Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-05-2011) 19-05-2011, n. 19759 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento in epigrafe il Tribunale di Taranto ha rigettato l’appello proposto, ex art. 310 c.p.p., nell’interesse di M.S. avverso l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di revoca della misura della custodia cautelare in carcere disposta nei confronti della M. per l’omicidio di Sc.Sa., commesso il (OMISSIS).

1.1. Il Tribunale ha esposto in premessa i principi e i criteri metodologici cui occorreva, a suo avviso, attenersi.

L’istanza di revoca si basava su elementi nuovi, rispetto a quelli posti a base della misura e del provvedimento del Tribunale del riesame che l’aveva confermata, prodotti dalla difesa; assieme ad essi erano valutabili anche gli elementi nuovi prodotti dall’ufficio del Pubblico ministero, precedenti o successivi che fossero rispetto al provvedimento impugnato. L’autonomia del provvedimento di rigetto della richiesta di revoca della misura rispetto all’ordinanza impositiva e la natura devolutiva del gravame comportavano che il Tribunale non doveva riesaminare la sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura ma era tenuto a stabilire soltanto "se l’ordinanza di rigetto sia immune dalle violazioni di legge denunciate e incensurabile sotto il profilo della completezza e logicità della motivazione, ove siano stati dedotti vizi motivazionali riconducibili ai paradigmi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)", pur essendo tenuto all’osservanza delle disposizioni dell’art. 299 c.p.p., commi 1 e 3, e a provvedere eventualmente anche d’ufficio "pro libertate anche oltre i confini del devoluto".

L’appello tendeva a una rivalutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese da M.M., sulla base, per quanto rileva in questa sede, delle circostanze (riassunte in premessa o comunque evidenziate nel corso della motivazione): che nel corso dell’incidente probatorio aveva nuovamente modificato il suo racconto nei confronti della figlia S. (incorrendo ancora una volta in tali e tante contraddizioni da comportare severe censure sulla verità del suo racconto ad opera dello stesso G.i.p. procedente e, nonostante la trasformazione della chiamata in correità in mera chiamata in reità, la perdurane sua restrizione per concorso in omicidio); che era risultato che in carcere il M. aveva assunto psicofarmaci che avevano inciso sulle sue capacità logiche e mnemoniche (e sulla sua suggestionabilità); che il M. aveva chiesto di essere sentito senza i suoi difensori (cosa che, unitamente al fatto che nel colloquio con il consulente prof. St. era tornato sulla versione esclusivamente autoaccusatoria, confermava la pressione cui era stato sottoposto nel corso degli interrogatori, condotti con domande suggestive); che la relazione in data 17.11.2010 della visita medica su M. del prof. St. dava atto dell’esistenza sulle braccia dell’indagato di cicatrici cutanee compatibili con la versione autoaccusatoria; che il lasso temporale di 7 minuti a disposizione di M.S. – secondo la ricostruzione accolta nella misura custodiale e nel provvedimento di riesame – era incompatibile con la commissione dell’omicidio; che secondo le dichiarazioni rese al difensore da M.V., il padre le aveva detto che M.S. era innocente; che il M. aveva scritto dal carcere alcune lettere alle figlie, S. e V., nelle quali confermava l’innocenza di S.; che nel corso delle dichiarazioni raccolte dalla difesa ex art. 391 bis c.p.p., M. aveva riconosciuto tali missive.

Tuttavia, secondo il Tribunale le novità non solo non scalfivano la prospettazione accusatoria, ma addirittura la rafforzavano, giacchè (riassuntivamente):

– del racconto del M. doveva fornirsi una valutazione unitaria, non già, come sosteneva la difesa, segmentata;

– la nozione di "individualizzazione" era pur sempre "parziale o tendenziale", compatibile con il concetto di indizio sufficiente per l’adozione del provvedimento cautelare;

– l’utilizzazione di "modalità suggestive" nella formulazione di domande alle indagato non è vietata durante le indagini, e tale modo di conduzione dell’interrogatorio s’era reso "talvolta" "necessario" proprio allo scopo di superare la resistenza del dichiarante nell’accusare la figlia;

– era in ogni caso intervenuto l’incidente probatorio del 19.11.2010, nel corso del quale il M., sentito in contraddittorio, aveva ribadito "il nucleo vitale del racconto etero accusatorio";

– "anche la possibilità di una lettura incompatibile con l’assunto accusatorio non implica necessariamente l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza";

– era stato individuato una "percorso logico ben preciso" che aveva portato il M. alle dichiarazioni accusatorie finali, di modo che fra la prima e l’ultima versione del racconto esisteva "evidentemente solo una contraddizione storica";

– alla chiamata in correità non s’era affatto sostituita una chiamata in reità, perchè il M. aveva continuato ad attribuirsi le condotte relative all’occultamento del cadavere della nipote;

– la responsabilità dell’indagata per l’omicidio della cugina non scaturiva per altro soltanto dalle accuse del padre, bensì anche dalla "confessione dell’omicidio" che la stessa aveva fatto alla sua amica P.A. la sera del (OMISSIS);

– anzi, attesa l’attendibilità della P. e l’impossibilità di fornire una spiegazione razionale alternativa delle parole dell’indagata, tale "confessione" aveva "consistenza probatoria autonoma, autosufficiente";

– costituivano riscontro a siffatta confessione extragiudiziale, le dichiarazioni rese da R.I. secondo cui S. sosteneva che il padre, (raccontando di avere molestato prima la vittima e sottoposto ad atti sessuali poi il cadavere), stava "esagerando" per rendere più credibile la sua versione;

– la circostanza che il movente sessuale descritto da M. M. fosse falso era confermata dal fatto che nel corso dell’incidente probatorio il M. aveva ritrattato tali dichiarazioni;

– le denunziate contraddizioni del racconto di M.M. si riferivano ad elementi di contorno e non intaccavano il cardine essenziale ed autosufficiente delle sue dichiarazioni, nè la spiegazione logica dell’evoluzione del suo comportamento processuale;

