Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-09-2011, n. 19449 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – F.G. e F.F. convennero in giudizio il Comune di S. Onofrio, chiedendone la condanna al pagamento dell’indennità dovuta per l’occupazione d’urgenza di un fondo di loro proprietà sito in (OMISSIS), alla località (OMISSIS), nonchè a risarcimento dei danni per la perdita della proprietà dell’immobile, irreversibilmente destinato alla realizzazione di un’opera pubblica.

1.1. – Con sentenza del 14 settembre 1999, il Tribunale di Vibo Valentia accolse la domanda.

2. – L’impugnazione proposta dal Comune è stata accolta dalla Corte d’Appello di Catanzaro, che con sentenza del 29 settembre 2004 ha liquidato il risarcimento in Euro 1.149,46, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme annualmente rivalutate, e l’indennità di occupazione in Euro 28.73 per l’anno 1985, Euro 57,47 per ciascun anno compreso tra il 1986 ed il 1990, Euro 114,94 per ciascun anno compreso tra il 1991 ed il 1993, ed Euro 95,78 per l’anno 1994, oltre interessi legali dalle singole scadenze annuali.

Premesso che dalla documentazione acquisita emergeva la natura agricola dell’area occupata, conseguente alla destinazione urbanistica non preordinata all’esproprio ed all’esistenza di un vincolo d’inedificabilità assoluta, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha affermato che il risarcimento doveva essere liquidato non già in base al criterio di cui alla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65, ma in base al valore di mercato del bene, precisando che l’esclusione della natura edificatoria del fondo non ne comportava necessariamente una stima correlata all’utilizzazione agricola, essendo siffatta valutazione prescritta ai soli fini della determinazione dell’indennità di esproprio.

Ciò posto, e rilevato che dalla documentazione prodotta non risultavano possibilità di utilizzazione diverse da quella agricola, la Corte ha disatteso la stima compiuta dal c.t.u., avendo quest’ultimo riconosciuto all’immobile potenzialità edificatorie in base ad una precedente sentenza intervenuta tra le stesse parti in relazione all’occupazione appropriativa di un fondo limitrofo, ma avente caratteristiche diverse. Ha quindi ritenuto che l’unico elemento di valutazione utilizzabile fosse costituito dal valore del fondo dichiarato dagli attori nella denunzia di successione presentata alla morte della madre, che ha rivalutato con riferimento alla data di cessazione dell’occupazione legittima.

3. – Avverso la predetta sentenza i F. propongono ricorso per cassazione, articolato in due motivi.

Il Comune non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. e dell’art. 324 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della determinazione del valore dell’area occupata, non ha tenuto conto della sentenza richiamata dal c.t.u., che aveva riconosciuto al fondo potenzialità edificatorie.

Sostengono infatti che tale sentenza, pronunciata tra le stesse parti e passata in giudicato, faceva stato ai fini dell’accertamento della natura dell’immobile e del suo valore, avendo ad oggetto il risarcimento dei danni per la perdita della proprietà di una porzione attigua del medesimo fondo, precedentemente occupata per la realizzazione di un’altra opera pubblica.

1.1. – Il motivo è infondato.

L’autorità del giudicato sostanziale, operando entro i rigorosi limiti degli e-lementi costitutivi dell’azione, presuppone che la causa in atto sia caratterizzata, rispetto a quella definita con la precedente sentenza, da identità non solo dei soggetti e del petitum, anche della causa petendi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 20 aprile 2011, n. 9043; Cass., Sez. 1^, 27 gennaio 2006, n. 1760; Cass., Sez. 3^, 19 luglio 2005, n. 15222). Tale identità non è riscontrabile nel caso di specie, in quanto, come precisano gli stessi ricorrenti, il giudizio definito con la sentenza invocata, pur vertendo tra le stesse parti ed avendo ad oggetto anch’esso una domanda di risarcimento del danno per occupazione appropriati va, traeva origine da una vicenda ablatoria diversa da quella cui si riferisce la pretesa azionata nel presente giudizio, il quale, pertanto, si contraddistingue per una distinta causa petendi.

