Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 19-04-2011) 20-05-2011, n. 20030 Motivazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 21 settembre 2010 la Corte d’Appello di Roma, 2A sezione penale, in parziale riforma della sentenza del Gup del Tribunale in sede appellata da V.A. e P. S., assolveva gli stessi dal reato di estorsione tentata sub B) perchè il fatto non sussiste e la P. dal concorso nel reato di usura sub A) per non aver commesso il fatto; determinava la pena per i residui reati ascritti a V. in tre anni due mesi di reclusione e undicimila Euro di multa; condannava V. alle spese in favore della parte civile; confermava nel resto la sentenza impugnata con la quale V. era stato dichiarato colpevole dei delitti di usura in danno di T.L. (capo A) e in danno di C.I. (capo C) nonchè di tentata estorsione in danno di quest’ultimo (capo D).. Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso l’imputato, a mezzo del difensore, che ne ha chiesto l’annullamento per evidente contraddittorietà della motivazione in ordine alle argomentazioni formulate per confermare la penale responsabilità in ordine al delitto di usura di cui al capo C) per l’agnosticismo giuridico dei Giudici di merito di fronte al dato difensivo, acclarato da indagini ad hoc, dell’esistenza di un rapporto di lavoro tra le parti, da cui derivava il credito vantato dall’imputato, rapporto di lavoro del quale la sentenza impugnata ammette la possibilità, tenuto conto di una frase pronunciata da V. e riportata in sentenza, lasciando quindi spazio all’ipotesi che quei "16.000" di cui alla frase citata potessero essere davvero il frutto di prestazioni scaturite da un reale rapporto di lavoro esistente tra le parti, sicchè non si spiega come mai la Corte rimanga poi ferma nel ritenere che i Euro 2.000 mensili pretesi ed ottenuti dal V. fossero da collegare al credito prestato e non a quello da lavoro.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato, perchè al fine di criticare la sentenza impugnata estrapola dal contesto motivazionale un passaggio argomentativo proprio della sentenza di primo grado, riportato dalla Corte territoriale nella parte espositiva del provvedimento. L’ipotizzata contraddittorietà della motivazione (che da una parte avrebbe escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro per poi ritenere tale credito legittimo da parte dell’imputato nei confronti del presunto datore di lavoro e comunque affermare la natura usuraria della pretesa corresponsione del dovuto maggiorata da interessi di natura usuraria) non sussiste, perchè i giudici dell’appello hanno con chiarezza negato l’attendibilità delle dichiarazioni rese in sede di indagini difensive da D. M. e M.I. e per converso hanno attribuito piena attendibilità a quelle della persona offesa perchè avvalorate dal contenuto delle conversazioni oggetto di intercettazione, in particolare quella del 30 luglio 2009, dalla quale si è desunta la natura sostanzialmente confessoria della stessa sull’entità del prestito di Euro 25.000 e sulla natura di interessi dei Euro 2000 mensili consegnati per otto mesi, per complessivi Euro 16.000.

Il ricorso per questo profilo si limita a proporre una lettura alternativa del significato probatorio di tale conversazione e quindi a pretendere in questa sede una ulteriore, non consentita, delibazione di merito.

L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostenere il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.

Esula infatti dai poteri della Corte di cassazione quello della "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice del merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30.4/2.7.97 n. 6402, ric. Dessimone e altri; Cass. S.U. 24.9-10.12.2003 n. 47289, ric. Petrella).

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere in conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali e della somma, che in ragione dei profili di colpa rinvenibili nei rilevati motivi di inammissibilità, si stima equo liquidare in Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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