Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 20-01-2011) 18-05-2011, n. 19591 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza depositata il 24 dicembre 2006 la Corte d’appello di Reggio Calabria condannò il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento della somma di Euro 3.050,00 in favore di A. C., a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita dal 5 al 6 maggio 1995 in carcere e da tale data fino al 5 giugno successivo in regime di arresti domiciliari, nell’ambito del procedimento penale che l’aveva vista indagata dei reati di associazione per delinquere e ricettazione. La corte d’appello osservò, tra l’altro, che non risultava che l’ A. avesse dato causa alla detenzione per dolo o colpa grave e che la somma liquidata, ottenuta attribuendo Euro 150,00 per il giorno di detenzione in carcere ed Euro 100,00 per ogni giorno di detenzione domiciliare, "seppure bene al di sotto del massimo liquidabile", era comunque conforme a equità e giustizia.

Proposero ricorso per cassazione l’istante ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Questa Corte, con sentenza 18 settembre 2008, accolse entrambi i ricorsi ed annullò con rinvio l’ordinanza impugnata. Per quanto concerne, in particolare, il ricorso del Ministero, la sentenza osservò che la corte d’appello si era limitata "a richiamare la pronuncia assolutoria e, in maniera affetto generica, la circostanza che l’indagata si era solo prestata a svolgere funzioni di prestanome, senza alcuna prerogativa effettiva nella gestione della società da lei simulatamente partecipata, senza considerare che questo era semmai l’oggetto della verifica affidata al giudice della cognizione penale, laddove a lui compe-teva (e compete) accertare l’inesistenza, nel comportamento dell’istante, di profili di colpevole leggerezza, sinergicamente connessi alla adozione del provvedimento restrittivo".

La corte d’appello di Reggio Calabria, in sede di rinvio, con l’ordinanza in epigrafe ha accolto la domanda di riparazione dell’ A., condannando il Ministero a pagare per tale titolo la complessiva somma di Euro 4.500,00, con gli interessi legali dal passaggio in giudicato del provvedimento. In particolare, la corte d’appello ha osservato che la semplice intestazione, sia pure fittizia, di quote della società facenti capo al coniuge non rappresentava elemento che, in assenza di altri fatti o comportamenti direttamente riconducibili all’interessata, potesse di per sè solo fare ritenere che l’ A. avesse dato causa o contribuito a dare causa alla privazione della libertà personale, avvenuta in relazione ad una ben più grave e diversa imputazione, formulata per il delitto di associazione per delinquere finalizzata a fatti di ricettazione.

Il Procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Reggio Calabria propone ricorso per cassazione deducendo motivazione meramente apparente e contraddittoria, che non affronta il problema del dolo o della colpa grave in capo alla richiedente e che non considera i dati emergenti dagli atti. Risulta infatti che l’azienda si servì stabilmente di automezzi provenienti dal mercato clandestino e che la ricorrente aveva svolto il ruolo di prestanome, in favore del marito, colpito da misura di prevenzione antimafia.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze propone a sua volta ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione dell’art. 627 cod. proc. pen. e del principio di diritto enunciato dalla sentenza di annullamento; motivazione mancante e contraddittoria e violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta esistenza del presupposto del non aver concorso con dolo o colpa grave alla custodia cautelare. Osserva che la condotta della intestazione fittizia di quote della società era sinergicamente connessa all’adozione del provvedimento restrittivo nonchè sintomatica di colpevole leggerezza.

2) violazione dell’art. 627 cod. proc. pen. e del principio di diritto enunciato dalla sentenza di annullamento; motivazione mancante e contraddittoria e violazione dell’art. 315 cod. proc. pen. nella quantificazione dell’indennizzo. Lamenta che, almeno sotto questo profilo, non è stata considerata la colpa lieve nella condotta dell’istante.

Il 24.12.2010 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria integrativa.
Motivi della decisione

I ricorsi sono infondati.

Secondo la giurisprudenza, "In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità" (Sez. Un., 26.6.2002, n. 34559, De Benedictis, m. 222263; Sez. 4, 15.3.2007, n. 10987, Marchesi, m.

236508; Sez. 4, 13.12.2005, n. 2895, Mazzei, m. 232884). In particolare, il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare il presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato, mentre resta nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo restando al giudice di legittimità soltanto il compito di verificare la correttezza logica del ragionamento.

Nella specie l’ordinanza impugnata ha appunto fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali è pervenuta, attraverso un ragionamento logico corretto ed esaustivo, esteso a tutti gli elementi acquisiti, ad accertare l’esistenza dei presupposti per l’ottenimento del beneficio ed a negare che l’istante avesse dato o concorso a dar luogo alla emanazione della misura cautelare con dolo o colpa grave, attraverso una condotta denotante eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi.

Entrambi i ricorrenti sostengono, in sostanza, che il comportamento doloso o gravemente colposo della A. sarebbe consistito nell’avere accettato di intestarsi fittiziamente le quote della società appartenenti al marito (società che si serviva stabilmente di automezzi provenienti dal mercato clandestino) pur dovendo essere a conoscenza che questi era stato colpito dalla misura di prevenzione della sorveglianza di pubblica sicurezza e che quindi non poteva continuare in proprio l’attività commerciale; in tal modo avendo tenuto una condotta di connivenza con i coimputati e di inadempimento ai doveri di solidarietà sociale.

Sennonchè, l’ordinanza impugnata ha, con congrua ed adeguata motivazione, osservato che tale condotta avrebbe potuto forse essere valutata in relazione a qualche altra ipotesi di reato ma non in relazione alla ben più grave e diversa imputazione di cui all’art. 416 cod. pen., ossia di associazione per delinquere finalizzata a fatti di ricettazione, per la quale era stata adottata la misura di privazione della libertà personale. In altri termini, la corte d’appello ha accertato che, sulla base degli elementi processuali, non era possibile ritenere che l’ A. avesse posto in essere una qualche condotta particolare e qualificante, diversa ed ulteriore rispetto a quella di avere semplicemente accettato di figurare quale intestataria compiacente delle quote della società che il coniuge aveva trasferito a suo nome. La corte ha quindi congruamente valutato che la semplice intestazione, sia pure fittizia, di quote in realtà facenti capo al coniuge, non rappresentava in alcun modo elemento che, in assenza di qualsiasi altro fatto o comportamento direttamente riconducibile all’interessata, potesse, di per sè solo, fare ritenere che con tale sola condotta l’ A. avesse, con dolo o colpa grave, dato causa, o contribuito a dare causa, alla privazione della libertà personale per lo specifico delitto di associazione per delinquere.

L’ordinanza impugnata non merita censura neppure in relazione all’ammontare della somma liquidata come indennizzo. Va invero ricordato che "In tema di ingiusta detenzione, il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta" (da ultimo, Sez. 4, 25.2.2010, n. 10690, Cammarano, m. 246424). Nella specie la corte d’appello, con congrua ed adeguata motivazione, in considerazione della incensuratezza della richiedente ha fatto correttamente riferimento al criterio aritmetico, arrotondando poi di poco la somma risultante.

I ricorsi devono pertanto rigettati, con conseguente condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento delle spese processuali. Non si deve disporre il rimborso delle spese in favore richiedente, perchè questa non è intervenuta nel presente grado.
P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rigetta i ricorsi e condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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