Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-04-2011) 20-05-2011, n. 20081

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Roma ha ribadito la responsabilità, affermata dal Gup di quel Tribunale, in sede di rito abbreviato, di P.M., I.G., C.A. e T.R., imputati di numerosi delitti – riguardanti ipotesi di peculato e falso, abuso di ufficio, elencati in tre distinte richieste di rinvio a giudizio, depositate dal PM di quel Tribunale nelle date 11 luglio 2006, 1 e 20 dicembre 2006, ad eccezione di alcune fattispecie, per le quali o è stata pronunziata assoluzione (la pronuncia riguarda il solo P. per il delitto sub a della richiesta del 1.12.2006 ed gli altri tre imputati per il delitto sub a della richiesta di rinvio a giudizio del 20.12.2006) o è stata dichiarata l’estinzione per prescrizione (tale declaratoria riguarda P., I. e C. per i delitti sub e, f, j dell’atto di rinvio del 1^ dicembre); la corte ha, per l’effetto, rideterminato le pene, confermando le statuizioni civili.

Il processo è originato da una indagine sugli imprenditori I. G. e C.A., operanti nel settore della sanità pubblica in Roma, da cui era emerso il coinvolgimento di numerosi funzionari e dirigenti pubblici, fra cui il P., e di un commercialista, il T., che operava professionalmente in favore degli imprenditori; nello specifico, i coniugi I. – C. erano titolari di numerose società fra cui, per quel che qui interessa, la srl MEDI.COM e srl IMS, la ITK e la Società delle Provincie del Dott. Ta.; essi, mediante una serie di atti falsi e ponendo in atto un vero e proprio sistema corruttivo, erano riusciti ad ottenere:

1) che le due società IKT e la c d DELLE PROVINCIE, nonostante la mancanza dei requisiti di legge, fossero trasferite dalla ASL Roma A alla ASL Roma B ed ad essere "accreditate" presso il servizio nazionale, ossia ammesse ad usufruire dei rimborsi per le prestazioni erogate. (capi A: art. 416 c.p., B e D: art. 479 c.p.; E: art. 323 c.p., F, G: art. 321 in relazione all’art. 319 c.p.).

2) Inoltre, sarebbe stato garantito loro, sempre in assenza dei requisiti, il rimborso in misura massima, delle prestazioni, grazie anche al P., allora responsabile del Dipartimento per l’accreditamento della ASL RM/A, (reati sub H: art. 314 c.p. e G:

falso).

3) Gli imputati imprenditori ed il loro commercialista avrebbero, con la complicità di funzionari infedeli, ottenuto la liquidazione di fatture indebite (peculato e falso da L a FF);

4) e perciò avrebbero pagato in più riprese il P. (capo HH) ed ad altri dirigenti coinvolti in attività a loro favore (Capi da II a NN) Gli indicati reati sono enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio del 1.12.2006.

Secondo filone di indagine, da cui era scaturita la richiesta dell’11 luglio 2006 riguardava i rimborsi percepiti dalle società IMS e MEDICOM per prestazioni mai in realtà effettuate, accreditati mediante la formazione di falsi mandati di pagamento e la falsificazioni di atti interni alla Asl per giustificare il loro operato, (capi da A a LL).

Infine, da una terza indagine era originata la richiesta di rinvio a giudizio del 20 dicembre 2006, riguardante numerose truffe consumate e tentate ai danni della Regione Lazio; con la complicità di esponenti politici e di dirigenti, le società degli imputati erano state ammesse ai corsi di formazione professionale, finanziati dal competente assessorato; le società, non aventi i requisiti, dopo aver intascato i finanziamenti iniziali, grazie all’operato infedele dei soggetti collegati alla PA, rinunziavano agli stessi, ma trattenevano gli anticipi, così ottenendo un illecito lucro; il patto corruttivo prevedeva la divisione a metà degli indebiti introiti (capi da B (corruzione) a R (truffe aggravate e falsi).

La Corte d’Appello, rigettate le eccezioni processuali, osservava che le ipotesi accusatorie, ad eccezione delle ritenute assoluzioni, erano fondate sia su dati documentali sia sulle stesse dichiarazioni etero-auto accusatorie della I. e del C., nonchè da ammissioni provenienti da altri coimputati, che avevano seguito un diverso iter processuale.

Riteneva pertanto corretta la ricostruzione delle vicende operata dal primo giudice, e ne condivideva la qualificazione giudica dei fatti.

Ricorrono i condannati e deducono:

P.M.: con il primo motivo si duole sub lett. e) dell’art. 606 c.p.p. della mancata indicazione dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato ascrittogli al capo HH dell’epigrafe.

Fa notare che secondo la prospettazione accusatoria egli avrebbe ricevuto L. 50 milioni dalla I. per compiere atti contrari al proprio ufficio, ma che non sarebbe specificato in che si sarebbe manifestata la sua condotta e che comunque si farebbe riferimento, in sentenza, al suo ruolo nella vicenda relativa alla accreditamento della ITK, avvenuta nel 2000, in epoca, perciò, anteriore a quanto addebitato nel capo di imputazione, che si riferisce ad attività da compiere negli anni 2001 e 2003; sottolineata la mancata risposta alle censure di inattendibilità della I., peraltro non riscontrata da altri testi o coimputati, il difensore mette in luce che il P. sia stato assolto dalla imputazione associativa, sicchè la dazione di denaro, avvenuta dopo la commissione dell’atto contrario al proprio ufficio, non è giustificata nemmeno dal vincolo societario.

Le medesime considerazioni critiche riguardano i capi D ed H (falso e peculato) attribuitegli, incongruamente, collegando le enigmatiche dichiarazioni della I. ad una nota del P. dell’8.2.2000, ossia al compimento di una attività anteriore alle asserite dazioni di denaro e prima che costui conoscesse la imprenditrice.

Con un terzo motivo, il P. si duole della affermata responsabilità per i falsi (capi I, EE, FF, LL) del tutto immotivata e fondata esclusivamente sul ritrovamento in suo possesso di timbri della ASL; inoltre è stato omesso l’esame del motivo relativo alla sussistenza della aggravante, trattandosi sempre di falso semplice;

Con il quarto motivo, si insiste per il proscioglimento ex art. 129 c.p. per il capo E ( art. 323 c.p.p.).