– non portavano elementi di novità favorevoli alla ricorrente le lettere spedite dal carcere da M.M., posto che restava non credibile che l’uomo avesse accusato la figlia prediletta al solo fine di scagionare altre persone innocenti che al momento non era però neppure sfiorate dalle indagini; la frase "non volevo la morte di Sa." era equivoca; nell’esame effettuato da difensori il M. neppure aveva riconosciuto che le missive corrispondevano al suo pensiero riservandosi di specificare tale circostanza agli inquirenti;

– la richiesta del M. di essere sentito senza la presenza dei suoi difensori poteva plausibilmente spiegarsi con il fatto che egli non gradiva la presenza dell’avvocato De Cristofaro nominatogli dalla figlia V.;

– proprio dalle lettere inviate da V. al padre emergeva d’altra parte la continua pressione psicologica esercitata dai familiari sul M. al fine di scagionare S.;

– le condizioni mentali del M. non risultavano affatto compromesse all’atto dell’interrogatorio di novembre e aveva già da tempo dismesso l’assunzione di psicofarmaci al momento dell’interrogatorio in incidente probatorio;

– le dichiarazioni rese da M.V. in sede di indagini difensive in relazione a quanto le avrebbe confidato il padre, non erano nella sostanza attendibili, trovando spiegazione nel fatto che la ragazza preferiva che fosse il padre, e non la sorella, ad essere accusato;

– le cicatrici sulle braccia del M. erano compatibili, secondo il consulente d’ufficio, professor St., sia con l’esito di eventuali unghiate, sia con l’urto contro tralci di vite tagliati, e costituivano perciò dato neutro;

– l’apparente ritorno del M., in occasione della visita del professor St., alla versione iniziale risultava smentito dalla simulazione dell’azione di strangolamento effettuata in presenza del consulente, che portava ad esiti del tutto diversi da quelli riscontrabili sul reperto anatomico;

– non poteva attribuirsi valore di ritrattazione inficiante le dichiarazioni accusatorie ad ogni successiva divergenza del racconto del M., atteso che "la ritrattazione non costituisce elemento in grado di escludere l’attendibilità intrinseca del chiamante in correità allorchè con congrua motivazione venga dato conto del mutamento della posizione del dichiarante ovvero risulti l’assoluta inattendibilità delle controdichiarazioni", e che, anzi, "una ritrattazione inattendibile ben può assumere il valore di riscontro";

– gli elementi probatori nuovi portati dal pubblico ministero nell’udienza d’appello;

– costituiti dagli scontrini rilasciati dai negozi nei quali con il padre S. aveva comperato generi alimentari prima di pranzo e dai riferimenti temporali precisi forniti dal teste Pe.

A., in base ai quali poteva ritenersi che costui aveva visto la vittima uscire di casa non oltre le ore 13.55 – consentivano di superare le obiezioni difensive circa la ristrettezza del tempo a disposizione dell’indagata per compiere l’omicidio, la commissione dello stesso potendo essere anticipata di almeno 20 – 30 minuti rispetto al momento in cui S. aveva raggiunto l’amica Sp.;

– dalla retrodatazione dell’ora dell’omicidio discendeva altresì che i messaggi trasmessi da S. al cellulare di Sa. dalle 14,20 in poi, così come lo squillo di risposta che sarebbe partito dal cellulare della cugina alle 14,28,26, costituivano in realtà la scaltra predisposizione di un alibi falso e smentivano le dichiarazioni della madre ( Se.Co.) relativamente alla presenza della figlia in casa, alle 14,20 e al momento dell’omicidio, nella camera da letto;

– tale circostanza, unitamente alle dichiarazioni rilasciate da D. e M.F. – sul tentativo posto in essere dalla Se. di fargli dire di un furgone bianco sospetto e non dell’auto Opel, come la sua, visita in strada – dimostravano altresì l’opera di depistaggio posta in essere, assieme a S., anche da sua madre, evidentemente tuttavia non punibile;

– il movente della gelosia di S. nei confronti della cugina, dichiarato da M.M. nel corso dell’incidente probatorio, trovava riscontro nelle dichiarazioni di C.A. e di R. I., nonchè nelle annotazioni del diario di Sa., dalle quali inequivocabilmente emergeva il forte trasporto per il ragazzo e la gelosia-risentimento nei confronti della cugina.

Quanto alle esigenze cautelari, ne rendevano evidente la sussistenza:

l’attività mistificatoria posta in essere dall’indagata e dai suoi familiari più stretti, da un lato; il pericolo di recidiva con riferimento quanto meno a gravi delitti a componente violenta, tenuto conto del mutamento radicale sopravvenuto del quadro indiziario, dall’altro.

2. L’indagata ha proposto ricorso con unico atto a mezzo dei difensori, avvocati Emilia Velletri e Franco Coppi, che chiedono l’annullamento della ordinanza impugnata.

2.1. Premessa la vicenda processuale e riepilogate le ragioni dell’appello, i difensori denunziano con il primo motivo violazione della legge processuale (in riferimento all’art. 273 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3) e vizi della motivazione in ordine alla sussistenza e permanenza di gravi indizi di colpevolezza.

2.1.1. Deducono anzitutto che la valutazione della attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del M. era per molti aspetti sorretta da censurabili considerazioni in diritto; intrinsecamente illogica e contraddittoria; affatto carente nelle risposte ai rilievi difensivi.

In particolare, l’affermazione secondo cui il nucleo "vitale", o sostanziale, del racconto etero accusatorio del M. era rimasto fermo, era priva di logica e in netto contrasto con i dati processuali.

