Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 19-05-2011, n. 386 Comunicazione o notificazione dell’atto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

in fatto e in diritto quanto segue.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Giunge in decisione l’appello interposto dai signori Au.Ry. avverso la sentenza, di estremi specificati in epigrafe, con la quale il T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha respinto i tre ricorsi, riuniti, promossi in primo grado dagli odierni appellanti, onde ottenere l’annullamento dei seguenti atti:

– il D.A. 21 ottobre 1993, n. 7112, con il quale fu dichiarata la pubblica utilità di un "intervento espropriativo" sul terreno contraddistinto al fg. 6 del Comune di Giardini Naxos, part. 11 e 57/a (mq. 5.501) e 855 (mq. 2.874);

– il D.A. 7 aprile 1994, n. 5562, con il quale la Soprintendenza fu autorizzata a occupare il terreno sopra descritto;

– la nota della Soprintendenza del 17 gennaio 1994, recante la richiesta di autorizzazione all’occupazione;

– il D.A. 30 novembre 1993, n. 7511, di finanziamento dei lavori di scavo;

– il D.A. 21 dicembre 1996, n. 9035, con il quale fu pronunziata l’espropriazione del terreno suddetto.

2. – Si sono costituite, per resistere all’impugnazione, le amministrazioni indicate nelle premesse.

3. – All’udienza pubblica del 24 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

4. – L’articolata impugnativa, instaurata in primo grado, ha investito una sequenza di atti di una procedura espropriativa, avente ad oggetto i beni immobili degli appellanti, promossa al fine di tutelare e conservare i resti di un complesso archeologico di rilevante interesse, corrispondente a un quartiere dell’antica colonia greca di Naxos.

5. – Con la sentenza gravata il T.A.R. per la Sicilia ha respinto tutti i motivi dedotti.

6. – I signori Au.Ry. ripropongono in secondo grado, sia pure sotto forma di critica alla pronuncia avversata, le originarie censure.

L’appello è affidato a plurimi mezzi di gravame, così rubricati:

I) violazione e falsa applicazione degli artt. 7 ss. L. 30 aprile 1991, n. 10; mancata comunicazione di avvio del procedimento;

II) violazione e falsa applicazione dell’art. 67 R.D. 30 gennaio 1913, n. 363 e dell’art. 57, L. 1 giugno 1939, n. 1089;

III) violazione e falsa applicazione dell’art. 67 R.D. 30 gennaio 1913, n. 363 e dell’art. 57, L. 1 giugno 1939, n. 1089, dell’art. 8 lett. c), D.P.R. 3 dicembre 1975, n. 805 e L. 1 agosto 1977, n. 80; eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione e dell’insufficiente istruttoria;

IV) violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e ss. della L. 25 giugno 1865, n. 2359; eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento;

V) eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento;

VI) eccesso di potere per diverso aspetto, sotto il profilo dello sviamento e dell’insufficiente e della contraddittoria motivazione;

VII) eccesso di potere, sotto diverso profilo, per sviamento e difetto di motivazione;

VIII) eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento, dell’insufficiente motivazione e della contraddittorietà;

IX) violazione e falsa applicazione degli artt. 7 ss. L. 30 aprile 1991, n. 10; mancata comunicazione di avvio del procedimento;

X) violazione e falsa applicazione dell’art. 71 della L. 25 giugno 1865, n. 2359; eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento;

XI) eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento e dell’insufficiente motivazione;

XII) eccesso di potere per contraddittorietà tra provvedimenti;

XIII) illegittimità derivata.

7. – I motivi di impugnazione sono tutti infondati.

Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono che la dichiarazione di pubblica utilità non fu preceduta da un idoneo avviso di avvio del procedimento. In particolare osservano che, nella fattispecie, la comunicazione di avvio risaliva alla nota della Soprintendenza emessa in data 24 novembre 1993 e, quindi, in un’epoca successiva all’emanazione del D.A. 21 ottobre 1993, n. 711, recante la dichiarazione di pubblico interesse dei beni da espropriare: si sarebbe trattato dunque di un avviso meramente formale e tardivo, irrispettoso del disposto normativo di cui all’art. 8 della L. n. 10/1991 e, soprattutto, inidoneo a soddisfare le esigenze di una vera partecipazione procedimentale di tipo difensivo.

