Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Motivi della decisione
I ricorsi sono fondati.
In tema di truffa finalizzata all’assunzione ad un pubblico impiego, ed al conseguimento del diritto a periodici emolumenti correlati all’espletamento dell’attività lavorativa, sono intervenute le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 1/99, che risolvendo dei precedenti conflitti giurisprudenziali, ha delineato i confini della condotta punibile e chiarito la natura del reato.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno osservato:
“in tema di cosiddetta truffa “in attività lavorativa” o “in assunzione ad un pubblico impiego” commessa in danno della pubblica amministrazione, mediante produzione di falsa documentazione e in carenza dei requisiti richiesti a tal fine, si assiste – come si è già segnalato – ad una significativa difformità di orientamenti interpretativi. In coerenza con altro indirizzo giurisprudenziale formatosi in ordine al problema analogo, ma non omogeneo, dell’individuazione del momento consumativo del reato di truffa nell’ipotesi di indebita percezione di prestazioni periodiche derivanti da erogazioni pubbliche, si è individuato l’eventus damni, e perciò il momento consumativo, nella riscossione dei singoli ratei di retribuzione relativa all’impiego assunto con frode, ravvisandosi talora un’unica truffa che si esaurisce all’atto della percezione della prima mensilità, altre volte un reato continuato in riferimento alle plurime riscossioni reiterate nel tempo e collegate fra loro da un unico disegno criminoso, o infine una fattispecie di reato “a consumazione prolungata” la quale perdura fino a quando non viene interrotta la riscossione dei singoli ratei con la cessazione dell’attività illecita.
L’orientamento giurisprudenziale largamente maggioritario, che ritiene integrato il danno patrimoniale dell’amministrazione nello stesso fatto dell’illegittimo conseguimento della nomina per le disfunzioni e spese di ordine vario che ne derivano, colloca invece il momento consumativo della truffa, non all’atto della percezione delle retribuzioni, che “essendo il corrispettivo di prestazioni effettuate non possono comunque ritenersi elargite sine causa e quindi indebitamente”, ma all’atto stesso dell’indebito conseguimento della nomina.
4.1. – Ritiene il Collegio che la tesi interpretativa, la quale trascura l’elemento della corresponsione della retribuzione – nonostante l’indubbia valenza economico-patrimoniale insita in esso – come componente del danno patrimoniale per la pubblica amministrazione, sia sostanzialmente corretta.
La ragione, anche se non adeguatamente esplicitata in giurisprudenza, è da rinvenire nella circostanza che la norma incriminatrice, descrivendo la figura della truffa, richiede anche il requisito della “ingiustizia” del profitto, termine di qualificazione dell’evento riflettentesi nel dolo dell’agente, che, avendo natura di elemento normativo integrativo della fattispecie, va individuato aliunde – in modo autonomo rispetto all’illiceità del fatto offensivo, siccome già frutto della scelta di repressione penale della condotta criminosa – mediante le altre indicazioni dell’ordinamento extrapenale.
Di talché, l’ingiusto profitto va ravvisato quando un vantaggio, un’utilità o un incremento patrimoniale (che, nei reati nei quali è previsto come elemento costitutivo anche il danno, rappresenta concettualmente sul versante del soggetto attivo l’aspetto speculare dell’arricchimento – ma in un’accezione non necessariamente economica – conseguito dall’autore a fronte del pregiudizio subito dalla vittima) sia stato perseguito o realizzato sine causa o sine jure, in assenza cioè di condizioni giuridiche extrapenali legittimatrici; mentre esso va escluso rispetto ad ogni situazione in cui il vantaggio sia in qualche modo, direttamente o indirettamente, tutelato dall’ordinamento come giuridicamente rilevante.
Orbene, in tema di analisi dell’iniusta locupletatio con specifico riferimento all’ipotesi di truffa “in attività lavorativa”, va detto che, una volta accertata l’esplicazione della prestazione lavorativa richiesta, i singoli ratei di retribuzione costituiscono, in forza della sinallagmaticità dell’instaurato rapporto di pubblico impiego, il corrispettivo dovuto al lavoratore dalla pubblica amministrazione.
