Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-03-2011) 23-05-2011, n. 20296 Motivi di ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 23.9.9.2009 la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del GUP di Roma del 6.11.2008, assolveva F.F. dal reato di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti (capo A) per non avere commesso il fatto, C.M. dai reati di cessione di sostanza stupefacente contestati ai capi E) ed I) per non aver commesso il fatto e ritenuta. quanto al predetto l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 per il reato sub A) e l’ipotesi di cui al comma 5 per i residui reati a lui ascritti determinava la pena, esclusa la recidiva contestatagli, in anni 2 mesi 8 di recl.. Determinava la pena per F.F., ritenuto il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 per il capo C), in mesi 8 di recl. ed Euro 1.400 di multa.

Ricorrono per Cassazione i difensori degli imputati. In particolare la difesa di F.F. deduce:

1. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione agli artt. 192 e 546 c.p.p.. Lamenta il ricorrente che la Corte Territoriale ha posto a fondamento della propria decisione una motivazione non soltanto estremamente lacunosa e generica, ma soprattutto contraddittoria e manifestamente illogica. Si è limitata a richiamare la decisione del primo giudice omettendo di indicare con chiarezza gli elementi posti a fondamento della propria decisione. In particolare ha omesso qualsiasi indicazione circa l’attendibilità delle dichiarazioni del presunto acquirente.

2. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione agli artt. 132 e 133 c.p..

La difesa C.M. deduce:

violazione di legge e vizio logico della motivazione in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata è caratterizzata da manifesta illogicità ed apoditticità.

La difesa C. presentava motivi aggiunti allegando copia della sentenza emessa dal Tribunale di Roma Sez. 5 Penale in data 25.3.2010 nei confronti di P.I. e D.B.T. assolti dal reato associativo, in ordine al quale C.M. aveva subito condanna, perchè il fatto non sussiste.

I motivi presentati da entrambi gli imputati con riguardo al vizio di motivazione della sentenza sono manifestamente infondati perchè generici.

Ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. c, l’obbligo di specificare le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono la richiesta esige, a pena di inammissibilità, che siano ben individuati i punti della decisione cui si riferiscono le doglianze con l’indicazione precisa delle questioni che, relativamente ad essi, si intendono prospettare, e l’esposizione in maniera concreta, se trattasi di ricorso per cassazione, dei motivi di diritto che si intendono sottoporre al sindacato di legittimità e con cui si intendono sostenere le censure dedotte.

Va, pertanto, ribadito il principio che, ai fini dell’ammissibilità delle impugnazioni, al requisito della specificità dei motivi non corrisponde il motivo che non esprime una determinata censura contro uno o più punti della decisione, il che si verifica quando si espongono critiche che, potendo adattarsi alla impugnativa di una qualunque sentenza, non hanno alcun preciso e concreto riferimento con il provvedimento impugnato (cfr. per tutte Cass. 21 dicembre 2000, ric. Rappo, rv. 219087). Nel caso di specie le difese degli imputati hanno omesso di indicare, nell’atto di ricorso per cassazione, le specifiche censure mosse alla sentenza d’appello e alle diffuse argomentazioni fattuali e logico – giuridiche in essa sviluppate. Non hanno, inoltre, sostenuto il loro assunto mediante il richiamo agli specifici atti del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio della cd. "autosufficienza del ricorso".

Il Collegio, alla luce dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità, ritiene che la teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso – deve ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso. In applicazione di questi principi il Collegio ritiene che, nel caso in esame, le censure siano state genericamente formulata e, in quanto tale, non meritino accoglimento.

Il secondo motivo presentato dalla difesa F. deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3 posto che la violazione denunziata in questa sede di legittimità non è stata dedotta innanzi alla Corte di Appello avverso la cui sentenza è ricorso ed è quindi questione nuova.

Questa Corte (Cass. Sez. 4, 18/05/1994 – 13/07/1994, n. 7985, Sez. 3 n. 35889/08) ha infatti affermato che sussiste violazione del divieto di "novum" nel giudizio di legittimità quando siano per la prima volta prospettate in detta sede questioni, come quella in esame, coinvolgenti valutazioni in fatto, mai prima sollevate.

Il motivo aggiunto presentato dalla difesa C. è infondato.

Sostiene il ricorrente l’insussistenza del reato associativo contestato allegando sentenza emessa dalla 5^ Sezione del Tribunale di Roma che, all’esito del giudizio ordinario celebrato nei confronti di P.I., ha assolto quest’ultimo dalla violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 per insussistenza del fatto.

Con riguardo al motivo in esame potrebbe essere sufficiente richiamare il principio già affermato da questa Corte secondo cui:

"La doglianza che configuri semplicemente un contrasto di giudizi esula dai motivi di ricorso per Cassazione tipicamente e tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., potendo semmai attivare (quando i giudizi diventino irrevocabili) una richiesta di revisione ai sensi dell’art. 630 c.p.p., lett. a)" (Cass. 3, 24 settembre – 13 novembre 1997 n. 10207, Asselti, RV 209460; nello stesso senso, Cass. Sez. 5 n. 16275/2010).

Deve comunque osservarsi che in tema di contrasto di giudicati ciò che è emendabile è l’errore di fatto e non la valutazione del fatto, e non4a salutazione del fatte o l’interpretazione della norma giuridica posta a presupposto di tale valutazione considerato che queste due evenienze costituiscono l’essenza stessa della giurisdizione. Il concetto di inconciliabilità fra sentenze, anche irrevocabili, non deve infatti essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i tatti su cui si fondano le diverse sentenze.

Nel caso in esame i due diversi esiti processuali si fondano su una diversa interpretazione degli stessi fatti.

Non può tuttavia il Collegio esimersi dall’osservare che solo l’esistenza, oltre al ricorrente e al prosciolto con la formula "il fatto non sussiste" di altri partecipi all’associazione per delinquere può consentire di superare il dato costituito dall’essere sussistente il numero minimo di associati. L’affermazione della Corte d’appello, che altre al C. e al prosciolto P., erano partecipi dell’associazione i minori B.A., R. G. e D.B.T. (cfr. pag. 14-15-16 sentenza impugnata) esclude l’insussistenza del reato in argomento.

Il ricorso di F.F. deve pertanto essere dichiarato inammissibile e quello di C.M. deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e F.F. anche della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00,in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso di C.M. e dichiara inammissibile il ricorso di F.F.. Condanna entrambi i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e il F.F. altresì della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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