Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-02-2011) 18-05-2011, n. 19547 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

ni del PG Dott. SALVI Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il GIP presso il Tribunale di Milano, con ordinanza del 5 luglio 2010, ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di R.P. perchè indagato per il reato di associazione per delinquere ex ad. 416 bis c.p. per avere fatto parte con altri dell’associazione mafiosa denominata "ndrangheta", operante sul territorio di Milano e province limitrofe, e costituita da numerosi "locali", di cui 15 individuate, tra cui quella di Bresso, coordinate da un organo denominato "la Lombardia" in cui hanno rivestito un ruolo di vertice, nel corso del tempo B.C., N.C., Z.P. e un ruolo di partecipe a quella di Bresso, tra gli altri R.P.; associazione finalizzata alla consumazione di vari reati-fine, nel campo delle armi, contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale, nonchè nel campo delle usure, degli stupefacenti ed altro; in particolare, il R.P., per avere fatto parte appunto della "Locale" di Bresso, non con un ruolo di vertice, ma partecipando alla vita dell’associazione, anche attraverso la partecipazione a summit in occasione dei quali si decidevano la concessione di "doti", la riammissione al sodalizio di soggetti in precedenza espulsi, le strategie dell’associazione e dove metteva a disposizione della locale la sua persona per cooperare al raggiungimento degli interessi dell’associazione.

Il Tribunale per il riesame di Milano, con ordinanza del 6 agosto 2010, ha respinto il reclamo proposto dall’indagato e ha confermato il provvedimento impugnato.

Avverso tale decisione ricorre per cassazione il difensore, deducendo una serie di motivi che possono essere sinteticamente riuniti:

a) Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, nullità dell’ordinanza di custodia cautelare in relazione agli artt. 192 e 273 c.p.p. con riferimento all’art. 416 bis c.p., ai gravi indizi di colpevolezza e alla sussistenza delle esigenze cautelari.

Il ricorrente censura la decisione impugnata per omessa ed illogica motivazione, essendo stati ricavati ricavato i gravi indizi da una serie di elementi accusatori in realtà inconsistenti, per altro, senza valutare gli elementi di segno contrario offerti dalla difesa;

in particolare la partecipazione alla c.d. Locale di Bresso del R.P. sarebbe frutto di supposizioni, fondate sulle frequentazioni di parenti e amici, giustificate da occasioni conviviali e da motivi di lavoro e dove comunque non è stata commessa alcuna attività di rilevanza penale; conseguentemente sarebbe illogica l’affermazione relativa alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del R.P. in ordine alla partecipazione all’associazione a delinquere, circostanza che violerebbe al contempo anche l’art. 274 c.p.p. in materia di sussistenza delle esigenze cautelari in ordine ai criteri di scelta delle misure.

Ha chiesto pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO I motivi di ricorso sono infondati e manifestamente infondati secondo quanto di seguito precisato.

Il provvedimento impugnato contiene infatti una serie di valutazioni ancorate a precisi dati fattuali immuni da vizi logici o giuridici.

Osserva il collegio che, in tema di misure cautelari personali, il controllo di legittimità è circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità:

1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;

2) l’assenza di illogicità evidenti, risultanti "prima facie" dal testo del provvedimento impugnato, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine che giustifica l’adozione del provvedimento, (vedi Cass., sez. 4^, 6 luglio 2007, n. 37878).

Invero, in ordine a tutti i motivi il Tribunale ha ampiamente, congruamente e logicamente motivato in ordine alle ragioni, in punto di fatto e di diritto (v. pag. 13 e 14 dell’ordinanza impugnata) in ordine alla individuazione degli elementi necessari per affermare la esistenza dell’associazione a delinquere, per le quali ha ritenuto raggiunti i gravi indizi di colpevolezza, osservando, in ordine all’imputazione ex art. 416 bis c.p., che dagli elementi raccolti nel corso delle indagini era emersa la "riproduzione" in Lombardia della struttura criminale calabrese, denominata: "ndrangheta", organizzata con varie "locali" in Milano e province limitrofe; a tali conclusioni si era pervenuti sulla scorta di articolate indagini, effettuate dall’Arma dei Carabinieri, mediante attività di osservazione ed intercettazione; il Tribunale enumera la serie di osservazioni ed accertamenti relativi all’evoluzione della "ndrangheta" in Lombardia, con il succedersi dei vari responsabili, culminate con la registrazione di una serie di riunioni dettagliatamente riportate nell’ordinanza, a partire dal 15 febbraio 2008, fino alla riunione del 31 ottobre 2009, di Paterno Dugnano, (pag. 7,8 dell’ordinanza);