I.G.A. e C.A.:

I due condannati hanno proposto ricorso congiunto e si sono doluti:

1. della invalida instaurazione in primo grado del contraddittorio:

in concreto hanno reiterato la censura già proposta in sede di gravame e risolta dal giudice di appello, sotto il profilo che la loro assenza alla udienza preliminare aveva origine da una valida rinunzia a presenziare, espressa con riferimento alla prima udienza e con effetto per tutte le successive. Diversamente da quanto opinato dal giudice del gravame, la difesa, invocate le sentenze di questa Corte a Sez. unite Arena del 2006 e Michaeler del 2007, esclude che gli imputati abbia manifestato la volontà di non presenziare indistintamente a tutte le udienze e lamenta anche che non si sia tenuto conto dei motivi di appello aggiunti depositati dal nuovo difensore.

2. della incompatibilità del giudicante, che non avrebbe potuto procedere avendo pronunziato sentenza ex art. 444 c.p.p. nei confronti di un coimputato.

La Corte non aveva tenuto conto che il difensore non aveva sollecitato la astensione del giudice, ma lo aveva ricusato, sia pure usando termini non corretti in diritto; ci si duole della mancata rinnovazione dell’istruzione chiesta per produrre le sentenze di patteggiamento;

3. dell’invalido accesso al rito abbreviato, malgrado la mancanza di procura speciale.

I ricorrenti insistono nel rilevare che la corte distrettuale ha escluso la denunciata falsità delle procure depositate in prime cure, nonostante fossero stati offerti atti a riprova dell’assunto;

anzi, ha considerato falsa la documentazione portata a corredo della eccezione, così privilegiando immotivatamente una versione, senza escludere il dubbio sulla ipotesi alternativa prospettata dalla difesa.

4. della incapacità della I. a stare in giudizio, in quanto ricoverata presso l’OPG di Castiglione dello Stiviere nel corso dell’indagine a causa delle sue condizioni mentali, su cui i giudici di merito non avevano indagato.

Nel merito:

5. in relazione ai reati indicati nella richiesta di rinvio a giudizio dell’11 luglio 2006, i ricorrenti deducono:

a) illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla qualificazione dei reati come peculato, anzichè truffa aggravata.

La Corte aveva ritenuto che il meccanismo posto in essere, ossia creazione mediante false fatture, d’accordo con i funzionari delle ASL, di liquidazioni di ingenti somme di denaro alle due società Medicom ed IMS, in realtà non operanti, (le attività erano invece erogate dalla IKT appartenente al gruppo) costituisse un artifizio finalizzato ad occultare la condotta illecita, che integrava il paradigma ex art. 314 c.p., poichè il denaro era nella disponibilità del pu prima delle emissione delle false fatture;

i ricorrenti rilevano che se era necessario creare una apparenza di realtà, legittimante il pagamento, attraverso i falsi, era evidente che solo con il detto artifizio era possibile realizzare il reato, altrimenti impossibile.

Con il ricorso, inoltre, è sottolineato che la condotta di falso ha funzione illogicamente duplice, poichè nel peculato serve a nasconderlo e nel falso serve ad appropriarsi del denaro.

Con la ulteriore conseguenza che la stessa condotta verrebbe punita due volte.

Inoltre, non sarebbe specificato quale sia il loro apporto concorsuale nel falso; è rilevato ancora che la aggravante ex art. 61 c.p., n. 9 non può concorrere con il delitto di cui all’art. 479 c.p.;

b) in relazione ai reati indicati nella richiesta di rinvio a giudizio del 1^ dicembre 2006 sono messe in evidenza le seguenti pecche del ragionamento tenuto dalla Corte:

la motivazione non da conto del programma associativo, ma al più individua un accordo inquadrabile nel concorso di persone;

anche per i delitti di peculato e falso indicati nella detta richiesta valgono le considerazioni già svolte per le precedenti ipotesi così come per la ricorrenza della aggravante nei falsi.

Inoltre, gli atti falsificati non avevano funzione fidefaciente e sul punto la corte non si è pronunciato; per i delitti di cui ai capi B, C, D viene eccepita la prescrizione, posto che con la concessione delle generiche ed il giudizio di equivalenza ex art. 69 c.p. si tratterebbe di falso semplice.

Analogamente, per il capo G, i ricorrenti rilevano che l’attività corruttiva si è fermata nel 1998, essendo stata in tale data ottenuta la regolarizzazione del trasferimento delle due società IKT e delle Province: quindi è errata la contestazione dal 1997 a oggi, quasi che la corruzione fosse permanente ed è certo, in conseguenza, che il delitto si è estinto per prescrizione.

Con altro motivo, si deduce la mancata spiegazione della condotta concorsuale dei due imprenditori per i delitti di falso, non essendo individuato il loro apporto.

I due imprenditori lamentano l’erronea individuazione nei fatti relativi alla trasferimento delle due società presso altra Asl e al loro accreditamento presso il servizio sanitario del delitto di corruzione, e non in quello di concussione, escluso dalla corte in base al rilievo che gli imprenditori versavano in un consapevole stato di illegalità che avrebbe fatto venir meno il metus e li avrebbe posti in posizione paritaria nei confronti dei funzionari pubblici.

Viceversa, gli atti, peraltro non esaminati dal giudice di merito, attestavano la regolarità della posizione delle società, sicchè gli imprenditori, nonostante il loro buon diritto, erano stati persone offese costrette a pagare.

In concreto, ai fini della individuazione della loro soggezione ai pu, i ricorrenti, rispetto alle singole fattispecie loro contestate, osservano:

Il c.d. budget della ITK per gli anni 1998-2000: il potenziale economico-produttivo della struttura sanitaria andava, secondo i ricorrenti, valutato non già in base alle Delibe. nn. 2443 e 2444 del 98 della giunta regionale laziale, ma in forza della successiva delibera n. 3082 del 1999, che aveva modificato le precedenti, stabilendo che il c.d. budget era da individuare con il criterio delle prestazioni effettivamente erogate dalle strutture accreditate nell’anno 1998 e per il 1999 in misura massima pari al 140%, di quanto complessivamente liquidato l’anno prima.

Se ne deve dedurre che la ITK aveva agito per il riconoscimento di quanto effettivamente dovuto e che il C., allora direttore generale, aveva imposto i pagamenti in suo favore, dopo aver penalizzato la struttura, come dimostrato dalle dichiarazioni di altro imputato il dir. amm. S., che tuttavia i giudici di merito non avevano esaminato.

I corsi di formazione professionale:

su questa vicenda i ricorrenti denunciano difetto di risposta in ordine alle loro tesi difensive essendo provato che:

a) le società avevano strutture idonee allo svolgimento dei corsi, come risulta dalla certificazione in atti;

b) tutta l’organizzazione era attribuibile alla Pe., soggetto estraneo alla loro organizzazione societaria;

c) la I., pur potendo trattenere gli anticipi ricevuti, li aveva integralmente restituiti con gli interessi prima dell’audit di verifica; non vi sarebbero pertanto le ipotesi delittuose contestate.