Quest’ultima, infatti, con riguardo alle domande volte a far valere diritti di credito, tra le quali va annoverata quella di risarcimento dei danni, non è identificabi-le puramente e semplicemente nel diritto affermato, non trattandosi di domande autodeterminate, per le quali cioè l’individuazione del diritto azionato prescinde dal titolo e si motiva in relazione alla natura unica ed irripetibile della situazione sostanziale posta a fondamento della pretesa, ma di domande eterodeterminate, la cui identificazione ha luogo in funzione del fatto storico dal quale trae origine la pretesa, sicchè la causa petendi si risolve nel riferimento a quel fatto specifico che è affermato ed allegato come costitutivo del diritto fatto valere (cfr.

Cass., Sez. Un., 22 maggio 1996, n. 4712; Cass., Sez. 1^, 6 agosto 1997, n. 7267).

La diversità dell’occupazione cui si riferiva la sentenza invocata rende ragione anche dell’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui, nonostante la contiguità alla porzione di fondo la cui ablazione ha costituito oggetto del precedente giudizio, quella della cui occupazione si discute in questa sede presenta caratteristiche intrinseche differenti, che impediscono di attribuire alla stessa il medesimo valore di mercato accertato nella predetta sentenza. Gli stessi ricorrenti riconoscono infatti che la precedente occupazione fu disposta ai fini dell’ampliamento del cimitero comunale, per effetto del quale la porzione di fondo che ha costituito oggetto della nuova occupazione è venuta a ricadere nella zona di rispetto cimiteriale, caratterizzata da un vincolo di inedificabilità assoluta, la cui imposizione è stata correttamente tenuta in considerazione dalla sentenza impugnata, in ossequio al principio, costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui la determinazione del valore di mercato del fondo, ai fini della liquidazione del danno derivante dall’occupazione appropriativa, dev’essere effettuata alla stregua della classificazione urbanistica e delle possibilità effettive di utilizzazione dell’immobile da accertarsi con riferimento al momento del verificarsì della vicenda ablatoria (cfr.

Cass., Sez. 1^, 16 aprile 2003, n. 6009; 21 giugno 2002, n. 9082; 18 febbraio 2000, n. 1816).

2. – E’ invece fondato il secondo motivo, con cui i ricorrenti deducono, in via subordinata, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, per effetto della mancata considerazione della sentenza richiamata dal c.t.u., ha determinato il valore dell’area occupata sulla base di elementi aliunde acquisiti, aventi rilevanza esclusivamente fiscale.

2.1. – Accertato che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, il fondo occupato non aveva natura edificatoria, la Corte d’Appello ha disatteso le conclusioni del c.t.u. nominato in primo grado, il quale, richiamando anche la precedente sentenza, aveva determinato il valore dell’immobile sulla base di affermate potenzialità edificatorie, contrastanti con la sua classificazione urbanìstica.

Ritenuto inoltre che, vertendosi in tema non già di determinazione dell’indennità di esproprio ma di liquidazione del danno per occupazione appropriati va, l’esclusione della vocazione edificatoria non comportasse necessariamente l’attribuzione di un valore commisurato all’utilizzazione agricola, essa si è posta il problema dell’individuazione di altre eventuali possibilità di sfruttamento del fondo, risolvendolo tuttavia in senso negativo, in considerazione della mancata allegazione di elementi idonei a fornirne la prova, ed ha pertanto concluso che l’unico elemento utilizzabile, ai fini della valutazione del fondo, fosse costituito dal valore dichiarato dagli stessi ricorrenti nella denuncia di successione presentata all’epoca della morte della madre, originaria proprietaria dell’immobile.

Il procedimento in tal modo seguito risulta corretto, sotto il profilo logico-giuridico, nella parte in cui ha escluso la possibilità di tener conto, ai fini della valutazione delle possibilità di utilizzazione dell’immobile, della cd. edificabilità di fatto, la quale, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha carattere meramente residuale, assumendo rilievo esclusivamente in via suppletiva, ai fini dell’individuazione della vocazione edificatoria del fondo in carenza di strumenti urbanistici generali, ovvero in via integrativa, ai fini della determinazione del valore dell’immobile in presenza di una vocazione edificatoria accertata alla stregua degli strumenti urbanistici vigenti (cfr. tra le altre, Cass., Sez. 1^, 26 novembre 2008, n. 28282; 26 giugno 2007, n. 14783; 28 maggio 2004, n. 10280; 1 febbraio 2000, n. 1090).

