Cons. Stato Sez. V, Sent., 23-05-2011, n. 3083 Regolamento delle spese condanna del soccombente

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

gimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso notificato il 6 e 9 dicembre 2010, e depositato il successivo 23 dicembre, la U.I.L.S. – Unione imprenditori lavoratori socialisti (in prosieguo U.I.L.S.) – ha proposto, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., domanda di revocazione della decisone di questa sezione n. 8367 del 18 dicembre 2009.

2. La decisione in oggetto ha respinto l’appello avverso la sentenza del T.a.r. del Lazio, sez. II bis, n. 2310 del 2009 che, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile l’impugnativa proposta dalla U.I.L.S. contro il provvedimento di esclusione della propria lista dalle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Roma (tenutesi in data 13, 14 e 27 aprile 2008), dovuto alla produzione di un numero insufficiente di validi certificati elettorali dei presentatori della lista medesima (essendo il numero minimo richiesto dalla legge pari a 1.000).

2.1. La decisione n. 8367 ha esaustivamente ricostruito il quadro fattuale correlato alla vicenda contenziosa, riportando puntualmente il contenuto del verbale di consegna dei certificati elettorali e del provvedimento di esclusione (pagine 3 e 4 della decisione); in particolare ha individuato:

a) il numero esatto dei certificati elettorali prodotti a corredo della presentazione della lista (pari a 1037);

b) il numero dei certificati considerati, per varie cause, invalidi (pari a 40);

c) il numero dei certificati giudicati validi dall’ufficio elettorale (pari a 997).

3. Si sono costituiti in giudizio per resistere al ricorso il Ministero dell’interno e la Provincia di Roma.

4. La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 17 maggio 2011, previa indicazione alle parti, ex art. 73, co. 3, c.p.a, della possibile applicazione della norma sancita dall’art. 26, co. 2, c.p.a.

5. Il ricorso per revocazione è manifestamente inammissibile.

5.1. In primo luogo deve mettersi in risalto che il paventato travisamento di fatto, costitutivo dell’abbaglio dei sensi, cade su una serie di circostanze che hanno costituito punti controversi su cui la sezione si è espressamente pronunciata, e si traduce, in realtà, in una diversa (asseritamente erronea) valutazione delle risultanze probatorie a suo tempo acquisite al thema decidendum.

Tanto contrasta con la previsione normativa sancita dall’art. 395 n. 4) c.p.c. (cfr. ex plurimis, Cons. St., sez. V, 29 marzo 2011, n. 1910; Cons. giust. amm., 12 agosto 2010, n. 1108; Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2009, n. 1829; ad. plen., 11 giugno 2001, n. 3).

5.2. In secondo luogo è superata per tabulas la tesi che la decisione impugnata (al pari della determinazione dell’ufficio elettorale e della sentenza di primo grado), sia incorsa in una contraddizione logica dovuta ad una travisata lettura del verbale di consegna dei certificati elettorali dei sostenitori della lista.

L’assunto di fondo da cui muove la parte ricorrente è che dal verbale in questione (del 18 marzo 2008), nonché dal provvedimento di esclusione in pari data, risulterebbe la produzione, da parte del delegato di lista, di un numero complessivo di certificati elettorali oscillante fra 1046 e 1064, numero dal quale partire per effettuare le eventuali detrazioni dei certificati invalidi.

Tale assunto è smentito dal tenore testuale sia del verbale di consegna redatto dal segretario dell’ufficio elettorale, che del provvedimento di esclusione (erroneamente datato dal ricorrente, a pagina 11 rigo 29 del gravame, al 19 marzo 2008 anziché al 18 marzo 2008), dai quali risulta che:

a) il numero complessivo dei certificati effettivamente presentati è stato pari a 1.037, di cui 27 racchiusi in un certificato collettivo (giudicato invalido);

b) da tale numero sono stati scomputati ulteriori 13 certificati individuali considerati invalidi in quanto riferibili ad altrettanti candidati della lista e non a semplici sostenitori – elettori.

Che sia questo l’esatto numero complessivo dei certificati elettorali depositati a suo tempo risulta anche dal contenuto della modulistica predisposta dall’amministrazione in relazione alla presentazione dei gruppi di candidati; nell’apposito modulo, nella parte in cui si riportano gli Allegati all’elenco dei candidati del gruppo, sub lett. a) è scritto: "Numero…. Certificati, dei quali numero…collettivi, comprovanti l’iscrizione dei presentatori nelle liste elettorali di Comuni della provincia"; dal ché si evince con certezza la correttezza dell’operato dell’ufficio elettorale che ha scomputato dal numero complessivo dei certificati depositati (pari a 1037), prima quelli risultati irregolari contenuti nel certificato collettivo (pari a 27), e successivamente i 13 certificati individuali.

5.3. Quanto alle doglianze che si appuntano sulla errata valutazione della irregolarità del certificato collettivo, sulla sufficienza della autenticazione dei 27 sottoscrittori da parte del comune di Pecile, sulla correttezza dell’uso del fax per la trasmissione del certificato collettivo da parte del medesimo comune (pagine 10 – 11 del ricorso), è sufficiente osservare che si tratta della inammissibile riproposizione di censure tutte già esaminate e disattese nei due precedenti gradi di giudizio.