Gli appellanti criticano altresì la motivazione offerta dal T.A.R., laddove il primo Giudice ha affermato che: "in caso di adozione di un provvedimento o vincolato o che rientra nell’ordinaria sequela procedimentale correlata alla tipologia di interessi pubblici da conseguire, che deve essere necessariamente assunto in presenza di determinati presupposti, la comunicazione dell’avvio del relativo procedimento può essere omessa, perché in nessun caso la determinazione da prendere potrebbe essere modificata in base alle osservazioni dell’interessato … il giudice amministrativo ha interpretato la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. … Ne consegue che ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile … Osserva il Collegio, pertanto, che dopo la comunicazione ex art. 8 della L. n. 10/ 1991 i ricorrenti invece di rimanere silenti avrebbero potuto, a ricezione della predetta nota manifestare le loro osservazioni sul piano di esproprio.

Ai sensi dell’art. 10 della Legge 22 ottobre 1971 n. 865, il Sindaco di Giardini Naxos in data 8.2.1994 ha pubblicato il piano di esproprio, ha proceduto alle relative notifiche dell’avviso di deposito ed alla pubblicazione dell’avviso sulla G.U.R.S. n. 8 del 26.02.1994, p. 18.

Nonostante i predetti adempimenti sindacali, i ricorrenti non hanno presentato alcuna osservazione, come risulta dalla nota del Sindaco di Giardini Naxos prot. n. 25922/93 del 20.7.1994".

I signori Au.Ry. negano che al caso di specie fosse applicabile la regola di giudizio, ora ricavabile dall’art. 21-octies della L. n. 241/1990, e soggiungono che alle garanzie di cui agli artt. 8, 10 e 11 della L. n. 865/1971 possa essere riconosciuta validità sul piano partecipativo soltanto nell’ipotesi – diversa da quella verificatesi nel caso di specie – in cui i relativi adempimenti amministrativi siano stati posti in essere prima dell’intervento della dichiarazione di pubblica utilità.

8. – Il Collegio ritiene che la censura non possa essere condivisa. In punto di fatto è incontrovertibile che gli appellanti abbiano ricevuto l’indispensabile comunicazione di avvio del procedimento espropriativo e tuttavia è altrettanto incontestabile che essa sia stata tardivamente emessa e, soprattutto, comunicata in epoca successiva alla dichiarazione di pubblica utilità. Giustamente pertanto gli appellanti hanno osservato che una comunicazione effettuata dopo l’intervento dell’atto fondamentale dell’intera procedura sia un mero simulacro di garanzia partecipativa, non potendo un avviso del genere assolvere all’essenziale funzione di consentire ai soggetti interessati di far valere, tempestivamente e utilmente, in seno al procedimento tutte le eventuali obiezioni rispetto alla scelta ablatoria preannunciata dall’amministrazione.

L’istituto della comunicazione di avvio del procedimento ha difatti la precipua finalità di rendere edotto il potenziale destinatario di un provvedimento (nella specie, negativo) dell’inizio del relativo procedimento, dello scopo e dell’oggetto di esso, di quali siano l’amministrazione procedente e l’ufficio responsabile, dei termini di conclusione della procedura e dei "diritti di partecipazione" esercitabili dal soggetto avvisato.

Una preventiva comunicazione di avvio costituisce dunque un adempimento indefettibile per i fini di una reale partecipazione procedimentale.

Sennonché tali rilievi, certamente validi in linea generale, non si attagliano esattamente alla vicenda che occupa il Collegio e ciò perché i ricorrenti non erano affatto all’oscuro delle intenzioni dell’amministrazione.

Nella valutazione dell’idoneità delle garanzie partecipative assicurate da un’amministrazione procedente non può invero prescindersi dalla considerazione complessiva della situazione dalla quale abbia tratto origine la specifica procedura ablatoria. L’effettiva indispensabilità della preventiva comunicazione di avvio va infatti apprezzata sul piano sostanziale e in relazione a tutte le circostanze del singolo caso concreto.