Il M. aveva reso nel tempo almeno sei (se non sette) differenti versioni sull’autore del delitto nelle ultime soltanto accusando la figlia S.. Dapprima (il 6.10.2010, alla Polizia) aveva detto di averlo commesso da solo; in una successione versione (nell’interrogatorio del 15.10.2010, chiuso alle 11,35) aveva detto che S. era sopraggiunta subito dopo. Aveva poi detto (nell’interrogatorio del 15.10.2010, ripreso alle ore 14,26) che era stata proprio S. a trascinare Sa. nel garage per chiarire le cose che quella le aveva detto sulle avances del padre e che lui aveva perso la testa e aveva strozzato la ragazza con una corda mentre S., che aveva gridato al padre di smetterla, fuggiva.

Il 25.10.2005 aveva nuovamente raccontato al medico legale Prof. St. la versione iniziale. Nell’interrogatorio del 5.11.2010 aveva quindi affermato che l’omicidio era stato commesso da S. mentre lui dormiva in casa. Nel corso dell’incidente probatorio del 19.11.2010 aveva narrato che la morte di Sa. era stata provocata da un incidente occorso mentre le due cugine giocavano al cavalluccio in garage. Nel frattempo, nelle lettere scritte dal carcere diceva di sapere che S. era innocente, che lui non voleva la morte di Sa., che si scusava con S. per averla accusata ingiustamente, che era stato costretto a rendere false dichiarazioni;

che voleva solo evitare che venissero coinvolti la moglie e il fratello; in sede di esame raccolto dal difensore, alla presenza del Pubblico ministero, aveva quindi ammesso di avere scritto quelle lettere e – non avendo risposto alla domanda se il contenuto delle lettere corrispondeva al suo pensiero perchè gli era stato ricordato che con decreto ex art. 391 quinquies gli era stato inibito di parlare dei fatti – aveva affermato che era disposto a chiarire, se interrogato, al Pubblico ministero (ma un nuovo suo interrogatorio, pur sollecitato dalla difesa, non era stato espletato).

Tutti i racconti erano inoltre accompagnati da indicazioni assolutamente contraddittorie, anche su aspetti per nulla marginali.

Bastava ricordare che M.M. aveva individuato l’arma del delitto prima in una corda, poi in una corda con nodi, poi – su evidente sollecitazione del magistrato inquirente – in una cintura (mai trovata); aveva dapprima spontaneamente confessato il vilipendio (mediante atti sessuali) del cadavere, aveva poi parlato di un tentativo non riuscito di atti sessuali e, nel corso del medesimo interrogatorio, nuovamente di fatto consumato, aveva infine ritrattato. Anche su particolari rilevanti ai fini della esatta individuazione temporale dell’omicidio, quali momento e luogo in cui il telefono di Sa. avrebbe squillato, le dichiarazioni di M.M. avevano subito continue variazioni.

L’attribuzione di valore risolutivo alle dichiarazioni rese in incidente probatorio, non era corretta nè dal punto di vista processuale nè sotto l’aspetto logico. La circostanza che le dichiarazioni rese durante l’incidente probatorio potevano essere utilizzabili in dibattimento non incideva sul fatto che andassero valutate anche esse alla luce dei criteri dell’art. 192 c.p.p., comma 3. La medesima circostanza non bastava a togliere rilievo al dato che anche in sede di incidente probatorio M.M. aveva continuato all’evidenza a contraddirsi e a mostrarsi reticente su molte circostanze decisive, tanto da essere ammonito dal G.i.p..

Il fatto che nei suoi confronti era stata mantenuta la custodia cautelare in carcere per l’accusa di omicidio volontario, obiettivamente dimostrava, inoltre, che alle sue dichiarazioni, secondo cui a commettere l’omicidio era stata esclusivamente S., non si era prestata fede.

Errata e non conferente, a fronte delle doglianze difensive in ordine ai discutibili metodi di interrogatorio cui era stato sottoposto il M., era l’osservazione secondo cui "nessuna norma vieta l’utilizzo di questa tecnica nel corso delle indagini". Tale risposta non risolvendo il problema posto, che era quello della genuinità e attendibilità delle risposte in detto modo ottenute.

Altrettanto incongruente, e sbagliata, era l’osservazione secondo cui la confessione e la chiamata di correo ben possono attuarsi in progressione e ispessirsi nel tempo e che nel caso di specie era stato individuato un percorso logico ben preciso che aveva condotto il M. alle dichiarazioni etero-accusatorie da ultimo rese.

La chiamata di correo del M. non si era arricchita nel tempo, ma aveva costituito il ribaltamento, e la ritrattazione, della precedente confessione. Il giudizio sulla "logicità" dei percorsi narrativi del M. non scaturiva da una analisi obiettiva, esterna, dell’evoluzione del narrato, ma rappresentava mera adesione acritica alle spiegazioni fornite dallo stesso M..

E tanto era stato fatto accettando proprio la parte più incredibile del suo racconto, allorchè in poche battute aveva raccontato la sua decisione di assumersi tutta la responsabilità dell’omicidio (senza chiedere spiegazioni, senza tentare di soccorrere la vittima). Dal punto di vista obiettivo, al contrario, esistevano vistose contraddizioni logiche tra il dichiarato intento di proteggere la figlia e le dichiarazioni rese nonchè i comportamenti, iniziali e successivi, adottati dal padre (il ricorso riporta dettagliatamente le deduzioni articolate nei motivi d’appello evidenziando che ad esse non era stata data risposta). L’asserita logicità del percorso narrativo del M., non spiegava poi in alcun modo le ragioni per le quali lo stesso, al perito prima e con le lettere poi, fosse tornato indietro, alla sua primitiva confessione.

Arbitraria era quindi, a proposito delle lesioni rinvenute sulle braccia del M. e compatibili con le tracce di unghiature lasciate dalla vittima nel tentativo di difendersi, la fideistica adesione alla spiegazione offerta dall’imputato, relative a ferite riportate tagliando piante.