Il trasferimento dalla ASL Roma A alla B:

I ricorrenti lamentano che pur essendo consentito il trasferimento territoriale delle strutture sanitarie da una asl all’altra, la corte, come già il gup, aveva affermato egualmente la sussistenza di una fattispecie corruttiva dei funzionari, che avevano assentito alla richiesta delle società del gruppo perchè la attività di corruttela era stata avviata al fine di evitare controlli di legittimità e di merito che avrebbero inevitabilmente portato alla esclusione dall’accreditamento delle due imprese.

Tale ragionamento sarebbe fondato su un assioma basato su un erronea ricostruzione della normativa di riferimento, che, invece, esattamente interpretata avrebbe offerto la dimostrazione che i due imprenditori erano stati concussi dai funzionari.

Il trasferimento era stato disposto già nel 1995 dalla allora assessore competente e la ASL Roma A aveva assunto un atteggiamento contraddittorio, in realtà spiegabile solo con la volontà concussoria dei dirigenti.

Ottenuta la idoneità dei nuovi locali presso la ASL/B, la A, nonostante la sua incompetenza, escludeva le società ITK e delle Province dalla accreditamento provvisorio, ferma restando, a fronte delle osservazioni mosse dai ricorrenti, la competenza della ASL B per la gestione dell’accreditamento definitivo.

I giudici di merito avrebbero travisato le prove, avendo affidato ad una circolare, mero atto interno, una valenza normativa contraddetta dalla successiva legislazione.

Peraltro, era stato ribadito con propria nota del 21 aprile 1995 dall’assessore regionale alla sanità, che l’autorizzazione a trasferirsi presso altra Asl, nè implicava riconoscimento della convenzione, nè revoca della stessa ed a tale nota si era rifatta la dirigenza della ASL B nel concedere il dovuto accreditamento provvisorio.

Inoltre, la esclusione delle società, basata sulla mancata presentazione di documentazione, era errata, avendo le stesse adempiuto all’onere di produzione, come attestato dagli atti riferibili ai funzionari della ASL B, che avevano infatti provveduto al riaccreditamento.

Con il motivo sub 17, si denuncia la prescrizione del capo 5^ in quanto si tratterebbe di falso non aggravato.

Con un ultimo motivo, si denuncia mancanza ed illogicità della motivazione e violazione di legge in ordine alle misure cautelari reali disposte, rilevando che il sequestro conservativo è stato disposto fuori udienza con ordinanza del Gup del 2 agosto 2006 mai comunicata, che è stata ordinata nel 2007 sempre dal GUP la restituzione alle ASL delle somme depositate su tre conti bancari appartenenti alla IMS ed alla Medicom, ed è stato emesso decreto del 23.7.2007 del Gup di sequestro preventivo di immobili del C. e di altra imputata, mai notificato alla I. e comunque al di fuori dei parametri di cui all’art. 322 ter c.p..

T.R..

Con un primo ed articolato motivo, è denunciata violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità, non avendo i giudici di merito preso in considerazione le doglianze avanzate, relative:

a) all’effettivo contributo dato sia alla associazione a delinquere contestata, sia alla realizzazione dei reati fine; egli non era inserito in alcun gruppo, ma aveva prestato la sua opera professionale, correttamente e percependo compensi del tutto modesti.

B) il compito attribuitogli di aver predisposto la falsa documentazione era solo asserito, non essendo stato spiegato quale fossero le sue conoscenze tecniche per ingerirsi e gestire rapporti propri della PA, in specie in materia di fatturazione di prestazione;

C) inoltre, egli non aveva avuto rapporti con i funzionari infedeli, ma solo con la coppia di imprenditori, con i quali non aveva peraltro alcun rapporto professionale esclusivo.

Ripercorse per esteso tutte le tematiche affrontate con i motivi di appello e rammentato che lo stesso Procuratore Generale, in udienza, ne aveva chiesto l’assoluzione, il ricorrente mette in luce il difetto di spiegazioni circa la sua responsabilità, affermata con espressioni assiomatiche e senza argomentazioni in ordine alla sua effettiva consapevolezza degli illeciti, ricavata esclusivamente dalla osservazione che essendo egli contabile per le società non potesse essere al corrente del meccanismo fraudolento attivato, anche, con il suo contributo tecnico.

Non è vero, poi, che i due imprenditori avessero reso dichiarazioni accusatorie nei di lui confronti, nè che la I. lo avesse messo a parte del sistema di potere, creato, invece, con la sola complicità dei funzionari.

Con un secondo motivo, è denunciata, per violazione di legge e difetto di motivazione, la mancata derubricazione dei reati di peculato in truffa, poichè la metodica seguita era strumentale a trarre in inganno la PA e non già a celare la appropriazione del denaro pubblico.

Con il terzo motivo, il T. deduce che i reati di falsità ideologica e materiale non riguardavano atti destinati alla fede pubblica ed insiste per la derubricazione degli stessi, mettendo in luce come la Corte su tale specifico motivo non abbia dato alcuna spiegazione.

Con il 4^ motivo, il ricorrente lamenta difetto di motivazione per la conferma della condanna per il capo B (corruzione) relativo alla organizzazione dei corsi regionali e per i reati di truffa consumata e tentata ed i reati satellitari di falso, nonchè per il mancato riconoscimento della desistenza volontaria, posta in essere per le ipotesi E, G, K, M, di tale troncone dell’indagine.

Riprodotti i motivi di appello, il ricorrente deduce che non vi è prova del suo coinvolgimento, affermato con poche proposizioni e senza alcuna indicazione del contributo materiale che avrebbe offerto.

Con il quinto motivo, anche per i falsi contesti in relazione ai corsi di formazione, viene denunciata l’insussistenza della aggravante di cui si è detto;

con il sesto motivo, il T. si duole della mancato riconoscimento della attenuante ex art. 114 c.p., del tutto ignorata dalla Corte, e con il settimo si duole del bilanciamento delle generiche e della misura della pena.
Motivi della decisione

I ricorsi proposti dagli imputati sono inammissibili.

1) Ricorso I. – C..

1.a) sono manifestamente infondate le questioni procedurali illustrate ai primi tre punti del ricorso.

In primo luogo è da rilevare che i ricorrenti ripropongono temi, cui la corte distrettuale ha risposto, ribadendo le loro posizioni, senza tener conto delle argomentazioni espresse in motivazione.