Orbene, nel ricorso di primo grado gli stessi appellanti riferirono che, in passato, i terreni in questione erano stati a lungo al centro di un contrasto tra le amministrazioni, odierne appellate, e (almeno nella fase iniziale) la dante causa dei signori Au.Ry., con riguardo ad alcune campagne di scavo miranti alla ricerca di reperti archeologici.

L’esito di tale contenzioso, articolatosi in numerosi esposti, ricorsi e denunce penali, si concluse con la sottoscrizione di un c.d. "atto di sottomissione", rogato per Notar Paderni, il 24 novembre 1983, rep. n. 136249 (integrato con ulteriore atto del 26 gennaio 1984, rep. n. 16451).

Parti di tale atto unilaterale (ma plurisoggettivo) furono i medesimi signori Au.Ry., i quali precisarono nelle premesse che:

– i terreni erano stati interessati, fin dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, da una procedura di occupazione temporanea finalizzata alla realizzazione di una campagna di scavi intrapresa dalla Soprintendenza di Messina;

– nel 1979 l’Assessorato regionale dei Beni culturali e ambientali e P.I. aveva ordinato la demolizione del fabbricato su di essi insistente;

– nel 1981 il predetto Assessorato aveva altresì disposto l’espropriazione dei beni;

– da tali vicende erano scaturite varie liti instaurate, a diverso titolo, in sede sia civile sia amministrativa.

Onde definire siffatto complesso contenzioso, gli odierni appellanti, con il suddetto atto di sottomissione, si impegnarono, tra l’altro:

– a costituire, in favore dell’Assessorato sopra menzionato, un diritto reale d’uso di durata decennale per consentire l’esecuzione di ricerche e di scavi archeologici, rinunciando al contempo a qualsiasi indennizzo o risarcimento;

– a rinunciare a ogni pretesa per l’occupazione risalente agli anni 1971-1973 e pure per l’espropriazione disposta nel 1981.

L’atto di sottomissione fu recepito dal predetto Assessorato giusta decreto del 27 febbraio 1984, n. 565. In tale decreto, mai impugnato dagli appellanti, l’Assessorato specificò tuttavia che "qualora eventuali scavi dovessero portare alla scoperta di reperti archeologici che present(i)no l’interesse di cui all’art. 54 L. 1 giugno 1939 n. 1089, l’Amministrazione può sempre procedere all’espropriazione ai sensi della citata disposizione di legge".

I fatti appena riferiti non sono privi di rilievo per lo scrutinio della censura formulata con il primo motivo di impugnazione. Se, difatti, la dichiarazione di pubblica utilità è stata disposta senza una preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento, è altrettanto vero che gli appellanti erano, nel 1993, perfettamente a conoscenza dell’interesse dell’Amministrazione ad espropriare il bene, posto che l’iniziativa ablatoria era stata finanche preannunciata nel testo del decreto assessorile di accettazione dell’atto di sottomissione. Viepiù la dichiarazione di pubblica utilità è altresì intervenuta in un periodo in cui perdurava ancora l’efficacia temporale del diritto d’uso concesso dagli appellanti all’Assessorato.

Riconsiderando la questione dalla riferita prospettiva, deve allora condividersi la statuizione del Tribunale circa l’ininfluenza, in concreto, della tardiva comunicazione dell’avvio, dal momento che gli appellanti avrebbero dovuto essere a conoscenza dei progressi conseguiti nella campagna di scavi e dell’eccezionale importanza delle scoperte archeologiche compiute sui loro terreni negli anni 1985-1992 (ossia del ritrovamento di parte del tessuto urbano dell’antica Naxos); ben sapevano inoltre che era prossima la scadenza dell’atto di sottomissione e che l’Assessorato non aveva affatto rinunciato alla sua intenzione di procedere con l’espropriazione e, infine, che il procedimento ablatorio sarebbe stato ripreso.

In questo contesto il Collegio ravvisa dunque i contorni di una situazione di equipollenza funzionale tra la comunicazione di avvio e l’atto dichiarativo complesso, risultante da quello di sottomissione e dal decreto di accettazione dell’Assessorato, con il quale fu unicamente accolta la proposta di una sospensione dell’ablazione, prefigurandone tuttavia una ripresa alla scadenza dell’arco temporale del decennio. Non vi è stata, insomma, alcuna decisione a sorpresa dell’amministrazione né, per quanto si dirà infra nei successivi paragrafi, la dichiarazione di pubblico interesse presentava i vizi dedotti dagli appellanti.