Il contenuto delle missive scritte dal padre alla figliola e delle dichiarazioni rese in sede di indagini difensive (controllate e limitate dall’autorità giudiziaria, che neppure aveva dato corso alle più che legittime richieste di nuovo interrogatorio sollecitato dai difensori della ricorrente e dallo stesso M.) era stato svalutato sulla base di considerazioni non corrette. La stessa ordinanza impugnata riconosceva difatti che potevano nutrirsi sospetti di favoreggiamento a carico della moglie del ricorrente, ed era francamente troppo ipotizzare che l’imputato potesse rendersi conto dell’esistenza dell’esimente dell’art. 384 c.p.. Era illogica, nel contesto, l’osservazione che la frase "io non volevo la morte di Sa." fosse compatibile con l’uccisione ad opera di S..

L’affermazione che, in fondo, il M. intendeva soltanto giustificarsi agli occhi dei familiari era incongrua. L’attribuzione al M. di comportamenti incoerenti sull’illazione di un’interferenza del suo nuovo avvocato, nominatogli dall’altra figlia, V., e che era poi l’unico di fatto confermato, era del tutto arbitraria. Paradossale, e frutto di travisamento dei dati processuali, appariva l’osservazione che le lettere del M. erano frutto delle "pressioni" psicologiche che gli erano state fatte da V.. Le lettere sia del padre che di V. erano seguite – secondo il racconto di V. raccolto dai difensori, che gli inquirenti non avevano inteso approfondire, omettendo di sentirla – al colloquio con il padre e alle ammissioni da lui fatte in tale occasione. Le affermazioni di M.M. nelle sue lettere erano al contrario del tutto coerenti con il racconto fatto al consulente prof. St. e trovavano obiettivo conforto nelle singolari e sicuramente suggestive modalità di conduzione dell’interrogatorio su soggetto che a dir poco era – in base alla stessa teoria accolta dal Tribunale – facilmente manipolabile.

2.1.2. Gli affermati riscontri alle dichiarazioni del M. erano in realtà inesistenti.

L’attribuzione del valore di confessione extragiudiziale alle dichiarazioni di M.S. all’amica P.A. in momento di sconforto, non trova riscontro nell’obiettivo tenore delle parole che, a dire dell’amica, S. avrebbe pronunciato:

"l’hanno incastrato… mio padre ha confessato …", (e in risposta all’osservazione che se il padre aveva confessato voleva dire che qualcosa aveva fatto) "dopo tante ore che mi hanno messo sotto torchio avrei detto anch’io che ho ucciso Sa. e dove l’ho messa, ma non l’ho detto", "e A., dopo tante ore dici la verità e basta", "dopo tante ore viene quella cosa di dire la verità … di finire la … così finisce tutto … ma io non l’ho fatto". Parole dalle quali al più poteva trarsi che S. avesse il sospetto, o la consapevolezza, che il padre fosse colpevole.

Affatto arbitraria era quindi l’operazione attraverso la quale era stato retrodatato l’orario dell’omicidio per raggiungere il risultato: di respingere, da un lato, le obiezioni difensive sull’impossibilità che S. avesse partecipato al delitto nel breve tempo (circa 7 minuti) trascorso da quando era uscita di casa a quando aveva raggiunto l’amica Sp.Ma.; di attribuire, dall’altro, a S. comportamenti mistificatori, consistiti nella far finta di mandare messaggi a Sa., per procurarsi un alibi (che in quanto fallito costituiva elemento di riscontro a suo carico).

Nel dare assoluto rilievo alle successive precisazioni fornite da testi già sentiti – senza neppure interrogarsi sulla difformità tra le nuove e le precedenti dichiarazioni – il Tribunale aveva completamente omesso di spiegare perchè siffatte precisazioni, emerse a distanza di tempo, non soltanto dovevano prevalere sulle indicazioni acquisite nell’immediatezza da altri testimoni e da quelli stessi poi risentiti, ma dovevano addirittura prevalere sulle dichiarazioni – sicuramente insospettabili – della madre della vittima, la quale aveva fin da subito riferito che la figlia era uscita attorno alle 14,30 e dopo aver ricevuto un messaggio telefonico da parte di S., confermate dalla cameriera.

La sequenza temporale dei messaggi intercorsi tra le amiche dimostrava per altro inequivocabilmente che messaggi e chiamate di S. a Sa. erano successive a quelli inviati a S. dalla Sp. e quindi i messaggi non risultavano affatto evidentemente finalizzati alla ricostruzione di un alibi. D’altronde se S. avesse voluto davvero simulare una risposta di Sa., avrebbe molto più verosimilmente trasmesso un altro messaggio di risposta, anzichè un semplice squillo.

Anche relazione a tale aspetto, in buona sostanza, il Tribunale aveva adottato il censurabile metodo di scegliere, tra più ipotesi, sempre e soltanto quella più sfavorevole all’indagata, senza neppure porla ad effettivo confronto con le altre.

Assolutamente arbitraria era, nel contesto, l’individuazione del movente nella gelosia per il ragazzo I. e, con esso, l’invenzione di una lite degenerata in omicidio, in pieno contrasto con gli elementi acquisiti che deponevano nel senso dell’entusiastica adesione di Sa. alla gita al mare organizzata dalla cugina e dall’amica.

2.2. Con il secondo motivo denunziano violazione dell’art. 274 c.p.p. e vizi della motivazione in ordine alle esigenze cautelari, osservando che il pericolo di inquinamento probatorio faceva riferimento alla condotta di inquinamento e costruzione di un falso alibi asseritamente tenuta da S., in realtà smentita dalle acquisizioni probatorie, e che il pericolo di reiterazione del reato era sostanzialmente privo di giustificazione.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare fondato, l’ordinanza impugnata risultando affetta da vizi metodologici e di principio che hanno all’evidenza inciso sulla completezza e sulla tenuta della motivazione.

2. In premessa è da dire che non può seguirsi la tesi del Procuratore generale presso questa Corte, allorchè ha sostenuto che, essendo la richiesta di revoca della misura cautelare per insufficienza del quadro indiziario ammissibile nei limiti in cui evidenziava l’esistenza di nuovi elementi in contrasto con l’ipotesi accusatoria, la valutazione andava limitata alla significatività (in sè) dei nova, da escludere nel caso in esame giacchè la ulteriore versione di M.M. nel corso dell’incidente probatorio ( Sa. era morta accidentalmente mentre giocava con S. a "cavalluccio", essendo sfuggite le "briglie") era "risibile"; mentre lettere, graffi e ulteriori aspetti evidenziati dalla difesa non erano risolutivi nè univoci.