6. In conclusione la revocazione deve essere dichiarata inammissibile.

7. Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo.

8. La pronuncia di inammissibilità della revocazione si fonda su ragioni manifeste e su consolidati indirizzi giurisprudenziali e interviene dopo che nei due gradi fisiologici del giudizio, in cui si articola il processo amministrativo, tutte le domande e le doglianze proposte dalla parte ricorrente sono state esaminate compiutamente.

8.1. L’art. 26, co. 2, c.p.a. stabilisce che "Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati".

La relazione illustrativa al c.p.a. esplicita che "per quanto attiene alle spese del giudizio si è operato il richiamo delle pertinenti disposizioni del codice di procedura civile; inoltre è stato previsto che il giudice possa condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento…..di una somma di denaro… quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati" (p. 21).

E’ evidente, pertanto, che tale disposizione costituisce ipotesi speciale rispetto all’archetipo divisato dall’art. 96, co. 3, c.p.c. (introdotto dalla l. n. 69 del 2009); quest’ultima norma, infatti, non tipizza i presupposti applicativi della condanna officiosa della parte soccombente al pagamento della somma equitativamente determinata.

8.2. La norma sancita dall’art. 96, co. 3 risulta indeterminata nei suoi presupposti potendo essere comminata in ogni caso di condanna del soccombente alle spese processuali (ma questa criticità è invece assente nell’art. 26, co. 2 cit., che anzi consente la condanna solo in presenza di due ben individuate circostanze); generica nei criteri di liquidazione che potrebbero ritenersi disancorati da ogni parametro di riferimento; equivoca in ordine alla natura dello strumento; derogatoria rispetto al principio della domanda.

Lo scopo immediato della norma è quello di approntare una soddisfazione in denaro alla parte risultata vincitrice in un processo civile; indirettamente si coglie l’ulteriore intento della legge di arginare il proliferare di "cause superflue" che appesantiscono oggettivamente gli uffici giudiziari ostacolando la realizzazione del "giusto processo" attraverso il rispetto del valore (costituzionale ed internazionale) della ragionevole durata del processo.

La previsione del pagamento della somma in esame:

a) non riguarda le spese di lite (quantificate con la condanna alle spese secondo la logica propria delle disposizioni sancite dagli artt. 91 e 92 c.p.c.);

b) non riguarda la responsabilità da lite temeraria (tipizzata dai commi 1 e 2 dell’art. 96 c.p.c.);

c) non riguarda la pretesa sostanziale (sulla quale statuisce il contenuto dispositivo della sentenza).

d) non è configurabile quale sanzione pubblica atteso che:

I) il gettito non è devoluto all’erario (arg. ex artt. 123, co. 1, c.p.a.; 15, disp. att. c.p.a.; 246 bis, codice dei contratti pubblici, introdotto dall’art. 4, co. 2, lett. ii), d.l. 13 maggio 2011, n. 70);

II) non sono indicati i limiti o i criteri oggettivi di liquidazione; sotto tale angolazione è evidente la differenza che si coglie, a titolo esemplificativo e confinando l’analisi al solo ambito del processo amministrativo, con le autentiche sanzioni previste dagli artt. 18, co. 7, 123, co. 1, c.p.a., 246 bis, codice dei contratti pubblici (tale ultima norma è particolarmente significativa perché ancora il potere officioso di condanna del giudice amministrativo ai medesimi presupposti stabiliti dall’art. 26, co. 2, c.p.a., ovvero "… ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati").

8.3. A questo punto conviene, sia pur sinteticamente, individuare la natura giuridica della misura pecuniaria in esame, non tanto per ragioni teoriche, quanto per le ricadute pratiche in ordine all’individuazione della disciplina cui soggiace per gli aspetti diversi da quelli direttamente presi in considerazioni dal comma 3: si pensi all’applicabilità o meno del t.u. sulle spese di giustizia, ovvero al problema della cumulabilità di tale somma con eventuali sanzioni, pubbliche o private irrogabili dal giudice in occasione del processo, ovvero con il risarcimento del danno per lite temeraria liquidato ai sensi dei primi due commi del medesimo articolo.

Scartata la natura di sanzione pubblica, tale somma, secondo la più attenta dottrina, può essere qualificata:

a) come un indennizzo per il "danno lecito da processo", cioè il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza;

b) come una forma speciale di responsabilità aggravata derogatoria del regime generale sancito dall’art. 96, co. 1 e 2, c.p.c. (sotto il limitato profilo della mancanza della domanda di parte e della prova specifica del danno subito), ma pur sempre sussumibile nel genus della responsabilità civile da processo e dunque configurabile solo in presenza di tutti gli altri elementi della fattispecie (temerarietà della lite, esistenza del danno nell’an, nesso di causalità fra condotta illecita processuale e danno);

c) come una pena privata inflitta officiosamente dal giudice per reprimere l’abuso dello strumento del processo.

