Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 20-04-2011) 20-05-2011, n. 19985 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 11 maggio 2010, la Corte d’Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Bari, emessa a seguito di giudizio abbreviato il 13 giugno 2009, con la quale l’imputato era stato condannato, per i reati di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, art. 337 c.p., della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9, comma 2, con la recidiva specifica, reiterata, infraquinquennale e con il riconoscimento, per il primo reato, dell’equivalenza dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, con la recidiva stessa.

Avverso tale decisione l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata e, in particolare, lamentando: 1) la manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione quanto alla valutazione della prova, perchè la Corte d’appello non avrebbe preso in considerazione una diversa possibile spiegazione dei fatti; 2) l’erronea applicazione della L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2, sul rilievo che la violazione di tale disposizione non potrebbe essere considerata penalmente sanzionata, in quanto non configura a carico del soggetto sottoposto a misure di prevenzione alcuno specifico obbligo; 3) l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale quanto al mancato riconoscimento della prevalenza dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sulla recidiva contestata; 4) la carenza e la manifesta illogicità della motivazione circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche; 5) l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla quantificazione della pena, nonchè la manifesta contraddittorietà e illogicità della motivazione sul punto.
Motivi della decisione

1. – Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

1.1. – Quanto al primo motivo di impugnazione, va rilevato che la motivazione della sentenza d’appello circa la penale responsabilità dell’imputato appare logicamente corretta e sufficientemente circostanziata, perchè offre un quadro completo ed esauriente di tutti gli elementi di prova raccolti e, segnatamente, di quanto direttamente accertato dai carabinieri all’atto dell’arresto. Dalla motivazione in esame risulta, in particolare, che: a) l’imputato, che era inizialmente in contatto con gli occupanti di un’auto, ha tentato di allontanarsi alla guida di un ciclomotore per sfuggire all’arresto e si è disfatto di un involucro contenente banconote e sostanza stupefacente; b) la compresenza di stupefacente e banconote induce ad escludere che l’imputato fosse acquirente e non venditore dello stupefacente stesso.

A fronte di una siffatta motivazione, le censure del ricorrente si risolvono, nella sostanza, nella richiesta di una reinterpretazione del quadro probatorio, che si concretizza in un riesame del merito della sentenza impugnata, precluso in sede di legittimità. Deve, infatti, farsi richiamo alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa dell’art. 606, c.p.p. comma 1, lett. e), al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, tra le pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p. dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46: Sez. 6, 29 marzo 2006, n. 10951; Sez. 6, 20 aprile 2006, n. 14054; Sez. 3, 19 marzo 2009, n. 12110; Sez. 1, 24 novembre 2010, n. 45578; Sez. 3, n. 8096 del 2011).

Ne consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

1.2. – Il secondo motivo di ricorso – per cui la violazione della L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2, non potrebbe essere considerata penalmente sanzionata, in quanto non configura a carico del soggetto sottoposto a misure di prevenzione alcuno specifico obbligo – è del pari infondato.

Va premesso che la L. n. 1423 del 1956, art. 9 come oggi vigente dopo le modifiche apportate con il D.L. n. 144 del 2005, art. 14 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 155 del 2005, dispone nel comma 1 che il "contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno"; nel secondo comma aggiunge che se "l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza". Deve essere richiamata, sul punto, la sentenza della Corte costituzionale n. 282 del 2010. Si tratta di una pronuncia interpretativa di rigetto, con la quale si evidenzia – per quanto qui interessa – che: a) la sanzione prevista dalla norma in questione non è eccessiva, concernendo soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perchè ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee; b) le prescrizioni (di cui all’art. 5 della stessa Legge) delle quali il soggetto è destinatario mirano a garantire una tutela preventiva, anche allo scopo di consentire l’esercizio di adeguati controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza; c) in particolare, la prescrizione di "rispettare le leggi" non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale (Cfr. anche Cass. pen., Sez. 1, 14 ottobre 2010, n. 40819, che specifica che tale reato è configurabile anche nel caso di commissione di un illecito amministrativo).

Se ne desume, per il caso in esame, che – come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello – il reato di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2, è configurabile in ogni ipotesi in cui il prevenuto commetta altri reati, ponendosi in concorso formale con essi (Sez. 1, 15 gennaio 2009, n. 4893; Sez. 1, 9 giugno 2010, n. 25122).

Ne consegue l’infondatezza del secondo motivo di ricorso.

1.3. – Gli ultimi tre motivi di gravame possono essere esaminati congiuntamente, essendo tutti riferiti al trattamento sanzionatorio.

La motivazione della sentenza risulta sul punto pienamente congrua ed esente da vizi logici, perchè evidenzia, in base ad una pluralità di elementi convergenti, che la pena irrogata dal Tribunale è adeguata, senza che possano essere riconosciute le attenuanti generiche o la prevalenza dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. In particolare la Corte d’appello, afferma che l’imputato ha una spiccata pericolosità e propensione a delinquere desumibile: dalla sua sottoposizione alla sorveglianza speciale, dai numerosi gravi e specifici precedenti penali, dalla sua insensibilità alla funzione rieducatrice derivante dalle pene espiate e dalle sospensioni condizionali godute.

Anche tali motivi devono, pertanto, essere disattesi.

2. – Ne consegue il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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