggettivo, per la consapevole volontà dell’agente di determinare nella vittima uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza e di intollerabilità del rapporto.

Piuttosto, le doglianze mosse dal ricorrente in ordine alla concreta sussistenza, in capo all’imputato, del dolo generico e unitario richiesto ai fini dell’integrazione del reato di cui trattasi, si risolvono, ancora una volta, in inammissibili censure dirette a sindacare la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito e ad ottenere una valutazione alternativa del materiale probatorio.

4. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.
P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *