Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio

ha pronunciato la seguente

Sentenza

sul ricorso n. 574 del 2009, proposto da Minio Emilio, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Pesce, presso il cui studio è elettivamente domiciliato, in Roma, via XX Settembre n. 1

contro

* il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro p.t.;
* il Consiglio Superiore della Magistratura, nella persona del Presidente p.t.;

rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale sono elettivamente domiciliati, in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12

e nei confronti di

Savastano Marina, Levita Luigi, Scarpati Angelo e Cancilla Francesco Antonino, non costituitisi in giudizio

per l’annullamento

* del provvedimento di estremi e contenuto ignoti con il quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha respinto l’istanza avanzata dal dr. Minio ai sensi della legge 104/92 di avanzamento nella graduatoria dei magistrati nominati con D.M. del 6 dicembre 2007 ai fini della scelta della sede di servizio;
* nei limiti dell’interesse:

1) della stessa graduatoria del Consiglio Superiore della Magistratura, con cui è stato stilato l’ordine dai magistrati nominati con D.M. del 6 dicembre 2007;

2) della circolare del Consiglio Superiore della Magistratura recante i criteri di applicazione per la formazione della graduatoria (protocollo CSM P27095/2008 del 7 novembre 2008);

* di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale;

nonché per la declaratoria

del diritto del ricorrente ad ottenere il beneficio previsto dalla legge 104/1992 (qualificato ai sensi degli artt. 3, comma 3, 21 e 33 comma 6);

Visto il ricorso con la relativa documentazione;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 6 maggio 2009 il dr. Roberto POLITI; uditi altresì i procuratori delle parti come da verbale d’udienza.

Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue:

Fatto

Espone preliminarmente il ricorrente di essersi utilmente collocato (204° posto) in esito al concorso a 380 posti di uditore giudiziario.

Soggiunge l’interessato di aver presentato una dichiarazione, corredata dalla pertinente documentazione, attestante la sussistenza di titoli idonei a determinare l’attribuzione di un maggiore punteggio assoluto – rilevante ai fini della formazione della graduatoria definitiva – con particolare riferimento al disimpegno di obblighi assistenziali nei confronti di un congiunto affetto da grave forma di handicap.

In conseguenza della definizione della graduatoria concorsuale, il ricorrente si avvedeva che l’Amministrazione procedente aveva determinato di non attribuire il punteggio aggiuntivo che l’interessato assume spettargli in ragione del titolo sopra indicato.

Questi i dedotti argomenti di censura:

Violazione e falsa applicazione di legge (artt. 3 e 33, comma 5, della legge 104/1992). Difetto assoluto di istruttoria e di motivazione.

Nell’osservare come il comma 5 dell’art. 33 della legge 104/1992 introduca un criterio derogativo rispetto all’ordinaria procedura di assegnazione delle sedi per lo svolgimento del rapporto di lavoro (consistente nella possibilità, attribuita al lavoratore che assista con continuità un familiare disabile, di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio), esclude il ricorrente che il riconoscimento del suddetto beneficio sia condizionato alla convivenza con il congiunto (risultando invece necessario che la prestazione assistenziale sia svolta con carattere di continuità).

Sostiene il dott. Minio di possedere i requisiti di legge, atteso che il medesimo disimpegna – nei confronti della propria madre, affetta di disabilità psichica – attività assistenziale non altrimenti fungibile in ragione dell’assenza di altri familiari in grado di prestarla.

Assume, per l’effetto, l’illegittimità della collocazione nella conclusiva graduatoria del concorso de quo, intervenuta in difetto del riconoscimento del titolo di precedenza di che trattasi.

Con motivi aggiunti depositati il 3 febbraio 2009 parte ricorrente ha poi impugnato la nota P546/2009 del 15 gennaio 2009, con la quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato la graduatoria definitiva dei magistrati nominati con D.M. 6 dicembre 2007, estendendo a tale atto le doglianze già dedotte con il ricorso introduttivo.

Conclude parte ricorrente insistendo per l’accoglimento del gravame, con conseguente annullamento degli atti oggetto di censura.

L’Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’infondatezza delle esposte doglianze, invocando la reiezione dell’impugnativa.

La domanda di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, dalla parte ricorrente proposta in via incidentale, è stata da questo Tribunale accolta con ordinanza n. 208, pronunziata nella Camera di Consiglio dell’11 febbraio 2009.

Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla pubblica udienza del 6 maggio 2009.

Diritto

1. Va preliminarmente osservato che con l’ordinanza da ultimo richiamata la Sezione ha rilevato che, in ragione del titolo di preferenza assoluto dalla parte ricorrente fatto valere con riferimento alla graduatoria del concorso in precedenza indicato, rivestono qualità di contraddittore necessario tutti i candidati collocatisi in posizione anteriore rispetto a quella occupata dal dott. Minio.

A fronte della riveniente esigenza che, ai fini della trattazione nel merito del presente gravame, venisse completato il quadro della parti necessarie evocate in giudizio, veniva quindi ordinato alla parte ricorrente di procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti necessarie, mediante notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, nonché dei motivi aggiunti successivamente proposti, entro giorni 30 (trenta) dalla notificazione o comunicazione in via amministrativa della presente ordinanza e deposito in giudizio della prova dell’intervenuta notificazione entro i 15 (quindici) giorni successivi al completamento delle relative formalità.

Con decreto presidenziale n. 54 del 23 febbraio 2009 –reso a fronte di istanza dal ricorrente presentata il precedente 19 febbraio – la parte veniva autorizzata ad effettuare l’integrazione del contraddittorio come sopra disposta a mezzo di pubblici proclami.

Nell’osservare come le modalità all’uopo indicate abbiano formato oggetto di piena osservanza ad opera della parte ricorrente – che ha depositato in data 2 aprile 2009 l’originale della Gazzetta Ufficiale – Parte II – n. 34 del 24 marzo 2009 (comprovante l’esecuzione del disposto incombente) – vengono in considerazione le censure con le quali il dott. Minio ha contestato la legittimità delle avversate determinazioni.

2. Va innanzi tutto osservato come la legge 5 febbraio 1992 n. 104, all’art. 33, statuisca che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

La posizione di vantaggio costituita ex art. 33, si presenta come un vero e proprio diritto soggettivo di scelta da parte del familiare-lavoratore che presti assistenza con continuità a persone che sono ad esse legate da uno stretto vincolo di parentela o di affinità.

La ratio di una siffatta posizione soggettiva – come autorevolmente sostenuto dalla Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (sentenza 27 marzo 2008 n. 7945) va individuata nella tutela della salute psico-fisica del portatore di handicap, nonché in un riconoscimento del valore della convivenza familiare come luogo naturale di solidarietà tra i suoi componenti.

In argomento, va rammentato come la Corte Costituzionale – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità del citato art. 33, comma 5, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui tale norma riconosce il diritto del lavoratore dipendente a scegliere la sede più vicina al proprio domicilio – ha affermato:

* che la suddetta disposizione richiede come condizione che il lavoratore sia convivente con l’handicappato;
* e che la maggior tutela accordata all’ipotesi in cui il portatore di handicap riceva già assistenza rispetto a quella – altrettanto meritevole di tutela, ma diversa – in cui il lavoratore non è convivente (e si rende quindi necessario il suo trasferimento per attendere alle cure del congiunto), lungi dal rappresentare una discriminazione ingiustificata, costituisce una scelta discrezionale del Legislatore non irragionevolmente finalizzata alla valorizzazione dell’assistenza familiare del disabile, allorquando corrisponda ad una modalità di assistenza in atto, la cui speciale salvaguardia valga ad evitare rotture traumatiche e dannose alla convivenza (cfr.: Corte Cost. ord. n. 325 del 1996).

Con la sopra citata pronunzia, la Corte Costituzionale ha avuto modo anche di ricordare come, esaminando alcuni profili della legge 104/1992, ne abbia già sottolineato l’ampia sfera di applicazione, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacenti, la tutela dei portatori di handicap; ed ha aggiunto, ulteriormente, che la relativa disciplina incide sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sulla integrazione scolastica, e che in generale dette misure hanno il fine di superare (o di contribuire a fare superare) i molteplici ostacoli che il disabile incontra quotidianamente nelle attività sociali e lavorative e nell’esercizio dei diritti costituzionalmente protetti (cfr. sentenza n. 406 del 1992).