Mette conto infatti di osservare che, nel caso di nullità del contratto di lavoro per violazione di norme imperative, l’art. 2126 del codice civile, sia pure ai limitati fini dei diritti retributivi e previdenziali maturati in costanza di prestazioni lavorative, pone una fictio juris di validità del rapporto “di fatto”; e l’operatività della norma è estesa dal successivo art. 2129 anche al rapporto di pubblico impiego per i dipendenti da enti pubblici.
La giurisprudenza civile e amministrativa, in materia di assunzioni effettuate dalla pubblica amministrazione in violazione di regole o divieti imperativi, è assolutamente pacifica nel qualificare i rapporti in tal modo instaurati come radicalmente nulli, e quindi improduttivi di effetti, al di fuori del diritto del lavoratore al complessivo trattamento retributivo e previdenziale relativo al periodo in cui il rapporto ha avuto di fatto esecuzione, giusta la disciplina dettata dall’art. 2126 c.c. Il principio è stato ripetutamente affermato sia dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione in sede di riparto della giurisdizione (3.4.1998 n. 3465, 4.11.1996 n. 9531, 29.7.1995 n. 8304, 21.4.1994 n. 3779, 26.7.1994 n. 6960; 12.5.1989 n. 2171; 3.12.1988 n. 6566; 18.3.1988 n. 2490; 22.12.1987 n. 9615; 27.11.1987 n. 8830; 3.5.1986 n. 2993), che dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (29.2.1992 nn. 1 e 2, e 5 marzo 1992, nn. 5 e 6, cui si sono successivamente conformate le sezioni semplici, le quali si erano espresse in passato in senso contrario all’applicabilità dell’art. 2126 c.c. al pubblico impiego). Identificata poi la causa del contratto, secondo un consolidato insegnamento giurisprudenziale, con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata, ontologicamente distinta dallo scopo particolare che ciascuna delle parti persegue, si avverte che l’illiceità della medesima, la quale ai sensi dell’art. 2126 priva il lavoro prestato della tutela accordata al rapporto di lavoro nullo, “non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità, ma nel contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”.
Deve trattarsi, cioè, sia nell’ipotesi di contrarietà della causa a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343, sia nell’ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge ex art. 1344, sia nel caso di motivo illecito, comune alle parti e determinante, ex art. 1345, “dell’illiceità in senso forte, non semplicemente dell’illegalità che invalida il negozio o l’atto costitutivo del rapporto a norma dell’art. 1418”, poiché un’illiceità non intesa in questo senso rigoroso, dettata “per ragioni che non attengono a principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento, non si riflette in un giudizio d’illiceità della prestazione di lavoro” (Corte cost., 19.6.1990 n. 296; Cons. Stato, Ad. plen., 29.2.1992 n. 1 e 5.3.1992 n. 5, citt.; Cass., Sez. Un. civ., 8.5.1976 n. 1609). È infatti palese l’intenzione del legislatore di tutelare, con le disposizioni dell’art. 2126, le prestazioni effettivamente espletate dal lavoratore, “a meno che il contratto nullo non urti, con la partecipazione di entrambi i contraenti – che intenzionalmente attribuiscono al negozio come funzione obiettiva una comune finalità contraria alla legge -, con indirizzi vitali per l’integrità dell’ordinamento” o sia in contrasto con quei “valori giuridici considerati essenziali all’interno del sistema giuridico”, ovvero l’attività lavorativa resa configuri un oggetto illecito, risulti cioè intrinsecamente illecita per avere normalmente, per il suo contenuto, rilevanza penale. Dalla suesposta soluzione, la quale trova convincente base giustificativa in inequivoci argomenti di ordine letterale e sistematico risultanti dall’analisi ricostruttiva delle fonti normative richiamate, deve trarsi il logico corollario che la riscossione della retribuzione e degli altri emolumenti, sempreché non risulti conseguita sine causa o contra jus nel senso sopra delimitato, non configura gli eventi naturalistici consumativi del reato di truffa, quanto al duplice e speculare profilo dell’ingiusto profitto e del corrispondente danno economico – patrimoniale, bensì costituisce un postfatto penalmente irrilevante e non punibile.