Si tratta, in pratica, di ragioni di lagnanza disancorate dal tema decisionale affrontato con la impugnata sentenza, laddove il provvedimento ha puntualmente esaminato in concreto il comportamento processuale tenuto dai due imputato e confutato le posizioni dogmatiche da costoro espresse.

Peraltro, è da mettere in evidenza la manifesta infondatezza dei rilievi.

Esattamente, infatti, la Corte di Appello ha escluso il vizio di costituzione delle parti, in forza del principio, espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, anche a sezioni unite che la rinuncia a comparire all’udienza da parte del detenuto produce i suoi effetti non solo per l’udienza in relazione alla quale essa è formulata, ma anche per quelle successive, fissate a seguito di rinvio a udienza fissa, fino a quando questi non manifesti la volontà di essere tradotto.

A tutti gli effetti, invero, l’imputato che rinuncia a comparire è legittimamente considerato assente e, come tale, rappresentato dal difensore.

Nel caso concreto, poi, la Corte distrettuale, ha, con motivazione adeguata e logica, apprezzato i dati di fatto che escludevano la assetta limitazione della volontà abdicativa dei due imputati ad una sola udienza, rilevando che essi avevano reso una dichiarazione generica – e perciò valevole anche in proiezione futura -, corroborata dalle manifestazioni del loro difensore, che in udienza, sia pure informalmente, aveva confermato la loro volontà di non presenziare e soprattutto, concretamente, aveva rappresentato, munito di specifica procura speciale, la loro volontà di definire il giudizio con il rito abbreviato.

Il giudice di appello ha logicamente sottolineato che il difensore non aveva compiuto al riguardo alcuna atto abdicativo, ma si era limitato a ribadire la volontà già espressa di accedere al rito alternativo e che per tutta la durata della fase innanzi al giudice della udienza preliminare, i due non avevano mai reso una dichiarazione contraria, chiedendo di comparire, tutti elementi di fatto, che conducevano logicamente alla inesistenza del denunciato vizio.

Tale iter argomentativo, esauriente in punto di logica, si sottrae al controllo di questa corte, come anche quello concernente la valida manifestazione da parte del difensore pro-tempore dei due ricorrenti della volontà di procedere con rito alternativo.

La notazione, sviluppata al punto sub 3 del ricorso, che la richiesta non era invece rituale è vanamente affidata, con riferimenti squisitamente di merito, alla sequenza delle azioni intraprese dalla I. e dai successivi suoi difensori nel giudizio di appello, concernenti la revoca della procura data al primo difensore e la possibile falsificazione di documenti ad essa relativi; il motivo, posto peraltro in modo dubbioso, propone una diversa possibile ricostruzione della vicenda, esulante dai poteri di controllo di questa corte e come tale non può avere ingresso in questa sede, a fronte peraltro di un adeguato esame delle tesi difensive.

Queste sono state ritenute inattendibili dal giudicante in base alla constatazione obbiettiva:

1. della manipolazione dell’atto di revoca al difensore, prodotto in appello, in fotocopia e mai rinvenuto nel fascicolo di ufficio del GIP;

2. della mancanza in seno all’atto di gravame della relativa eccezione, sostenuta con motivi nuovi e tardivi da nuovo difensore;

3. della impossibilità per il difensore, che aveva assistito la coppia di imputati nel giudizio di primo grado, di confermarne la versione, essendo egli nelle more deceduto;

4. della decisiva osservazione che la revoca in atti nei confronti del detto professionista, rinvenuta in atti, è del il 16 ottobre 2007 e quindi logicamente inconciliabile con quella prodotta in appello, portante la data del 1^ marzo 2007.

Parimenti, palesemente infondata è la reiterata lagnanza sulla incompatibilità del giudicante, con cui si propone una interpretazione autentica della volontà del difensore, che avrebbe errato nell’uso della terminologia giuridica, utilizzando il termine "astensione" in luogo di "ricusazione".

Già di per sè il motivo, apodittico, giacchè non spiega quale sarebbero gli elementi sostanziali da cui desumere la riferita intenzione, non ha legittimazione innanzi questa corte; essendo, poi, la ricusazione una attività processuale, che la parte deve compiere, seguendo le procedure del codice di rito; quel che rileva è la mancata messa in opera della denuncia e non certo la disquisizione terminologica su un annuncio, avanzato dal difensore e non coltivato dalla parte.

Infine, del tutto a-specifica è la censura relativa alla mancata rinnovazione del dibattimento, non essendo stati indicati nè i provvedimento di cui si chiedeva la produzione, nè la loro valenza, ai fini della decisione.

In ultimo, è nuova, perchè mai proposta nei gradi di merito, la eccezione per assetta incapacità a stare in giudizio della I..

1.b Manifestamente infondato è il motivo con cui viene dedotta l’erroneità della configurazione dei delitti di cui ai capi da A a doppia C della richiesta di rinvio a giudizio 11.7.06 quali peculato, anzichè truffa, ed i connessi motivi sviluppati ai punti da 6 a 8).

E’ acquisito alla giurisprudenza di questa corte che l’elemento distintivo tra il peculato e la truffa aggravata ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 9, deve essere individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione.

Ricorrerà la prima figura delittuosa quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui, di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; si ravviserà la truffa aggravata qualora l’agente, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, in funzione della condotta appropriativa del bene.

Alla condotta di peculato può affiancarsi anche, come è accaduto nel caso in esame, una condotta fraudolenta, finalizzata, però, non a conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile, ma ad occultare la commissione dell’illecito ovvero ad assicurarsi l’impunità;

Ciò posto, osserva la Corte che non può condividersi la tesi difensiva, secondo cui gli imputati, pubblici ufficiali, correi dei due imprenditori, avrebbero conseguito il possesso del denaro, oggetto di appropriazione, soltanto attraverso l’artificio di formare i mandati di pagamento, privi di sottostante rapporto sostanziale, e quindi falsi, perchè altrimenti non si sarebbe mai potuto realizzare la appropriazione del denaro.

In realtà, la formazione di tale documentazione costituiva un mero adempimento burocratico per la regolarità formale della pratica relativa all’incasso dei compensi per le prestazioni, come messo in evidenza nelle sentenze di merito.

In specie, la Corte di Appello, la cui motivazione si fonde ed integra quella del Gup, ha messo in evidenza che le somme erano già nella disponibilità dei funzionari della ASL, già stanziate ed accreditate per la soddisfazione dei crediti da prestazione sanitaria.