9. – Con il secondo mezzo di gravame i signori Au.Ry. lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 67 del R.D. 30 gennaio 1913, n. 363 e 57 della L. 1 giugno l939, n. 1089. In particolare, si deduce l’illegittimità asseritamente consistita nella mancata acquisizione dei pareri del Consiglio superiore per le antichità e le belle arti, ora Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, e del Consiglio di Stato. Sul punto il Collegio non ha ragioni per discostarsi da quanto puntualmente rilevato dal T.A.R., ossia che l’art. 67 del R.D. n. 363/1913 non è applicabile al procedimento espropriativo disciplinato dagli artt. 54 e ss. della L. n. 1089/1939, in considerazione del fatto che il parere del Consiglio superiore per le antichità e le belle arti, in ambito regionale, è stato sostituito, ai sensi dell’art. 6 della L. n. 80/1977, dal parere del Consiglio regionale dei beni culturali e ambientali, previsto tuttavia soltanto per acquisti ed interventi, su beni culturali, di entità superiore all’importo di 300 milioni di Lire (e, come si vedrà infra nel successivo paragrafo, non è questa l’ipotesi che ricorre nella fattispecie).

Inoltre lo stesso Consiglio di Stato (v, la decisione della sez. VI, 15 maggio 2000, n. 2776) ha ritenuto implicitamente abrogata, per effetto dell’art. 54 della L. n. 1089/1939, la norma, invocata dagli appellanti, che, in materia, ne prescriveva l’obbligatorio parere.

10. – Con il terzo motivo, logicamente connesso al precedente, gli appellanti sostengono che fosse indispensabile acquisire il parere del Consiglio regionale dei beni culturali e ambientali, dal momento che l’intervento ablatorio riguarderebbe beni di valore superiore all’equivalente in Euro di 300 milioni di lire. La tesi è infondata. Lo stanziamento disposto dall’amministrazione fu di Lire 81.991.250 e, all’esito del giudizio civile promosso dai ricorrenti, la Corte di appello di Messina, con statuizione confermata dal Supremo Collegio, liquidò la somma di Euro 43.253,26, ossia poco più di quanto originariamente previsto e comunque molto meno del valore numerario al quale l’ordinamento ancora l’obbligatorietà del suddetto parere. Ciò conferma altresì che l’amministrazione regionale non effettuò uno stanziamento simbolico, siccome reiteratamente dedotto dai ricorrenti. L’impegno finanziario era invece adeguato allo scopo, attesa la destinazione ad uso agricolo ai terreni oggetto della procedura espropriativa e stante l’esistenza, sul sito, di un vincolo di inedificabilità assoluta dovuto alla presenza, nel sottosuolo, di beni archeologici.

11. – Non va incontro a miglior sorte il quarto mezzo di gravame con il quale si è lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 3 e ss. legge 25 giugno 1865, n. 2359, nonché l’eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento.

Sul punto il Tribunale ha osservato: "L’Amministrazione dei Beni Culturali non ha proceduto alla dichiarazione di pubblica utilità sulla base degli artt. 3 e ss. della Legge n. 2359/1865, che presuppone l’esecuzione di opere da realizzare, ma ha emanato tale atto sulla base dell’art. 54 della Legge n. 1089/1939, come risulta espressamente dall’ultima frase della prima pagina e dall’ultima pagina della relazione tecnica, recepita dallo stesso D.A. 7112/1993 di Pubblica Utilità.

Ad avvenuto deposito dell’indennità provvisoria presso la Cassa Depositi e Prestiti di Messina, l’Assessorato Regionale per i Beni Culturali e Ambientali e per la Pubblica Istruzione ha emanato il decreto di esproprio dei citati immobili D.A. n. 9035 del 21.11.1996.