Il tema portato all’attenzione dei giudici di merito prima, oggetto di ricorso poi, concerne l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie di M.M. e la valenza degli elementi cosiddetti di riscontro indispensabili, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, per conferire attendibilità estrinseca, anche in materia cautelare, alle dichiarazioni dello stesso (dichiarante su fatto proprio e su fatti connessi).

I nuovi elementi, incidendo su tale tema, impongono dunque, se non pretestuosi o apparenti, la completa rivisitazione delle considerazioni che avevano sostenuto il giudizio d’attendibilità e il riesame dei dati preesistenti alla luce di quelli che li contraddicono, ulteriormente acquisiti.

La tesi non accolta potrebbe per altro essere ricondotta alla idea che la controprova o la prova contraria possano o debbano essere valutate a prescindere o separatamente dalla prova principale, cosa che non ha alcuna base logica nè giuridica.

3. Ciò posto, il primo errore in cui è incorso il Tribunale è quello di essersi attribuito il compito di mero controllo sulla logicità del provvedimento impugnato, addirittura evocando l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), quasi fosse un giudice di legittimità, e di avere sostenuto quindi che "anche la possibilità di una lettura incompatibile con l’assunto accusatorio non implica necessariamente l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza".

A mente dell’art. 299 c.p.p., comma 1, la cui applicazione era invocata dalla ricorrente, le misure coercitive sono immediatamente revocate "quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273".

Compito del giudice del merito era, perciò, analizzare anche alla luce dei fatti processuali sopravvenuti gli elementi di prova (e la circostanza che essi in materia cautelare si chiamino indizi è, a questi fini, mera variante terminologica), verificarne il significato e la univocità; offrire completa giustificazione del perchè, a suo avviso, i fatti s’attagliavano alla fattispecie astratta e giustificavano le conclusioni raggiunte circa la fattispecie concreta, ovvero, per la materia, circa la perdurante sussistenza di gravi indizi di responsabilità per l’omicidio volontario.

Quanto ai canoni cui doveva conformarsi tale giudizio, occorre rimarcare, attesa l’erronea irrilevanza attribuita nel provvedimento impugnato all’ipotesi del dubbio, che, prima ancora degli interventi legislativi che hanno portato mutamenti lessicali nell’art. 273 c.p.p., comma 1 o hanno introdotto nel comma 1 bis di detto articolo richiamando, per quanto qui interessa, l’art. 192 c.p.p., comma 3, a far ritenere indispensabile che la custodia cautelare sia assistita comunque da una ragionevole probabilità di condanna, e ad imporre dunque che gli indizi sui quali deve fondarsi la misura cautelare personale abbiano i requisiti indispensabili ad assicurare la loro tenuta nel giudizio sul merito dell’accusa, già bastavano le ragioni traibili dagli artt. 13 e 27 Cost. in ordine alla natura servente della "carcerazione preventiva", e la regola di valutazione che direttamente discende dall’art. 314 c.p.p., secondo cui sarà comunque ingiusta la privazione della libertà personale cui segua una sentenza di proscioglimento. Il giudizio prognostico in tal senso – ovviamente esteso alle regole per le ipotesi di incertezza e contraddittorietà considerate dal codice di rito all’art. 530, comma 2 e all’art. 533, comma 1, prima parte – è dunque indispensabile, pur dovendo essere effettuato non nell’ottica della ricerca di una certezza di responsabilità già raggiunta, ma nella prospettiva della tenuta del quadro indiziario alla luce di possibili successive acquisizioni e all’esito del contraddittorio.

I gravi indizi null’altro sono, d’altro canto, che "una prova allo stato degli atti", valutata dal giudice allorchè la formazione del materiale probatorio è di norma ancora in itinere. E’ così soltanto l’aspetto di una possibile evoluzione "dinamica", non la differente intrinseca capacità dimostrativa, a contraddistinguere la valutazione della prova in sede cautelare rispetto alla valutazione nel giudizio di cognizione (tra molte: Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, Lo Cricchio). Con l’ovvia conseguenza che quanto più avanti è andata l’attività di verifica della prova, tanto più la sua valutazione dovrà essere aderente alla probabilità di fondare sui risultati raggiunti una sentenza di condanna.

Ne discende che, contrariamente a quanto afferma il provvedimento impugnato, la possibilità di una lettura degli elementi probatori "incompatibile con l’assunto accusatorio" non legittima l’emissione nè, quando detta situazione sopravvenga, il mantenimento della misura cautelare, giacchè non consente di ritenere sussistenti gravi indizi di colpevolezza, sufficienti a fondare una ragionevole probabilità di condanna. A maggior ragione non la legittimava poi nel caso in esame se, come sostiene il Procuratore generale, la verifica della più importante prova d’accusa effettuata nel contraddittorio anticipato dell’incidente probatorio, aveva prodotto risultati risibili quanto a credibilità del dichiarante.

4. Non corretti sono quindi i riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte in tema di valutazione della chiamata in correità, via via approfonditasi, di valutazione frazionata e di nucleo essenziale del racconto, in base ai quali il provvedimento impugnato ha ritenuto di mantenere ferma la valutazione di attendibilità delle accuse rivolte da M.M. alla figlia, senza neppure avvertire l’esigenza di spiegare in cosa consistesse quel nucleo "vitale" cui intendeva riferirsi, e quando e come si fosse palesato, nè, ovviamente, in qual modo potesse considerarsi saldamente acquisito nonostante i continui ripensamenti manifestati.