E’ di agevole intuizione, quindi, che il possesso o comunque la detenzione del denaro, ben prima di una qualsiasi richiesta di pagamento da parte degli utenti, era in capo all’amministrazione (e, pertanto, agli imputati impiegati presso le ASL quale addetti allo specifico settore), che lo custodivano e amministravano in base al corrispondente titolo e alle facoltà ad esso connesse, con l’effetto che l’escamotage al quale è stato fatto ricorso non era funzionale al conseguimento del possesso, già esistente, ma a garantire la regolarità formale degli atti d’ufficio e a mascherare l’illecita condotta posta in essere.

E’, dunque, esatta ed aderente alle risultanze processuali, la qualificazione dei fatti ritenuta dalle pronunce di merito, dovendosi ribadire che a differenziare le due figure criminose, conclusivamente, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta di appropriazione, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti (nella specie, il delitto di cui all’art. 479 aggravato ex art. 61 c.p., nn. 2 e 9) che diversamente da quanto opinato dai ricorrenti e per le stesse ragioni sopra esposte, mantengono la loro individualità e non restano affatto assorbite in quella di peculato.

Quanto, poi, alla doglianza relativa alla mancata individuazione della condotta concorsuale dei due imputati I. – C., è da mettere in evidenza che in realtà non viene formulata alcuna censura e che è palese il vizio di genericità, posto che a fronte della diffusa motivazione enunciata nella pronuncia sulla posizione dei due imputati ed il ruolo da essi avuto quali imprenditori a cui favore si risolveva il meccanismo di acquisizione del denaro, secondo il logico criterio del cui prodest, il ricorso è una mera, lacunosa, lagnanza.

Non hanno, poi. rilievo le osservazioni sulla non applicabilità della aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9: infatti, poichè i reati sono stati unificati ex art. 81 c.p. individuandosi quale fattispecie più grave su cui operare gli aumenti di pena quella di cui al capo A) indicato nella richiesta dell’11 luglio 2006 (peculato), previo giudizio di equivalenza fra le concesse attenuanti generiche e le aggravanti, la sussistenza o meno delle stesse non ha inciso in concreto sul trattamento.

Pertanto sul punto non sussiste alcun concreto interesse alla risoluzione della questione. (così da ultimo Sez. 1^, Sentenza n. 16398 del 14/01/2008).

1.c: Parimenti non sono ammissibili le doglianze di cui ai punti 9-16 del gravame, relativi ai reati indicati nella richiesta di rinvio a giudizio del 1^ dicembre 2006.

Preliminarmente, per i delitti di peculato e di falso, per i quali i ricorrenti sviluppano le medesime lagnanze in diritto, già avanzate per gli analoghi reati di cui alla richiesta di rinvio a giudizio dell’11 luglio 2006, data la sovrapponibilità delle censure, si richiama la motivazione sopra sviluppata in ordine alla manifesta infondatezza delle stesse ed il difetto di interesse in punto di ricorrenza delle aggravanti.

Medesima considerazione di manifesta infondatezza è da svolgere in ordine all’eccezione per prescrizione dei reato di falso contestati sub sub B, C, D cui al punto 12 del gravame, che sarebbe avvenuta in data precedente alla pronuncia della sentenza di appello.

Infatti, sia che si applichi il regime prescrittivo introdotto dalla L. n. 251 del 2005, sia che si abbia riguardo a quello anteriore, il termine di prescrizione al momento della pronuncia di secondo grado non era decorso.

Nel primo caso, si tratta di anni di anni 10 cui sono da aggiungere anni due e mesi sei onde a far tempo dalle date di commissione dei reati (risalenti al gennaio 1998) il termine, al momento della pronuncia di appello emesso il 19.12.2009, non era trascorso;

altrettanto è da dire se per il termine prescrittivo previgente – ed in tal caso si considera il reato nella forma semplice per effetto del giudizio di equivalenza delle generiche sulla aggravante -:

infatti il massimo del termine della prescrizione è comunque di anni 15 (10 di termine ordinario + 5 anni di proroga), dato che la pena base di anni sei di reclusione rientra nella previsione dell’art. 157 c.p., n. 3, vecchia formulazione e non era quindi esaurito prima dell’appello.

E’, poi, ovvio che la suggerita commistione tra i due regimi, operata con il motivo ora esaminato, è inammissibile, poichè in tema di prescrizione, non è consentita l’applicazione simultanea di disposizioni introdotte dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 e di quelle precedenti, secondo il criterio della maggiore convenienza per l’imputato, occorrendo applicare integralmente l’una o l’altra disciplina. (punti indicati in ricorso con i nn.10, 11 e 12).

La affermazione di condanna per il capo A, relativo alla associazione a delinquere, costituita tra gli imprenditori ed i numerosi funzionari della ASL accordatisi per un sistemico depauperamento delle risorse finanziari regionali, e per un altrettanto sistemico e speculare arricchimento degli associati, ottenuto mediante una serie di reati, univocamente diretti a tale scopo, è contestata con il motivo sub 9 per asserite mancanze ed illogicità della motivazione, criticata mediante la estrapolazione di un solo passaggio motivazionale, il cui contenuto dimostrerebbe l’esistenza del concorso in più fatti di reato e non di uno precedente accordo sociale.

Già dalla illustrazione della doglianza, balza evidente che essa non si attaglia al profilo individuato dall’art. 581 c.p.p., poichè usa espressioni generiche, che si potrebbero riferire ad una serie indistinta di fatti criminosi e non prospetta le precise ragioni in fatto o in diritto da sottoporre a verifica.

La Corte distrettuale, invero, non si è limitata ad una mera sommatoria delle accertate responsabilità per i singoli reati fine, ma ha individuato anche nella commissione di questi elementi la conferma della esistenza della struttura organizzativa ed il carattere criminoso del programma, ponendo in rilievo che proprio la articolazione in precisi passaggi – fatturazioni false, atti di liquidazione a loro volta falsi, per società accreditate presso il servizio sanitario, ma in realtà non operanti – attestava l’esistenza di un accordo programmatico, necessario per coordinare tutte le attività illecite e finalizzarle al risultato.

Nè tale iter argomentativo, che parte dalla constatazione della ammissione da parte della I. e del C. della esistenza materiale dei fatti, così come contestati, presenta incongruenze e pecche evidenti, sicchè, anche a voler prescindere dalla rilevata lacunosità della censure, non si potrebbe ravvisare elementi di erroneità e di palese inconsistenza della motivazione.