Muovendo dal presupposto che l’espropriazione promossa e finalizzata ad acquisire al Demanio Pubblico i resti di rilevante interesse archeologico riportate in luce nel corso delle campagne di scavo, è evidente che non sussistono i presupposti per fissare i termini di inizio ed ultimazione lavori, essendo solo necessario il termine di legge per iniziare e completare il procedimento espropriativo, termine fissato nella misura di cinque anni".

Le argomentazioni spiegate dal T.A.R. sono perfettamente condivisibili. In disparte le considerazioni svolte dagli appellanti in ordine al concreto andamento dei lavori (trattandosi di aspetti non giuridicamente rilevanti in questa sede), va considerato che, nel caso di specie, i ritrovamenti archeologici non sono consistiti in pochi reperti ricompresi entro un perimetro circoscritto; sono stati per contro rinvenuti, come sopra accennato, i resti di un intero quartiere dell’antica Naxos. Ebbene, l’importanza e la rilevanza della scoperta e la vasta estensione dell’area di scavo rendevano ab origine impossibile qualunque previsione sulla durata dei lavori di ricerca archeologica, prevedibilmente destinati a protrarsi per molti anni, anche in futuro. L’amministrazione dunque ha potuto indicare soltanto i termini finali della procedura espropriativa, ma non anche quelli dei lavori, giacché di durata assolutamente indeterminabile ex ante.

12. – Non può trovare accoglimento il quinto mezzo di gravame con il quale gli appellanti lamentano lo sviamento pretesamente consistito nell’aver l’amministrazione disposto un’espropriazione non realmente necessaria, in quanto l’interesse pubblico si sarebbe potuto egualmente realizzare appieno con altre modalità, ad esempio mediante la sottoscrizione di un nuovo atto di sottomissione. Il Collegio non ravvisa alcun difetto di proporzionalità tra lo strumento utilizzato, id est l’esproprio, e l’interesse perseguito dall’amministrazione. Nella relazione tecnica è stata ampiamente documentata l’enorme valenza storica e archeologica dei ritrovamenti e, quindi, appare del tutto giustificata l’esigenza di acquisire definitivamente e in modo stabile l’area al patrimonio demaniale, non essendo sufficiente, attesa la prevedibile lunga durata (v. supra) delle ricerche, una mera rinnovazione di un atto mirante unicamente alla sottrazione temporanea degli immobili al godimento dei proprietari.

13. – Privo di pregio è il sesto motivo di impugnazione. Secondo gli appellanti l’amministrazione avrebbe dovuto limitare l’espropriazione al solo sacello arcaico e non anche alle aree limitrofe e comunque il decreto di esproprio sarebbe sprovvisto di motivazione in ordine alla sussistenza e alla natura dell’interesse pubblico ad estendere l’ablazione a zone differenti da quella di insistenza del predetto sacello.

Onde confutare la tesi patrocinata dai ricorrenti è sufficiente rilevare che il D.A. n. 7112/1993 rinvia alla relazione tecnico-archeologica redatta dalla Soprintendenza di Messina. La lettura della relazione conferma che i ritrovamenti si estendono ben al di là dell’area del sacello. L’estensione dell’esproprio anche a tali aree rientrava dunque in un ambito di discrezionalità tecnica dell’amministrazione che, in concreto, si è rivelata scevra di vizi di plateale illogicità o arbitrarietà. Non serve poi immolare sulla dimostrazione del rilevante interesse pubblico (sul quale, peraltro, la suddetta relazione si diffonde) all’acquisizione di terreni nel cui sottosuolo siano stati rinvenuti i reperti sopra succintamente descritti.

14. – Con il settimo motivo di appello si insiste nell’argomento dell’irrisorietà dello stanziamento fissato con il decreto di esproprio. Circa l’infondatezza dell’assunto si rinvia a quanto sopra osservato nel precedente par. 10 e ai plurimi e pertinenti rilievi contenuti nella sentenza impugnata.

15. – L’ottavo motivo di appello, incentrato sul preteso difetto di motivazione del vincolo imposto sull’intero isolato urbano, è superabile richiamando le osservazioni spiegate nel precedente par. 13.