Nel corso degli interrogatori, e per quanto risulta in questa sede, M.M. ha dapprima accusato esclusivamente sè stesso dell’omicidio, poi ha narrato di un contributo della figlia, poi ha accusato esclusivamente la figlia, quindi ha tentato di avvalorare una versione accidentale. Qui non si è in presenza di una chiamata in correità che rimane ferma nel suo nucleo essenziale (abbiamo commesso l’omicidio insieme e in questo modo), arricchendosi di dettagli su aspetti collaterali. Si tratta invece di versioni tra di loro incompatibili e sovente contrapposte, ciascuna delle quali porta seco una totale o parziale, ma sempre significativa, quota di ritrattazione e, con essa, un grave segnale di inattendibilità. 5. Ora, il provvedimento impugnato ha di fatto scelto di privilegiare le dichiarazioni etero-accusatorie sulla base, essenzialmente, dei seguenti rilievi (più dettagliatamente esposti nella parte in fatto): non v’era incongruenza radicale tra le varie successive versioni etero-accusatorie; l’evoluzione del racconto seguiva un percorso "logico" ben preciso, che partiva dal tentativo del M. di proteggere la figliola e terminava con il naufragio di tale tentativo e l’ammissione della colpevolezza di questa; le domande suggestive che erano state rivolte al M. erano state necessitate dall’esigenza di vincere le sue resistenze; i successivi tentennamenti o mutamenti di versione erano frutto delle pressioni ricevute dai familiari; lettere e difformi dichiarazioni al consulente non erano univoche e probanti; v’erano riscontri estremamente significativi, uno avente addirittura valenza autonoma.

Sul primo aspetto (sostanziale corrispondenza del nucleo essenziale delle accuse) s’è già detto al punto che precede. Può solo aggiungersi che l’osservazione si propone come auto-evidente e non ha dato perciò alcuna reale risposta alle osservazioni difensive.

Sul secondo aspetto, colgono nel segno le censure del ricorso quando osservano che la "logica" evocata era quella "interna" al racconto di M.M.: corrispondeva in altri termini alle giustificazioni da lui stesse fornite, ma non risultava in alcun modo verificata sulla scorta dell’analisi dei comportamenti effettivamente tenuti, largamente additati dalla difesa (nell’atto d’appello puntualmente riportato in ricorso) come assolutamente non coerenti con tale spiegazione. Sul piano della scienza logica è d’altronde da escludere che la verità di un’affermazione possa essere razionalmente affermata in base alla definizione che chi parla offre di se stesso e delle sue dichiarazioni, non potendo il procedimento di verificazione (o di falsificazione) che essere compiuto dall’esterno, pena una confusione di livelli semantici logicamente insostenibile.

E’ perciò anche contraddittoria l’osservazione del Tribunale secondo cui la ritrattazione delle dichiarazioni etero-accusatorie non bastava a rendere queste implausibili, adottando invece un criterio opposto laddove ha sostenuto che era del tutto credibile la ritrattazione delle dichiarazioni auto-accusatorie a vantaggio di quelle etero-accusatorie.

Elusiva (risolvendosi in una non risposta) è anche la replica alle osservazioni difensive sulle domande suggestive rivolte al M..

Il problema con il quale il giudice di merito doveva misurarsi non concerneva il dato normativo della mancata previsione di un divieto in tal senso durante le indagini, bensì quello della spontaneità e genuinità delle risposte. E il problema era di sicura rilevanza atteso il contesto delle multiformi dichiarazioni di M. M., nè poteva essere pretermesso una volta che – contraddittoriamente -, con riferimento alle deduzioni difensive riferite alle successive "ritrattazioni" (manifestate per lettera o nei comportamenti riportati dal consulente) o alle ragioni sottese al divieto ex art. 391 quinquies di rilasciare dichiarazioni sui fatti, si riconosceva una dose di suggestionabilità del dichiarante.

Non può sopperire alla mancanza di adeguata valutazione il mero riferimento al fatto che le ultime dichiarazioni erano state rese in incidente probatorio. Non soltanto perchè, come dice la difesa, neppure tale forma di assunzione della prova dichiarativa esonera dalla sua valutazione ai sensi dell’art. 192 c.p.p., quanto e soprattutto perchè nessuna menzione fa il provvedimento impugnato della effettiva linearità, coerenza e intrinseca credibilità di tali dichiarazioni (neppure riassunte), limitandosi a definirle "sostanzialmente conformi" alle precedenti e senza offrire base fattuale a tale asseverazione (puntualmente contestata in ricorso mediante l’allegazione dei richiami del Giudice per le indagini preliminari a non mentire e la osservazione che M.M. continuava ad essere detenuto per omicidio volontario).

Quanto alla valutazione della valenza delle lettere o dei comportamenti che secondo la difesa manifestavano una ritrattazione delle dichiarazioni etero-accusatorie, il vizio sta non tanto nel non averle considerate univoche quanto – e al di là della plausibilità delle osservazioni sul difetto di univocità – nell’avere adottato un criterio errato, perchè invertito a discapito dell’imputata, a proposito di ricadute del dubbio sul significato della prova.

Se ne è già parlato in linea di principio al punto 3, Deve solo ribadirsi che in materia di libertà personale se due ipotesi sono egualmente sostenibili, se due significati possono parimenti essere attribuiti ad un dato, deve privilegiarsi quello più favorevole all’imputato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto.

6. Ricapitolando, la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni etero-accusatorie di M.M. parte da premesse errate in diritto ed è carente e contraddittoria nelle conclusioni raggiunte.

Occorre dunque valutare se gli ulteriori elementi valorizzati dal Tribunale sono comunque idonei a sostenere l’ipotesi accusatoria, come in certi passi il provvedimento impugnato sembra ritenere.

A tale fine è necessario premettere (dal momento che sul punto i vari provvedimenti dei giudici del merito paiono seguire criteri oscillanti) che, come è noto, S.U. n. 1653 del 21/10/1992, dep. del 1993, Marino, ha voluto portare ordine logico nella valutazione della chiamata di correo, individuando un metodo a tre tempi: credibilità del dichiarante, attendibilità intrinseca della dichiarazione, riscontri esterni.