1.d: ai fini di un ordinato procedere, occorre esaminare, nell’ambito dei motivi che seguono, (punti 13-15 e 16 sub a e c) preliminarmente quelli che investono la affermazione di responsabilità per i reati di corruzione e relativi falsi ascritti ai capi B, C, F, G, per i quali i due imprenditori sostengono di aver avuto la mera posizione di concussi.

A tal fine i ricorrenti, ripercorrono la ed vicenda del trasferimento delle loro società IKT e Delle Province del dott. Di.Ta. dalla ASL /A alla B ed il successivo inserimento fra i soggetti accreditati e nel far ciò prospettano una rivisitazione degli atti, peraltro già esaminati, dalla Corte di merito, e delle prove orali, così proponendo una rinnovata valutazione della ricostruzione fattuale della vicenda operata dai giudici di merito, con motivazione giuridicamente corretta ed indenne da vizi logici.

Il punto centrale delle doglianze è quello della legittimità delle richieste di trasferimento delle società e della concessione del massimo budget possibile, per il convenzionamento o meglio accreditamento per il rimborso delle prestazioni, ipotesi che il giudice distrettuale ha escluso: infatti, senza ripercorre l’intera vicenda, che i giudici di merito, hanno diffusamente illustrato, è da mettere in evidenza come la Corte abbia incentrato la sua decisione su due punti fondamentali; il primo è che a prescindere dai cambiamenti della normativa, che avevano superato i divieti di trasferimento territoriale, le due società non avevano, comunque, i requisiti per il cambio, perchè non operative da anni, tant’è che proprio per superare tale ostacolo la stessa I. aveva ammesso di aver pagato i funzionari competenti, che avevano fatto fronte alle sue richieste, anche mediante il ricorso ad atti, risultati poi falsificati; ciò aveva permesso di evitare che si accertasse che le strutture non erano in possesso dei necessari requisiti di funzionalità ed adeguatezza.

Il secondo punto, centrale per la decisione, è che il limite massimo dei rimborsi, da calcolare sul volume delle prestazioni erogate nell’anno precedente dalla struttura, venne artatamente aumentato, mentre la pacifica non operatività delle strutture, che non avevano fatturato per anni ed erano attive solo dagli ultimi mesi del 1997, consentiva una previsione di molto minore di quella, in concreto, accreditata.

Anche in relazione a ciò, la Corte ha verificato nei fatti l’ipotesi accusatoria, rilevando che, mentre le note contrarie alle esigenze degli imprenditori, redatte da funzionari fedeli alla P.A, venivano contestate e contraddette da altri funzionari, risultati al soldo dei due imprenditori, questi stessi soggetti avallavano, anche con false documentazioni la tesi del maggior budget, che veniva riconosciuto, nonostante il Tar avesse rigettato una iniziativa giudiziaria promossa dalla ITK in punto di criteri per la sua determinazione.

Ancora la impugnata sentenza ha messo in luce come lo stesso C. aveva ricostruito la vicenda in termini corruttivi, in ciò confermato dalle analoghe dichiarazioni confessorie della I., che aveva espressamente indicato i pagamenti all’occorrenza fatti e per lungo tempo in favore dei pubblici ufficiali.

Tutti i detti elementi sono stati logicamente valutati quali sintomi inequivoci della posizione paritaria tra i privati ed i funzionari infedeli, dato che i primi non avevano una posizione legittima per far valere le loro pretese, posizione che, anzi, avevano creato, ed i secondi non avevano imposto alcunchè, ma si erano prestati, previo compenso, ad alterare la realtà in modo che i due imprenditori raggiungessero i loro scopi.

A fronte di tale esaustiva e logica ricostruzione dei fatti, in questa sede non rivalutabile, se non nei limiti della evidenza, intrinseca all’iter argomentativo, di vizi nell’apprezzamento delle evenienze probatorie, i due ricorrenti offrono una versione alternativa delle loro vicende, introducendo elementi di fatto, mediante la evocazione di testimonianze a loro favorevoli, che sono stati affrontati e risolti dalla corte e non si confronta, in sostanza, con i detti due snodi centrali della decisione, non spiegando, soprattutto come si concili la assetta legittimità delle richieste avanzate alla ASL per il riconoscimento delle loro società e la loro regolare collocazione nel sistema sanitario regionale, con la falsificazione di una rilevante mole di atti relativi a tali presupposti.

E se pure, secondo i principi enunciati in materia dalla giurisprudenza, l’elemento discriminante della concussione rispetto alla corruzione non può essere rinvenuto ne1 in base al criterio dell’iniziativa, nè a quello dell’atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, nè a quello del vantaggio giusto o ingiusto cui il privato tende, ma è costituito dalla presenza, nella concussione, di una volontà prevaricatrice del pubblico ufficiale, condizionante la volontà del privato (Cass. Sez. 6^, 3-11-2003 n. 4898), per effetto della quale quest’ultimo versa in stato di soggezione di fronte alla condotta del pubblico ufficiale, mentre nella corruzione i due soggetti vengono a trovarsi in posizione di sostanziale parità (Cass. Sez. 6^, 1-2-1993 n. 8651), nel caso in esame, esattamente i giudici di merito hanno escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 317 c.p., sulla base delle modalità operative, in concreto adottate, che non erano indicative di alcun abuso, da parte del pubblico agente, della propria qualità o funzione, che abbia costretto o indotto il privato all’indebita promessa o dazione.

Il che significa che i due imprenditori non avevano alcun timore che una mancata condiscendenza alle richieste dei funzionari potesse compromettere l’esito delle pratiche.

Quanto alla censura relativa alla mancata prova del concorso nella formazione dei falsi (punto 14 del ricorso), non può che rilevarsi che anche in questo caso, i ricorrenti non hanno specificato le loro censure, laddove la impugnata sentenza si è diffusa sul loro apporto, quali istigatori e consequenziali fruitori dei benefici connessi alla attività di falsificazione.

Anche le censure mosse alla sentenza sulla vicenda oggetto della imputazione sub B e seguenti della richiesta di rinvio a giudizio del 20 dicembre 2006, (punto 16 lett. b – vicenda nota come gestione dei corsi professionali) sono connotate da patente inammissibilità.

Infatti, si tratta di doglianze che propongono una diversa lettura degli atti e si risolvono, al di là della formale prospettazione di vizi motivazionali, in inammissibili censure avverso apprezzamenti, squisitamente di merito espressi, dal giudice di appello, come tali insindacabili in sede di legittimità.

Esula, infatti, dai poteri attribuiti alla Corte di Cassazione quello di procedere ad una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza e attendibilità delle fonti di prova.