4.2. – Ritiene peraltro il Collegio che anche l’opposto, di gran lunga prevalente, indirizzo ermeneutico (per il quale il danno economico – patrimoniale dell’amministrazione, e di conseguenza il momento consumativo della truffa finalizzata all’assunzione ad un pubblico impiego, è integrato all’atto, non della percezione delle retribuzioni corrispondenti all’esplicata attività lavorativa, bensì dello stesso indebito conseguimento della nomina, per le disfunzioni e spese di ordine vario che ne derivano) in tanto merita di essere condiviso, in quanto ad esso si apportino alcuni necessari chiarimenti di ordine logico-giuridico, onde evitare il rischio di un indebito allargamento dell’area di operatività dell’istituto, a tutela di interessi estranei al patrimonio della pubblica amministrazione ed attinenti invece al patrimonio di altri soggetti privati, ovvero alla regolarità delle procedure di assunzione nel pubblico impiego, sì che i peculiari caratteri pubblicistici della personalità del soggetto passivo del reato finirebbero con il fare premio sull’oggettiva configurazione della fattispecie criminosa.
I dubbi e le perplessità manifestati anche di recente in dottrina, circa la configurabilità di un evento consumativo di danno patrimoniale per la pubblica amministrazione nella cosiddetta truffa “in attività lavorative” mediante la produzione di una falsa documentazione, possono essere superati alla sola condizione che l’affermata esistenza dell’elemento costitutivo del danno, e perciò del reato previsto dall’art. 640 c.p., sia ancorata, nell’analisi ricostruttiva della norma incriminatrice, ad una solida base giustificativa di ordine fattuale ed oggettivo, che, in forza del principio di tipicità della fattispecie criminosa, ne escluda la ravvisabilità in re ipsa.
L’indirizzo giurisprudenziale nettamente prevalente perviene al menzionato risultato interpretativo individuando il danno per la pubblica amministrazione, di volta in volta: nel pregiudizio derivante dall’assunzione di persona carente dei necessari requisiti e dall’alterazione della graduatoria del concorso; nelle spese che l’amministrazione deve sostenere per riparare l’errore in cui è stata indotta, con i disservizi conseguenti alla modifica della graduatoria, alla nuova convocazione della commissione, alla vacanza del posto messo a concorso nel periodo di tempo fra la revoca del colpevole e la nomina dell’avente diritto; nel pregiudizio derivante per gli altri concorrenti esclusi dal ritardo nell’assunzione, essendo l’amministrazione tenuta a garantire il buon esito del concorso; negli oneri finanziari sostenuti dall’amministrazione medesima per istruire la domanda e perfezionare l’assunzione.
Orbene, a fronte di siffatte, invero generiche e tralaticie, affermazioni giurisprudenziali, sostanzialmente dettate dall’esigenza di reprimere comunque la condotta ingannevole dell’agente che resterebbe altrimenti elusa, sembra necessario delineare con chiarezza i termini economico-patrimoniali delle conseguenze dannose subite dalla pubblica amministrazione in conseguenza dell’indebita assunzione ad un pubblico impiego (essendo il profitto o il vantaggio “ingiusto” dell’agente, di natura lato sensu patrimoniale, immediatamente configurabile nell’attribuzione della posizione impiegatizia e nell’acquisizione del relativo status, con il conseguente diritto al futuro trattamento retributivo e previdenziale come corrispettivo dell’esplicando attività lavorativa).