Già Sez. 6, n. 11599 del 13/03/2007, Pelaggi, ricorda tuttavia che neppure la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e quella della attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni possono procedere secondo partimenti stagni, atteso che per ogni prova dichiarativa l’uno aspetto influenza necessariamente l’altro e la valutazione non può che essere unitaria e relativa, secondo i generali criteri epistemologici, non indicando l’art. 192 c.p.p., comma 3, sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria.

In altri termini, come è stato osservato, il metodo indicato dalle Sezioni Unite non è una regala iuris, in senso stretto, indicando piuttosto, ma con non minore rigore, una scansione logica. Il primo passaggio è assolutamente necessario perchè serve, non ad affermare l’assolutamente improbabile esistenza di un soggetto credibile in sè o, al contrario, di un soggetto che non può che mentire, bensì che nella situazione in esame, alla luce delle conoscenze acquisite, si è in presenza di un soggetto con una significativa propensione a dire il vero o il falso.

La motivazione del provvedimento impugnato dimostra d’altro canto come qualsiasi assunto sulla attendibilità "intrinseca" è in definitiva sostenibile se il discorso viene sviluppato e mantenuto entro i limiti, autoreferenziali, di analisi interne alla personalità del narrante e ad uno specifico narrato, ovverosia interne all’oggetto da definire, che hanno il difetto di manifestarsi come asserzioni riflessive che implicano la propria verità. Anche il criterio della credibilità soggettiva richiede invece una meta- verifica sul dichiarante e sulle dichiarazioni, e impone la loro contestualizzazione.

Il risultato della valutazione sulla credibilità soggettiva è dunque un giudizio sulla affidabilità del dichiarante che non può che essere verificato anche alla luce degli altri elementi che confermano o contraddicono la veridicità delle sue dichiarazioni con riguardo alla situazione processuale nella quale esse vengono in rilievo. Ha tuttavia una funzione primaria, nella quale sta la ragione fondamentale della scansione tripartita e che consiste nel determinare il livello del rigore che occorre impiegare per il controllo del narrato, secondo lo schema del procedimento di verificazione-falsificazione.

Sicchè, se una considerazione unitaria di tutti gli aspetti fattuali acquisiti, pur logicamente scomponibili, è in ogni caso e alla fine imposta, quando si ha motivo di ritenere o addirittura si accerta che un determinato dichiarante ha la propensione a mentire, quello che davvero si impone è non soltanto l’accurata verifica esterna sia del comportamento tenuto dal dichiarante sia delle sue dichiarazioni in ogni loro parte, ma anche: da un lato la massima cautela nella valorizzazione dell’apporto probatorio fornito; dall’altro il massimo scrupolo nella confutazione delle obiezioni difensive sulla tenuta del racconto, nei suoi singoli passaggi, nel suo sviluppo, nei dati salienti, nel suo complesso. Dovendo in ogni caso valere, ed è bene ribadirlo, la regola che il dubbio ragionevole, non smentibile, non può risolversi con l’affermazione che non vi è prova che il dichiarante abbia mentito, ma milita a favore dell’accusato.

7. Orbene, gli aspetti concorrenti considerati essenziali dal Tribunale a carico della ricorrente possono ridursi a tre: le dichiarazioni della sua amica P., definite addirittura di "consistenza probatoria autonoma, autosufficiente" e considerate alla stregua di confessione extragiudiziale; la retrodatazione dell’orario del delitto e la dimostrazione perciò che la ragazza aveva tentato di precostituirsi un alibi, che, in quanto frutto di falsificazione militava a suo carico; il movente, rivelatosi falso quello sessuale di M.M. e comprovato quello di gelosia di S..

7.1. Iniziando dall’elemento considerato più importante, la cosiddetta confessione stragiudiziale, è anzitutto da ricordare che essa consisteva in uno sfogo della indagata con una amica e si risolve in una sequenza di frasi riferite da questa, obiettivamente disarticolate, sintetizzabili, secondo quanto risulta dai provvedimenti cautelari, nelle espressioni "dopo tante ore dici la verità e basta … dopo tante ore viene quella cosa di dire la verità … di finire la … così finisce tutto … ma io non l’ho fatto … non sono una stupida". Siffatte parole, alle quali si attribuisce valore confessorio, non sono state nè registrate nè immediatamente trascritte, ma risultano soltanto, invece, riportate in terza persona dalla teste, l’amica con la quale S. si sarebbe lasciata andare ad una esplosione di dolore allorchè aveva appreso della prima confessione del padre. Al giudice era imposta dunque una triplice particolare valutazione: sulla interpretazione delle frasi riferite secondo tutti i sensi possibili; sulla verifica in ordine alla possibilità di manipolazioni involontarie nel processo di comprensione – ricordo – ripetizione; sulla assenza di suggestioni esterne e sulla credibilità della deposizione. Nel caso in esame manca finanche il primo controllo. Mentre l’univocità di significato attribuito alle parole che S. avrebbe pronunziato, non risulta neppure dal dato testuale, che non ha affatto i connotati della auto-videnza ed appare anzi obiettivamente ambiguo. Nè il Tribunale si è premurato di confutare le osservazioni difensive, pur plausibili, sul significato di quelle frasi.

La circostanza alla quale il Tribunale annette poi valore di riscontro della interpretazione in chiave confessoria di siffatto sfogo, costituita dal fatto che la ragazza con altro amico avrebbe detto che il padre stava esagerando nell’accusarsi di atti sessuali su cadavere per rendere più credibile la sua confessione, è stata quindi anch’essa, giustamente, additata dalla difesa come del tutto equivoca. E anche sul punto manca qualsivoglia spiegazione della scelta di non considerare altre pur logiche spiegazioni.

L’enfatica attribuzione del valore di confessione extragiudiziale alle parole riportate dalla testimone P. non è dunque giustificata e non è sorretta da adeguata base fattuale. Il dato è anzi equivoco e non essendo stato chiarito in modo tranquillante nè la effettiva portata nè la genesi delle parole attribuite alla ricorrente, non è neppure sufficiente a giustificare la soluzione in senso positivo dei dubbi sulla attendibilità delle accuse mosse dal padre all’indagata.