Nel caso in esame, la versione offerta dagli imprenditori diverge del tutto, quanto a svolgimento dei fatti da quella ricostruita dal giudice di merito, che ha risposto a tutte le osservazioni mosse con l’appello, sia in ordine alla piena concertazione tra i due ed i funzionari infedeli circa il meccanismo da attuare per fruire dei benefici economici dei falsi corsi, sia in ordine alla insussistenza, di sedi adeguate ove svolgere gli stessi, e della correlativa mancanza dei requisiti da parte delle società che avevano percepito i finanziamenti, sia in ordine al ruolo, coordinato con quello dei ricorrenti e niente affatto autonomo (della Pe., consulente regionale per la formazione, sia infine sull’effettivo trattenimento delle somme erogate, non restituite, tant’è che le erogazioni risultano accreditate su conti correnti delle società interessate.

Il gravame invece adotta una diversa e smentita interpretazione dei fatti, che non può avere come già detto ingresso in questa sede di legittimità.

Peraltro, per la configurabilità della desistenza, cui si richiama genericamente la I., è da ribadire che la eventuale restituzione è da ricondurre alla volizione dell’agente, nonchè della non dipendenza dell’avverarsi dell’evento da fattori esterni grava; ma nel caso in esame, parte del meccanismo delittuoso, come detto, era fondato sul lucro derivante dal trattenimento di somme, che impletementavano le risorse economiche, per cui la restituzione successiva era finalizzata a non fare scoprire l’artifizio sottostante; ancora, le successive restituzioni non sono espressione di desistenza dal delitto, perchè avvenute poco prima della annunciata verifica dei conti e perciò non attribuibili a resispiscenza, ma all’intenzione di rimettere in ordine i conti, per paura del controllo.

1.e: Del tutto nuovi sono i motivi enunciati al punto 18 del ricorso, relativi a misure patrimoniali di sequestro e dissequestro assunte in danno dei ricorrenti, di cui non è cenno in atti, e che comunque non hanno costituito oggetto di gravame in sede di appello.

1.f: In ultimo, non possono trovare accoglimento nè la eccepita prescrizione del reato di corruzione contestato al capo G (punto 13 del ricorso), nè di quello di falso, indicato al capo 5^ (punto 17 del ricorso), che si sarebbero verificate anteriormente alla pronuncia di merito, nè la invocata estinzione di altre fattispecie, cui si è riportato nelle sue odierne conclusioni il PG. Giova rammentare che nel caso in esame, che nel caso in esame trova applicazione il principio affermato da questa Corte a Sezioni Unite (SU 22 marzo 2005, n 23428, rv 231164, Bracale), secondo cui "l’inammissibilità del ricorso preclude ogni possibilità sia di far valere si di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non dedotta ne1 rilevata da quel giudice" atteso che la difesa nel precisare le conclusioni davanti alla Corte Territoriale, si è limitata a riportarsi ai motivi di appello.

Per quel che attiene alla prescrizione che si sarebbe maturata in epoca successiva alla sentenza impugnata trova applicazione il principio affermato da questa Corte (Sezioni Unite De Luca sent. n. 32 del 2000), secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso).

2) Il ricorso del P.:

2.1 I motivi di gravame relativi al capo H (peculato) ed il correlativo capo D (falso), ed HH (corruzione) sono da esaminare congiuntamente, in quanto i reati indicati sono fra loro strettamente collegati.

In ordine di tempo, il primo dei reati contestati al P., è relativo alla vicenda già esaminata del trasferimento e dell’accreditamento; costui, nq di responsabile ASL Roma/A del Dipartimento per l’Accreditamento, secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, ha attestato, con una nota, data 8.2.200, la regolarità sia del trasferimento che dell’accreditamento, delle società ITK e delle Province, ed in tal modo si è inserito nel complesso procedimento, di cui si è detto sopra nell’esaminare la posizione dei due imprenditori, quale uno dei funzionari definiti "disponibili".

Al riguardo, il P., ritiene incongruente l’affermata responsabilità, collegando l’episodio a quello di corruzione sub HH e deducendo che siccome la dazione del denaro sarebbe avvenuta nel 2001-2003, in epoca successiva alla nota, non vi sarebbe una ragione logica per addebitargli la falsa comunicazione.

Ora, tale argomentare, peraltro basato su una generica contestazione della inattendibilità della I., non correlata allo sviluppo argomentativo della pronuncia, non tiene conto che, per il P., la corte distrettuale ha rilevato che:

1). costei era riscontrata dalla dichiarazioni dell’altro coimputato;

2). rifacendosi all’esplicito passaggio, contenuto nella sentenza di primo grado, che come è noto nei dati di fatto integra quella d’appello, – era certo che il P. aveva ricevuto denaro ed altri sostegni economici.

3). l’imputato aveva svolto un ruolo necessario e fondamentale per il conseguimento dello scopo prefissosi dai due imprenditori.

Tanta basta per ritenere integrata la fattispecie corruttiva, anche se il "compenso" sia stato corrisposto in epoca successiva al patto.

Giova ribadire che secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte "il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione – ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione – ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione" (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010).

Applicato il principio nel caso in esame, è agevole rilevare come la dazione del denaro non sia affatto slegata alla attività indicata nei capi H e D e ed anzi ad essi si salda logicamente, giustificando l’intervento del P., come ritenuto dai giudici di merito, che hanno individuato, con adeguata disamina delle risultanze probatorie, sia la inesistenza stessa dei presupposti per la comunicazione positiva in favore delle due società accreditande, sia la efficienza causale di tale contributo ai fini del peculato.

2.2 Nè ha pregio alcuno la denuncia di erroneità della decisione per i capi I, EE, FF, LL indicati nella richiesta di rinvio a giudizio del luglio 2006; il ricorrente argomenta sulla inconsistenza del discorso giustificativo della pronuncia impugnata, perchè incentrata sulle sole dichiarazioni della I., omettendo di considerare che la Corte, come già il Gup, ha tenuto conto dei ritrovamenti dei timbri necessari alla falsificazione in possesso dell’imputato, delle distonie del numero di protocollo dei provvedimenti a firma di costui ed altri atti (veri) portanti identico numero, sintomatiche della artata confezione di delibere, e soprattutto delle dichiarazioni del C. e del commercialista T., coincidenti con quelle della I. sulla esistenza di falsi strumentali agli interessi delle società amministrate.