dalle predette indagini, e segnatamente dalle intercettazioni anche ambientali, erano scaturiti imponenti elementi indicativi delle modalità mafiose dell’organizzazione, dove è stata riscontrata l’esecuzione di rituali riconducibili con certezza a cerimoniali mafiosi sia nei comportamenti che nel contenuto delle conversazioni.

Per quanto riguarda specificamente la posizione del R.P. è stato sottolineato il ruolo avuto nella vita della locale di Bresso e il collegamento con un esponente di spicco dell’associazione criminale, C.V., come è emerso dal contenuto di intercettazioni telefoniche ed ambientali, in cui veniva caldeggiate l’assegnazione di "doti" in suo favore (v. pag. 19 dell’ordinanza impugnata); la sua partecipazione viene dedotta altresì dagli accertati collegamenti con gli esponenti dell’associazione a capo di altre locali (v. p. 20, 21 dell’ordinanza), di cui sono evidente riscontro tra le altre, le conversazioni intercettate del 6 dicembre 2008, del 15 marzo 2009 o quella del 23 novembre 2007.

Il Tribunale compie così una valutazione di puro fatto, in ordine alla sussistenza dei gravi indizi, che appare congruamente motivata, con richiami a specifici rilievi fattuali, priva di illogicità.

Il ricorrente lamenta l’insufficienza di tali elementi indiziari, ma è necessario sottolineare come, in materia di misure cautelari personali, il requisito della gravità degli indizi di colpevolezza non può essere ritenuto insussistente sulla base di una valutazione parcellizzata dei vari dati probatori, dovendosi invece verificare se gli stessi, coordinati e apprezzati globalmente secondo logica coerente, assumano la valenza richiesta dall’art. 273 c.p.p.; ciò in considerazione della natura stessa degli indizi, quali circostanze collegate o collegabili a un determinato fatto che non rivelano, se esaminate singolarmente, un’apprezzabile inerenza al fatto da provare, essendo ciascuno suscettibile di spiegazioni alternative, ma che si dimostrano idonee a dimostrare il fatto se coordinate organicamente. (Cass., sez. 4^, 4 marzo 2008, n. 15198).

Devono ritenersi allo stesso modo infondati i motivi con i quali il ricorrente propone una valutazione alternativa degli elementi probatori, secondo le tesi difensive dell’indagato, poichè in tema di misure cautelari personali, la valutazione del peso probatorio degli indizi è compito riservato al giudice di merito mentre, in sede di legittimità, tale valutazione può essere contestata unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione; devono dunque ritenersi infondate le censure che, pure investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal tribunale del riesame (Cass., sez. 4^, 6 luglio 2007, n. 37878).

Per questo il motivo di ricorso che manchi di evidenziare la "manifesta" illogicità della motivazione deve ritenersi addirittura inammissibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), anche perchè il vizio di "manifesta illogicità" ricorre esclusivamente nel caso in cui l’iter argomentativo seguito dal giudice sia assolutamente carente sul piano logico; conseguentemente, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, non appare possibile opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, ancorchè logica e verosimile, anche perchè l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella "evidente", cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi" senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., sez. 4^, 12 giugno 2008, n. 35318).

I principi suesposti, portano a ritenere infondati, ai limiti dell’inammissibilità, anche i motivi relativi alla ricorrenza delle esigenze cautelari, nonostante la specifica ricostruzione delle massime giurisprudenziali sul punto presente nel ricorso, atteso che in merito il Tribunale ha richiamato la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3 e, contrariamente alle censure mosse dal ricorrente, ha altresì valutato gli elementi acquisiti, quali la partecipazione ad attività criminose del sodalizio (sopra richiamate) per evidenziare l’assenza di elementi utili a contrastare la presunzione legale sopra citata, non essendo sufficienti i semplici dati della sua incensuratezza e dell’esistenza di regolare attività lavorativa (v. p. 29 dell’ordinanza).

Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. l’imputato deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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