La tesi sub c) non appare condivisibile in quanto il carattere officioso della inflizione della pena privata non appare conforme alle caratteristiche generali dell’istituto che postula normalmente la richiesta della parte interessata al giudice (come espressamente stabilito, ad es., dall’art. 114, co. 4, lett. c), c.p.a. che prevede, sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 614 bis c.p.c., una astreinte processuale consistente in una sanzione pecuniaria per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato (lo stesso è a dire per molte altre ipotesi di pene private previste dal nostro ordinamento, si pensi, a titolo di esempio, all’art. 70 disp. att. c.c. in materia di violazioni dei regolamenti condominiali; all’art. 12 della legge sulla stampa, agli artt. 63 e 83 della legge sui marchi e brevetti).

Inoltre non sembra che la norma in esame, per la sua collocazione sistematica, la genesi storica ed il tenore testuale, abbia inteso introdurre una clausola generale repressiva dell’abuso del processo.

Sotto tale angolazione appare evidente la differenza con la norma sancita dall’ultimo comma dell’art. 385 c.p.c. (introdotto dalla l. n. 40 del 2006 e successivamente abrogato dalla l. n. 69 del 2009), che era stata intesa dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità come foriera di una "pena privata" tesa a sanzionare la condotta necessariamente maliziosa della parte che, in violazione del dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost., abbia illecitamente abusato dello strumento processuale del ricorso in cassazione (cfr. Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 435/ord.; Cass., sez. un., 11 dicembre 2007, n. 25831).

Anche la tesi sub b) non appare percorribile.

La mera collocazione della disposizione all’interno dell’art. 96 c.p.c. non significa che si possa prescindere dalle conseguenze derivanti dall’interpretazione letterale e teleologica della norma; il contenuto del precetto si colloca in contrapposizione esplicita alle ipotesi divisate dai primi due commi del medesimo articolo, prescinde da qualsivoglia riferimento a fattispecie di danno, sfugge al principio della domanda che innerva il sistema della responsabilità civile.

La tesi sub a), invece, oltre a non collidere con la ratio e la lettera della norma, si inserisce armonicamente nel sistema costruito dall’ordinamento nel suo complesso per rendere effettivo il principio di ragionevole durata del processo; tale norma si affianca alle misure previste dalla c.d. l. Pinto (n. 89 del 2001), chiamando la parte che abbia dato corso (o abbia resistito) ad (in) un processo oggettivamente ritenuto ingiustificabile a indennizzare la controparte che è stata costretta a subirlo.

8.4. La liquidazione della somma è affidata all’equità, qui intesa nel tradizionale significato di criterio di valutazione giudiziario correttivo o integrativo, teso al contemperamento, nella logica del caso concreto, dei contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale.

Nel silenzio della legge sul punto concernente l’individuazione dei parametri cui agganciare la determinazione equitativa, possono considerarsi ammissibili una molteplicità di criteri alcuni dei quali ispirati alla logica dei danni punitivi di matrice anglosassone che ben si prestano ad assicurare, pur nell’alveo della responsabilità civile, la (indiretta) funzione di deterrenza sanzionatoria del proliferare dei processi, sganciati come sono dalla dimostrazione anche presuntiva di un pregiudizio da compensare (il riferimento è al rimedio del disgorgement che consente all’interessato di colpire l’autore della condotta contra ius attraverso la retroversione degli utili conseguiti). Tale impostazione ha trovato ingresso nella più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353 relativa a fattispecie di liquidazione del risarcimento del danno all’immagine ammesso in una logica non meramente compensativa del pregiudizio subito); in questo caso gli eventuali utili conseguiti a cagione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo e della sua durata, ben potrebbero costituire parametro di riferimento, accanto ovviamente, a più tradizionali criteri, come quello del valore della controversia ovvero al riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla parte vincitrice (in tal senso è la prassi forense civile formatasi in sede di prima applicazione dell’art. 96, co. 3, c.pc.; in termini Cons. St., sez. V, 24 gennaio 2011, n. 241/ord.).

Nella specie il collegio, in assenza di elementi fattuali che consentano l’applicazione di parametri diversi, non ha motivo di discostarsi dal criterio della "percentuale sulle spese di lite" e, conseguentemente, stima equo condannare la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 26, co. 2, c.p.a., ad una somma pari a quella liquidata a titolo di refusione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe:

a) dichiara inammissibile la domanda di revocazione e per l’effetto conferma la decisione impugnata;

b) condanna la U.I.L.S. – Unione Imprenditori Lavoratori Socialisti – a rifondere in favore del Ministero dell’interno e della Provincia di Roma le spese, gli onorari e le competenze del presente giudizio che liquida in complessivi euro 5.000/00 oltre accessori come per legge (12,50% a titolo rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A.), in favore di ciascuna parte;

c) condanna la U.I.L.S. – Unione Imprenditori Lavoratori Socialisti – a pagare, ai sensi dell’art. 26, co. 2, c.p.a., in favore del Ministero dell’interno e della Provincia di Roma, la somma di euro 5.000/00 per ciascuna parte.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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