Le censure, dunque, ripropongono, schematicamente, una visione parziale dello sviluppo argomentativo seguito dai giudici di merito, di fatto così non confrontandosi con i dati valutati ed il ragionamento seguito: ne consegue la sanzione di inammissibilità per genericità. 2.3. Non ha pregio alcuno la contestazione del carattere fidefaciente delle delibere costituenti i sopra indicati delitti di falso sub FF e LL; in primo luogo, il motivo è centrato su una condotta (attestazione di conformità all’originale) diversa da quella indicata nei capi di imputazione che qui interessano, che fanno carico all’imputato di avere creato deliberazioni che riportavano una data falsa; vanamente, dunque, è richiamato il difetto di potere nel P. di potestà documentatrice; nè ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, la nozione di atto pubblico è limitata agli atti destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma essa riguarda anche gli atti c.d. interni.

Tali devono intendersi sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, che quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale – conforme o meno allo schema tipico – ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi.

Così è nel caso di specie, dato che l’anticipazione delle date nelle delibere, al marzo 2001, consentiva di accreditare una pregressa legittimazione delle società, facenti capo al gruppo I. – C. in realtà inesistente a quell’epoca.

2.4 In ultimo, il motivo relativo al mancato proscioglimento per il capo E, in luogo della ritenuta prescrizione, è meramente assertivo, basato su un dato possibilistico, dato che non è indicata la evidenza di elementi che avrebbero dovuto imporre diversa declaratoria ex art. 129 c.c.p., ma solo lamentata la mancata esplorazione di ipotesi alternative.

E tanto basta per affermare la inammissibilità della doglianza, in concreto inespressa.

3 Il ricorso del T..

3.1 con il primo motivo ed il quarto motivo, il T. propone gli stessi temi che hanno costituito oggetto del ricorso in appello, e sui quali peraltro la corte distrettuale ha dato adeguata risposta, ed ha insistito in particolare sulla inadeguata valutazione degli atti processuali e delle prove raccolte, di segno a sè favorevole.

Ora, tale approccio, che è stato altresì arricchito da una fitta elencazione delle sue vicissitudini personali e professionali e dei suoi rapporti con la I. ed i funzionari regionali con cui è entrato in contatto, non investe la decisione del giudice di appello, secondo i parametri indicati dall’art. 606 c.p.p., lett. e) e b), pure esplicitamente evocati, ma, in sostanza, si risolve nella sottoposizione a questa corte di una nuova valutazione delle prove;

si tratta, come è noto, di un compito che esula dai poteri rimessi al giudice di legittimità, che non ha il compito di ripercorrere nel merito la vicenda, ma solo quello di verificare l’adeguatezza e la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza probatoria degli elementi probatori raccolti e in se stessi e nel loro reciproco collegamento.

Giova rammentare, ancora, che l’ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante.

Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.

Muovendo all’interno di questi due richiamati parametri, è allora da mettere in evidenza che la corte distrettuale ha adeguatamente indicato gli elementi che conducevano alla affermazione di responsabilità del T. sia in relazione al contributo apportato da costui alla realizzazione della fattispecie associativa sia degli innumerevoli falsi e dei peculati contestati, sottolineando come:

1. l’imputato nel contesto associativo era perfettamente consapevole delle illegalita della posizione delle due società accreditate e non si limitò a porre in essere artifizi contabili, c.d. di compensazione, finalizzati all’abbattimento della imposizione fiscale sul reddito delle stesse, ma predispose proprio quegli strumenti (formazione di false fatture) necessarie per ottenere lo scopo di arricchimento perseguito.

2. i coimputati, in specie il C., ne avevano affermato il ruolo di persona di fiducia;

3. l’operato esulava dalla normale attività di commercialista, posto che egli aveva utilizzato per le dette fatture numeri d’ordine corrispondenti ad altre prestazioni – non sanitarie – al fine evidente di incrementare il compendio dei rimborsi;

4. nella vicenda relativa ai corsi di formazione professionale, egli era risultato risulta legale rappresentante di società del gruppo che si erano candidate a svolgere questa attività;

5. era irrilevante la assenza di conoscenza personale dei funzionari infedeli, data la sua specifica posizione, interna alle società del gruppo.

A fronte della ricostruzione della condotta e della individuazione di un ruolo consapevole per ciascuna delle imputazione, il T. mette l’accento sulla natura esclusivamente "professionale" delle sue prestazioni, introducendo o meglio ribadendo elementi di fatto, che la corte distrettuale come detto ha adeguatamente valutato e che questa corte non può certo riesaminare nel merito.

3.2 Manifestamente infondato è il motivo con cui il T. deduce la insussistenza del delitto di peculato: sul punto si rimanda a quanto già esposto per l’analogo motivo proposto dalla I. e dal C. nè il ricorrente ha avanzato o prospettato, con le sue lagnanze, profili che possano indurre ad una diversa valutazione.

3.3 Anche il terzo motivo ed il quinto motivo, concernenti la mancanza di motivazione in ordine alla omessa derubricazione dei reati di falso in quelli puniti ex art. 477 c.p. e art. 480 c.p. sono inammissibili, in quanto inespressi, non essendo confortati da alcuna precisazione nè in fatto nè in diritto;

la sola doglianza che la Corte non abbia affrontato tale tema non comporta, poi, alcuna conseguenza, dato che non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che per la sua assoluta indeterminatezza e genericità doveva essere dichiarato inammissibile e tale appunto era la proposta doglianza.

3.4 Infine, con il sesto motivo il T. lamenta la mancata considerazione della minima importanza del suo apporto concorsuale;

il rilievo che la corte non abbia offerto adeguata motivazione, oltre che fondato su inammissibili elementi di merito, non tiene conto che comunque nel contesto motivazionale il tema è stato affrontato e risolto, là dove è stato posto in rilievo che il suo ruolo era stato essenziale e per niente marginale; è ovvio che la affermazione della centralità del suo contributo costituisce implicita risposta alla dedotta pochezza del suo intervento e soddisfa il requisito della adeguatezza e della completezza dell’esame delle censure.

3.5 in ultimo, i motivi concernenti il trattamento sanzionatorio, sia per la mancata affermazione della prevalenza delle generiche, sia sul mancato contenimento della pena nel minimo edittale non possono essere accolti, perchè implicano una valutazione di merito che è preclusa al giudice di legittimità.

Consegue alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende nella misura di Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Condanna, inoltre i ricorrenti, tra loro in solido, alla refusione delle spese, che liquida nella somma di Euro 10.000,00 oltre accessori per ciascuna, a favore delle parti civili Regione Lazio, ASL RM/B e ASL RM/C. Così deciso in Roma, il 12 aprile 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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