Inammissibile appare innanzi tutto il ricorso a criteri di valutazione estranei alla nozione strettamente economico-patrimoniale ed effettiva dell’evento di danno proprio del delitto di truffa, con riferimento a conseguenze meramente virtuali del reato, quali le spese da sostenere per riparare l’errore e rettificare la graduatoria, indire le nuove procedure di assunzione per la copertura del posto con l’avente diritto ecc., oppure a conseguenze di natura non immediatamente patrimoniale, come l’assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e l’alterazione della graduatoria del concorso, o estrinseche rispetto all’ambito di tutela proprio della norma incriminatrice, quale il pregiudizio per gli altri concorrenti. Non può invece escludersi, in linea teorica, l’esistenza di un danno effettivo e immediato di natura stricto sensu economico-patrimoniale, configurabile nelle spese, esborsi ed oneri finanziari sostenuti dalla pubblica amministrazione nella procedura di costituzione del rapporto d’impiego: ad esempio, per istruire la pratica e perfezionare l’assunzione, informatizzare la posizione dell’impiegato con il correlato impegno di spesa nel bilancio, predisporre i locali dell’ufficio destinati alla sua collocazione, ed altro.
Danno “emergente” dunque, effettivo seppure di non rilevante entità, per la pubblica amministrazione, identificabile nel dispendio dell’attività lavorativa dei suoi dipendenti, nell’uso indebito dei macchinari utilizzati e nelle spese vive sostenute per le operazioni amministrative e contabili d’impianto e perfezionamento della pratica, ed altresì autonomo rispetto al profilo – di per sé irrilevante in una prospettiva strettamente patrimonialistica dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice – della distrazione di risorse economiche dagli scopi istituzionali dell’ente pubblico.
Deve rispondersi pertanto positivamente, nonostante le riserve manifestate in proposito dalla dottrina più recente, al quesito interpretativo se sia configurabile, in linea di principio, il delitto di truffa “in attività lavorativa” o “in assunzione ad un pubblico impiego”.
Trattasi di reato di natura istantanea che si consuma all’atto della costituzione del rapporto impiegatizio.
E però occorre che, prima, nella prospettazione accusatoria siano precisamente individuati i confini e, poi, nel giudizio sia dimostrata l’esistenza del danno, immediato ed effettivo, di contenuto economico-patrimoniale che la pubblica amministrazione ha subito all’atto e in funzione della costituzione del rapporto impiegatizio.
Non è infatti consentito fare riferimento, sul punto, a parametri meramente congetturali e arbitrari, la cui applicazione, in contrasto con il principio di tipicità della fattispecie penale, privi del requisito di patrimonialità l’offesa sanzionata dall’art. 640 c.p. o – il che espone l’operazione ad analoga censura – identifichi presuntivamente l’esistenza di un danno in re ipsa, finendo con il fissare il momento consumativo del reato antecedentemente al verificarsi di un’effettiva deminutio patrimonii economicamente valutabile e con il trasformare la truffa da reato di danno in reato di pericolo”.
Alla luce di questi chiari principi giurisprudenziali, deve essere annullata l’ordinanza impugnata.
Nella fattispecie il Tribunale del riesame, pur facendo formale ossequio all’orientamento delle Sezioni Unite, se ne distacca nell’applicazione pratica, escludendo che l’attività lavorativa prestata dalle indagate possa rientrare nella previsione del rapporto di lavoro di fatto di cui all’art. 2126 del codice civile.
Tale conclusione viene assunta sul rilievo che “sarebbe paradossale ed intimamente contraddittorio che l’ordinamento, da un lato, punisse con una sanzione penale il falso infermiere e, dall’altro, in forza di un malinteso principio di tutela del rapporto di fatto, ne salvaguardasse le retribuzioni.
Tale assunto deve essere censurato in quanto palesemente assurdo ed illogico.