Va tuttavia osservato che – ferma la rilevanza sociale della disposizione legislativa all’esame – nondimeno il diritto del genitore o del familiare lavoratore dell’handicappato di scegliere la sede più vicina al proprio domicilio (e di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso) non si configura quale diritto assoluto o illimitato: e ciò in quanto lo svolgimento di tale posizione giuridica soggettiva presuppone, oltre agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, altresì la compatibilità con l’interesse comune.

Come è dimostrato dall’inciso “ove possibile” (contenuto nel comma 5 all’esame), il diritto alla tutela dell’handicappato non può essere fatto valere quando il relativo esercizio venga a ledere in maniera consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, in quanto ciò può tradursi – soprattutto per quel che riguarda i rapporti di lavoro pubblico – in un danno per la collettività (cfr.: Corte Cass. 29 settembre 2002 n. 12692).

In questo caso quindi il diritto del familiare-lavoratore deve bilanciarsi con altri interessi, che trovano anche essi una copertura costituzionale, sicché il riconoscimento del diritto del lavoratore-familiare può – a seconda delle situazioni fattuali a fronte delle quali si intenda farlo valere – dimostrarsi recessivo a fronte di rilevanti esigenze economiche, organizzative o produttive dell’impresa,e per quanto riguarda i rapporti di lavoro pubblico, ad interessi della collettività ostativi di fatto alla operatività della scelta.

3. Secondo quanto condivisibilmente sostenuto dalle Sezioni Unite nella citata decisione, la prova della sussistenza delle ragioni impeditive del diritto alla scelta delle sede fa carico sul datore di lavoro: a tale conclusione conducendo la lettera della legge, la considerazione che le ragioni da provare sono a diretta e più agevole conoscenza del datore di lavoro, ed infine il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità in tema di trasferimento ex art. 2103 c.c.

Se, alla stregua delle indicazioni precedentemente esposte, il diritto del familiare-lavoratore che assista con continuità un congiunto portatore di handicap di scegliere la sede lavorativa più vicino al proprio domicilio non si configura come un diritto assoluto o illimitato, atteso che detto diritto può essere fatto valere allorquando (alla stregua della regola di un equo bilanciamento tra i diritti, tutti con rilevanza costituzionale) il suo esercizio finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive o organizzative del datore di lavoro e per tradursi (soprattutto nei casi in cui si sia in presenza di rapporti di lavoro pubblico) con l’interesse della collettività (considerazioni, queste, la cui prova fa carico sulla parte datoriale privata e su quella pubblica), deve escludersi che, nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, il diniego espresso a fronte dell’istanza presentata dal dott. Minio sia confortato da condivisibili argomentazioni.

Il C.S.M., con delibera 14 gennaio 2009 (avente ad oggetto “esame delle osservazioni presentate dai magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 6 dicembre 2007, approvazione della graduatoria finale”) ha ribadito quanto osservato dalla competente Commissione in ordine alla inadeguatezza della situazione rappresentata dal dott. Minio ad integrare la fattispecie di legge, atteso che “la madre del magistrato, portatrice di handicap, … ben può essere assistita da altri familiari, in particolare da altra figlia, che abita nel medesimo stabile della madre e che svolge attività commerciale in società con altro soggetto”.

Tale assunto – contrariamente a quanto osservato dall’Avvocatura Generale dello Stato con memoria depositata il 7 febbraio 2009 – non merita condivisione.

La ratio dell’articolo 33, comma 5, è infatti quella di tutelare il rapporto assistenziale, in atto con carattere di continuità, nel presupposto che lo stesso esprima valori di solidarietà familiare e umana aventi fondamento costituzionale; ciò si basa sul fatto che la relazione assistenziale ha un contenuto affettivo intimo e personale e che la sua instaurazione dipende da una scelta individuale che non può essere imposta, dipendendo la stessa da una libera e consapevole assunzione di responsabilità del singolo.

Di conseguenza, l’esclusività deve essere intesa come inesistenza di altri congiunti che siano disponibili a prestare e che in concreto prestino in modo adeguato assistenza al congiunto, indipendentemente dalle ragioni di tale indisponibilità, che possono essere oggettive ma anche soggettive proprio perché la relazione in questione ha un essenziale contenuto affettivo e emotivo e dipende dal concreto atteggiarsi dei legami tra soggetti.