7.2. La ricostruzione dei movimenti della vittima in prossimità dell’ora della sua scomparsa e, conseguentemente, la retrodatazione dell’ora dell’omicidio, in guisa da sconfiggere le stringenti deduzioni difensive sulla impossibilità che l’azione omicidiaria attribuita alla ricorrente potesse essersi svolta nel ristrettissimo lasso temporale all’inizio individuato, riposa principalmente sulla deposizione del teste Pe. che, già interrogato, era stato risentito e aveva fornito precisazioni sul momento in cui avrebbe visto passare la vittima che usciva di casa (il Pe. stava dipingendo la facciata esterna della casa; alle ore 13,45 aveva visto l’orologio e s’era reso conto che doveva rientrare in casa perchè la moglie doveva andare a lavoro alle 14; appena lui era rientrato la moglie era uscita e risultava che alle 13,55 era effettivamente passata dall’amica con cui doveva andare al lavoro; nel frattempo il Pe. era salito a vedere il figlio che dormiva, dopo "pochi minuti" era sceso nuovamente in strada "per pulire il marciapiede, raccogliere gli attrezzi e lasciare tutto in ordine", in "questo momento" aveva visto passare Sa.; secondo il Tribunale Sa. era perciò passata certamente non oltre le 13,55). Il Tribunale richiama anche gli orari degli scontrini rilasciati dai negozi in cui la vittima si sarebbe recata prima di pranzo; ma questi nulla dicono di preciso, però, sul tempo che la ragazza avrebbe poi impiegato effettivamente, una volta tornata a casa, per cambiarsi, cucinare per sè, mangiare ed infine uscire.

La serrata ricostruzione temporale operata sulla base delle indicazioni del teste Pe. (e dell’incondizionata adesione alla opinione che l’avvistamento della ragazza fosse avvenuto non appena il teste era uscito di casa, prima che avesse il tempo di compiere alcuno dei lavori di pulizia e sistemazione per i quali era uscito, e che i "pochi minuti" di cui quello aveva parlato non fossero davvero più di cinque) si pone però, obiettivamente, in contrasto con le dichiarazioni che, secondo lo stesso provvedimento impugnato, e i precedenti assunti in fase cautelare, aveva reso la madre della vittima, la quale aveva collocato l’uscita di casa di Sa. attorno alle 14,30 e aveva riferito che la stessa aveva detto di avere appena ricevuto un messaggio di S., che la chiamava per andare al mare; dichiarazioni confermate da quelle della cameriera.

Nè può bastare a ritenere spiegato il contrasto, la circostanza che il provvedimento impugnato abbia, tra parentesi, chiosato che la madre non aveva però udito squillare il cellulare: la donna aveva parlato di un messaggio e non di una telefonata; non risulta che prima delle 14,24 S. avesse inviato altro messaggio a Sa.; non è spiegato per quale ragione Sa. avrebbe dovuto mentire alla madre dicendole che aveva ricevuto un messaggio da S. se ciò non fosse avvenuto.

Il provvedimento impugnato assegna dunque significato risolutivo ad un elemento temporale perchè si pone in linea con l’ipotesi accusatoria, ma omette di giustificare adeguatamente l’abbandono della divergente ricostruzione fondata su elementi di rilievo all’apparenza certamente non minore.

7.3. L’elemento costituito dall’assunta falsità dell’alibi rappresentato dal messaggio inviato alle 14,24, al successivo e allo squillo di risposta di Sa., quando stando alla tesi accolta, Sa. era stata già uccisa, segue le sorti delle considerazioni sulla retrodatazione dell’ora dell’omicidio e resta, con esse, non congruamente giustificato.

7.4. Rimane il movente. Quanto a quello della gelosia per un ragazzo, attribuito alla ricorrente, è evidente la sua obiettiva esilità a fronte del delitto di omicidio commesso. Il solo movente, per il carattere di ambiguità che è ad esso intrinseco, non è comunque mai di per sè assimilabile ad un grave elemento indiziario, e in tanto può fungere da aspetto rafforzativo della quadro probatorio in quanto gli altri elementi siano precisi e convergano a un univoco significato (S.U., n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti).

Quanto alla asserita falsità del movente sessuale attribuito al padre, tale giudizio riposa sulla opinione in tal senso manifestata dalla ragazza ad un amico e sulla ritrattazione di M.M..

Della ambiguità di significato della prima si è già detto; può aggiungersi che a seconda del contesto detta opinione potrebbe addirittura validamente essere spiegata con atteggiamenti d’incredulità favorevoli alla tesi della innocenza della ragazza.

E parimenti s’è detto come della piena attendibilità della ritrattazione delle dichiarazioni auto-accusatorie del M., il Tribunale non abbia fornito giustificazione congrua.

8. Per tutti i dati esaminati in relazione ai vari aspetti, principali e di contorno, il difetto è dunque nella sostanza il medesimo già rilevato: la scelta d’acchito dell’opzione interpretativa sfavorevole all’imputata; la totale assenza di considerazione della possibilità di letture divergenti e, nello specifico, di adeguate risposte alle obiezioni difensive; l’adesione al postulato, già stigmatizzato, che pur non potendosi escludere la plausibilità della versione difensiva, il dato andava accolto nella versione accusatoria e la misura andava in base ad essa mantenuta.

9. Conclusivamente, il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio al Tribunale di Taranto perchè proceda a nuovo esame attenendosi ai principi enunciati in punto di: rivalutazione del materiale indiziario nell’ottica di una ragionevole probabilità di colpevolezza e di condanna; regola di giudizio a favore dell’imputato in caso di dubbio; necessità di adeguata confutazione delle obiezioni difensive che prospettano tesi plausibili.

Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà della ricorrente, la cancelleria provvedere agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Taranto.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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