Le Sezioni Unite hanno precisato che per integrarsi il concetto di illiceità in senso forte devono ricorrere le tre ipotesi previste dal codice civile della illiceità della causa, del negozio in frode alla legge e dei motivi illeciti comuni ad entrambi i contraenti. Orbene la seconda e la terza ipotesi non sono concepibili nel caso di specie. Rimane il problema della illiceità della causa che – evidentemente – l’ordinanza impugnata ascrive al reato di cui all’art. 348 c.p.
Senonché è palesemente illogico ritenere che la causa economico – sociale del rapporto di lavoro, in cui ciascuna imputata espletava una prestazione lavorativa in cambio di un salario, possa essere stata “assorbita” dalla concorrenza del reato di esercizio abusivo di una professione.
Il fatto che nel corso dell’attività lavorativa di fatto possano essere commessi dei reati, non comporta certamente un contrasto con “i valori giuridici considerati essenziali all’interno del sistema giuridico”, né tantomeno che l’attività lavorativa prestata si possa considerare “intrinsecamente illecita per avere normalmente, per il suo contenuto, rilevanza penale”.
Svolgere l’attività di infermiere in strutture ospedaliere, essendo privi della adeguata qualificazione professionale, se può eventualmente integrare il reato di cui all’art. 348 c.p., con riferimento a specifici atti di natura paramedica, non cambia la natura ontologica dell’attività lavorativa prestata e non rende intrinsecamente illecita l’ordinaria attività di pulizia o di assistenza ai malati espletata nel corso del rapporto di lavoro.
È appena il caso di rilevare che nella fattispecie non trova applicazione il principio di diritto affermato da questa Corte (Sez. 2, Sentenza n. 22170 del 09/05/2007 Ud. (dep. 06/06/2007) Rv. 236760), che ha statuito che:
“è configurabile il delitto di cui all’art. 640, comma secondo, cod. pen. nel caso in cui un soggetto stipuli contratti per la prestazione di servizi – successivamente effettuata – in favore di una P.A., ponendo in essere artifici o raggiri consistiti nel dichiarare falsamente l’esistenza delle condizioni e dei requisiti previsti per l’espletamento dell’attività pattuita, ed inducendo in errore l’ente pubblico anche sulle effettive modalità di esecuzione della prestazione, affidata a personale privo delle richieste capacità professionali. In tale caso, infatti, la riscossione degli importi liquidati quale corrispettivo delle prestazioni costituisce ingiusto profitto, cui corrisponde, per l’ente pubblico, il danno consistente nell’esborso di pubblico denaro in cambio di servizi espletati da soggetti non qualificati”.
Tale orientamento, a ben vedere, non smentisce né supera l’insegnamento delle Sezioni Unite, espresso con la sentenza n. 1/1999, afferendo ad una diversa fattispecie. L’ultima sentenza, infatti, si riferisce ad una ipotesi di appalto di servizi sanitari, ottenuto fraudolentemente, attraverso mendaci dichiarazioni sulle capacità professionali del personale utilizzato dal soggetto gestore del servizio.
È evidente, infatti, che alle prestazioni che hanno per oggetto l’appalto di servizi non può applicarsi il principio della irripetibilità delle prestazioni lavorative del lavoratore subordinato, di cui all’art. 2126 c.c. Pertanto le somme sborsate dall’Ente pubblico in esecuzione di un contratto di appalto fraudolentemente instaurato, ben possono costituire una specifica voce di danno patrimoniale. La diversa natura delle situazioni giuridiche considerate non consente di assimilare la fattispecie della prestazione di attività lavorativa sotto forma di lavoro subordinato a quella del contratto di appalto.
Di conseguenza l’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio e deve essere annullato il provvedimento di sequestro emesso dal Gip presso il Tribunale di Cosenza in data 28/11/2008, restando, così, assorbito ogni altro motivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato, nonché il provvedimento di sequestro emesso dal Gip presso il Tribunale di Cosenza in data 28/11/2008, nei confronti di A.M.F., e di P.F.M. disponendo la restituzione alle aventi diritto dei beni in sequestro.
Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.