Non si dimostra quindi condivisibile quell’orientamento giurisprudenziale che ha inteso l’“esclusività” del rapporto come inesistenza di altri congiunti idonei a prestare assistenza, ovvero come documentata e oggettiva impossibilità di questi ultimi a prestarla, nel presupposto che la disposizione all’esame avrebbe come ratio non quella di assegnare dei benefici ai soggetti che hanno un parente portatore di handicap, ma quella di garantire a quest’ultimo un’assistenza, per il caso che non ne abbia, o di garantirgli la continuità dell’assistenza già in atto, per il caso che già vi sia un parente che se ne occupi.

Diversamente, deve ritenersi (come condivisibilmente osservato dal T.A.R. Lazio, Latina, 30 luglio 2008 n. 981) che l’interpretazione costituzionalmente adeguata della disposizione all’esame risieda nell’attribuzione, in applicazione di esigenze solidaristiche, di un beneficio a chi già si sia spontaneamente e responsabilmente assunto il compito – oltretutto assai oneroso materialmente e psicologicamente – di prestare assistenza a un congiunto disabile, instaurando con lo stesso il rapporto assistenziale.

Diversamente opinandosi, verrebbe a configurarsi la possibilità – contraria alla ratio legis – di concedere il beneficio in questione a chi adduca la necessità di instaurare un rapporto assistenziale con il congiunto privo di altri familiari in grado di dargli assistenza, ovvero a chi non vanti, in atto, una effettiva e continua relazione assistenziale con il disabile (con l’evidente rischio di favorire utilizzazioni strumentali, se non addirittura abusive, del beneficio de quo da parte di chi abbia un congiunto disabile ed intenda far valere tale situazione per ottenere una più “comoda” assegnazione della sede di lavoro).

4. Deve quindi escludersi che, ex se riguardata, l’esistenza di altri familiari eventualmente in grado di fornire assistenza ma a ciò non disponibili per ragioni oggettive o soggettive impedisca l’applicazione dell’articolo 33, comma 5.

Quanto alla eventuale “indisponibilità” dei congiunti per ragioni “soggettive”, non risponderebbe alla ratio dell’articolo 33, comma 5, negare il beneficio nel presupposto che astrattamente altri potrebbero instaurare il rapporto assistenziale.

La giurisprudenza, tra i presupposti per l’operatività dell’articolo 33, non ha infatti mancato di indicare il “gradimento” da parte del disabile destinatario dell’assistenza, così confermandosi appunto l’essenzialità del legame affettivo nel meccanismo previsto dalla disposizione in questione.

In questo quadro, la resistente Amministrazione della Giustizia – investita della domanda del ricorrente – si sarebbe dovuta limitare a verificare l’effettiva esistenza del rapporto assistenziale e la indisponibilità, anche solo soggettiva, degli altri congiunti ad assumersi l’impegno di assistere i congiunti.

In particolare, avrebbe dovuto formare oggetto di verifica se effettivamente il ricorrente fosse l’unico congiunto – a causa degli impedimenti soggettivi o oggettivi manifestati dagli altri familiari – a poter prestare gli obblighi assistenziali nei confronti della madre.

La mera esistenza di altri familiari potenzialmente in grado di fornire assistenza, quindi, non costituiva – ex se riguardata – ragione per negare il beneficio; atteso che l’Amministrazione, anche nell’ottica di evitare abusi, avrebbe dovuto verificare che tali altri familiari non fossero disponibili a prestare assistenza o non avessero instaurato essi stessi una relazione assistenziale con il proprio congiunto.

5. Le considerazioni precedentemente esposte impongono di disporre, in accoglimento delle censure dedotte con il presente gravame, l’annullamento degli atti impugnati.

Rimane riservata all’Amministrazione, nell’ambito delle coordinate di legittimo svolgimento del potere de quo in precedenza illustrate dal Collegio, ogni conseguenziale statuizione.

Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese di lite.

P.q.m.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione I – accoglie il ricorso indicato in epigrafe, nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in tali limiti annulla – riservate alla competente Amministrazione le conseguenziali determinazioni, gli atti impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 6 maggio 2009, con l’intervento dei seguenti magistrati:

Giorgio GIOVANNINI – Presidente

Roberto POLITI – Consigliere, relatore, estensore

Maria Laura MADDALENA – Primo Referendario

IL PRESIDENTE IL MAGISTRATO ESTENSORE

R.G. n. 574/2009

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

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