16. – Con il nono mezzo di gravame gli appellanti sostengono che l’amministrazione avrebbe dovuto comunicare loro un ulteriore avviso di avvio del procedimento in relazione all’occupazione temporanea e d’urgenza, trattandosi di una fase autonoma della più ampia procedura ablatoria. Per il rigetto del motivo si richiamano le considerazioni svolte sub par. 8; va osservato, in aggiunta, che un avviso di avvio della procedura è stato comunque comunicato prima dell’autorizzazione all’occupazione. Deve inoltre soggiungersi che il Tribunale ha anche statuito sul punto della sostanziale obbligatorietà, nella fattispecie, di siffatta occupazione e l’appello non reca al riguardo specifiche contestazioni.

17. – Non è fondata la decima censura sulla dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 71 della L. 25 giugno 1865, n. 2359 e sull’eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento: ritengono gli appellanti che l’amministrazione avrebbe dovuto dichiarare anche la pubblica utilità, l’indifferibilità e l’urgenza dell’occupazione, stante l’autonomia di detto provvedimento rispetto a quello di esproprio. Al riguardo il T.A.R. ha osservato: "Il D.A. n. 5562 del 07/04/1994 giustifica nella premessa l’occupazione dei terreni per dare esecuzione ai lavori di scavo già finanziati.

A tal proposito va richiamata la disposizione dell’art. 1 della citata L. n. 35/1978 la quale prevede per tutte le opere pubbliche di competenza della Regione che l’approvazione dei progetti da parte dei competenti organi dei rispettivi enti equivale a dichiarazione di pubblica utilità, di indifferibilità ed urgenza delle stesse opere a tutti gli effetti". Siffatte statuizioni non risultano specificatamente contestate dagli appellanti e, dunque, anche la decima doglianza deve essere respinta.

18. – È infondato l’undicesimo motivo di impugnazione con il quale gli appellanti censurano il decreto di esproprio per carenza di motivazione. A tal riguardo si richiamano le precedenti considerazioni svolte passim.

19. – Con il dodicesimo motivo di appello è dedotta la pretesa contraddittorietà dell’intero procedimento per aver l’Assessorato dapprima recepito l’atto di sottomissione e poi reiterato i medesimi atti. Il Collegio ritiene non sussista alcuna contraddittorietà nel comportamento dell’amministrazione né alcuna lesione di un affidamento dei ricorrenti. A ben vedere l’Assessorato ha sempre dimostrato il proprio interesse all’area in questione. La circostanza che, in un primo momento, l’amministrazione abbia optato per una soluzione meno invasiva della sfera giuridica degli appellanti, trovava ampia giustificazione nell’esigenza di verificare, prima di disporre un’immediata espropriazione, quale fosse l’effettiva entità dei ritrovamenti.

La Regione dunque, lungi dal porre in essere un comportamento sleale, ha tenuto una condotta complessivamente ispirata a proporzionalità e buon andamento.

20. – Con il tredicesimo motivo di appello si deduce il vizio di illegittimità derivata dei decreti di occupazione e di espropriazione in forza dell’illegittimità dell’intera sequenza procedimentale snodatasi a monte di tali atti. Difettando, per tutto quanto sopra osservato e considerato, l’essenziale presupposto argomentativo della censura, ossia l’illegittimità dell’intera sequenza procedimentale, viene meno anche la fondatezza di quest’ultimo mezzo di gravame.

21. – Sulla scorta di tutto quanto rilevato il Collegio ritiene di poter assorbire ogni altro motivo o eccezione, in quanto ininfluenti e irrilevanti ai fini della presente decisione.

22. – In conclusione, la sentenza impugnata resiste alle censure contro di essa rivolte, rivelandosi del tutto immune dai vizi denunciati: la pronuncia gravata pertanto merita conferma, previo integrale rigetto dell’appello.

23. – In ragione della peculiarità delle questioni trattate, si ravvisano in via d’eccezione le condizioni per compensare integralmente tra le parti le spese processuali del secondo grado del giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello.

Compensa integralmente tra le parti le spese processuali del secondo grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 24 febbraio 2011, con l’intervento dei signori: Luciano Barra Caracciolo, Presidente, Guido Salemi, Gabriele Carlotti, estensore, Pietro Ciani, Alessandro Corbino, Componenti.

Depositata in Segreteria il 19 maggio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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