Condivisibile appare anche l’affermazione secondo cui la riconosciuta inedificabilità ex lege del fondo e la conseguente impossibilità di darne una valutazione correlata a supposte potenzialità di sfruttamento edificatorio non comportano necessariamente che, nella determinazione del suo valore, debba farsi riferimento esclusivamente ad un’utilizzazione agricola, avendo questa Corte affermato che tale conseguenza era prevista soltanto ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, per la cui determinazione il D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5 bis, introdotto dalla legge di conversione 8 agosto 1992, n. 359, contemplava una netta dicotomia tra le aree edificabili (per le quali l’indennizzo doveva essere determinato secondo i criteri stabiliti dai primi due commi del medesimo articolo) e tutte le altre aree (per le quali la liquidazione doveva aver luogo in base ai criteri di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, artt. 15 e 16, richiamati dall’art. 5 bis, comma 4). Anche in materia di liquidazione dell’indennità di espropriazione, peraltro, la rilevanza di tale distinzione è destinata a scemare per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 del 2007 e n. 181 del 2011, con cui sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi da un lato i primi due commi dell’art. 5 bis, e dall’altro il comma quarto del medesimo articolo, in combinato disposto con la L. n. 865 del 1971, artt. 15 e 16, con la conseguente reviviscenza, per entrambe le tipologie di immobili, del criterio del valore venale previsto dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 40. In ogni caso, con riguardo ai suoli non aventi vocazione edificatoria, la necessità di fare riferimento, ai fini della liquidazione del danno da occupazione appropriativa, al giusto prezzo che sarebbe stato riconosciuto in una libera contrattazione, e quindi di tener conto delle caratteristiche obbiettive ed intrinseche dell’immobile e delle possibilità di sfruttamento dello stesso permesse dagli strumenti di pianificazione del territorio, ha indotto questa Corte a ritenere che al proprietario sia consentito di dimostrare che il fondo, ancorchè non edificabilc, sia suscettibile di utilizzazioni ulteriori e diverse da quella agricola, che ne comportino un’effettiva valutazione di mercato diversa ed eventualmente più favorevole rispetto ai valori tabellari di cui alla L. n. 865 del 1971, artt. 15 e 16 (cfr. Cass., Sez. 1^, 26 maggio 2010, n. 12862; 6 novembre 2008, n. 26615; 26 giugno 2007, n. 14783).

La sentenza impugnata non appare invece condivisibile nella parte in cui, alla luce dell’errata valutazione del regime urbanistico del fondo da parte del c.t.u. e della mancata allegazione di circostanze idonee ad evidenziare possibilità di utilizzazione diverse da quella agricola, ha fatto riferimento, ai fini della valutazione dell’immobile, al valore indicato nella denuncia di successione. Tale scelta non appare infatti giustificata nè dall’inattendibilità delle conclusioni cui era pervenuto il c.t.u., cui si sarebbe potuto porre rimedio mediante la rinnovazione delle indagini, nè dalla considerazione che la dichiarazione, resa al di fuori del giudizio, non era stata contestata dalle parti nè rettificata dall’Ufficio competente. L’estraneità della denuncia di successione alla vicenda processuale in esame e l’interesse del denunciante a contenere il valore dichiarato, al fine di limitare gli oneri tributari connessi alla successione, non fanno infatti venir meno la sua natura di atto di parte, la cui mancata contestazione ad opera del Comune non appare di per sè sufficiente, in assenza di altri elementi, a farne ritenere attendibili le risultanze, non essendo stata neppure precisata la fonte da cui è stata desunta la mancata rettifica.

Decisivo appare poi il lungo periodo trascorso tra la data della denuncia, presentata il 22 novembre 1985, e quella della consumazione dell’illecito, con riferimento alla quale dev’essere determinato il valore del fondo: come emerge dalla sentenza impugnata, l’ablazione della proprietà ha infatti avuto luogo alla scadenza dell’occupazione legittima, verificatasi il 10 ottobre 1994, e quindi a circa nove anni di distanza della presentazione della denuncia, le cui risultanze non possono quindi ritenersi significative, non essendo stato neppure accertato se in tale lasso di tempo siano intervenute apprezzabili variazioni nello stato dei luoghi e nel mercato immobiliare.

3. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dall’accoglimento del secondo motivo, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello di Catanzaro, che provvederà, in diversa composizione, anche alla liquidazione delle spese relative alla fase di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di Appello di Catanzaro, anche per la liquidazione delle spese processuali.

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