Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-02-2011) 23-05-2011, n. 20285 Attenuanti comuni generiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

missibilità del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 25 maggio 2010 la Corte di appello di Torino riformava la sentenza emessa in data 16 maggio 2005 dal Tribunale di Asti con la quale S.S. era stato dichiarato colpevole del reato, accertato in (OMISSIS), di ricettazione, così qualificato il fatto originariamente ascritto come riciclaggio, ed era stato condannato, ravvisata l’ipotesi attenuata prevista dall’art. 648 c.p., comma 2, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 300,00 di multa. La Corte di appello riduceva la pena a mesi sei di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

Avverso la predetta sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.

Con il ricorso si deduce:

1) l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale quanto alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico (dolo specifico) avendo l’imputato dichiarato nel corso del giudizio di appello di aver ricevuto il ciclomotore oggetto del reato di ricettazione da un suo cugino, del quale aveva indicato le generalità, nè potendo configurarsi nel caso di specie un’ipotesi di dolo eventuale;

2) la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione circa la consapevolezza da parte dell’imputato della provenienza delittuosa del ciclomotore, ricevuto da un congiunto all’interno di un campo nomadi in cui è consolidato l’uso comune dei beni; comunque il mero rifiuto dell’imputato di fornire indicazione sull’origine della res non potrebbe fondare la certezza dell’origine delittuosa del bene, anche in virtù del principio nemo tenelur se delegere: difetterebbe inoltre la motivazione circa la qualificazione giuridica del fatto, il diniego delle circostanze attenuanti generiche, la congruità della pena e la mancata assoluzione.

Il ricorso è inammissibile.

Il primo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato.

Nella motivazione della sentenza impugnata si fa infatti rilevare che solo nel corso del giudizio di appello l’imputato, contumace in primo grado, è comparso per dichiarare spontaneamente di aver ricevuto il ciclomotore di provenienza delittuosa da un suo cugino di cui ha indicato nome e cognome, senza fornire tuttavia alcun ulteriore elemento di identificazione, e di non essersi reso conto dell’origine illecita del mezzo. Il giudice di appello ha osservato che attraverso la scelta, certamente legittima, del mezzo dichiarativo spontaneo l’imputato si è sottratto al "rischio di domande o contestazioni penetranti e possibilmente sgradevoli" e che tale scelta "limita ovviamente il significato dell’esposizione, in quanto tale puramente labiale e del tutto incontrollabile, dunque tamquam non esset". La Corte territoriale ha quindi ritenuto – con argomentazioni logiche e razionali che nel ricorso non vengono confutate specificamente, essendosi il ricorrente limitato invece a ribadire di aver ricevuto il mezzo fidando nella buona fede del congiunto che glielo aveva ceduto – che le tardive dichiarazioni del S. fossero da un lato generiche e, dall’altro lato, irrilevanti poichè l’imputato non aveva comunque mai esibito il documento di circolazione del ciclomotore, che presentava il numero del telaio alterato con il "metodo dei puntini" facilmente riscontrabile anche da persona non esperta, concludendo per l’inattendibilità della tardiva e approssimativa dichiarazione difensiva dell’imputato. Nella sentenza impugnata, con una puntuale applicazione dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità in materia di ricettazione, l’assenza di plausibili spiegazioni in ordine alla legittima acquisizione del ciclomotore si pone pertanto come coerente e necessaria conseguenza di un acquisto illecito. Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione, è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorchè siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto. La conoscenza della provenienza delittuosa della cosa, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass. sez. 2 11 giugno 2008 n. 25756, Nardino; sez. 2 27 febbraio 1997 n. 2436, Savie), può inoltre desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell’imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede. Del resto, come questa Corte ha recentemente affermato (Cass. Sez. Un. 26 novembre 2009 n. 12433, Nocera; sez. 1 17 giugno 2010 n. 27548, Screti), l’elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio.

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte territoriale ha ritenuto, infatti, "incontrollabile" e comunque irrilevante l’affermazione difensiva secondo la quale nel campo nomadi tutti usassero il ciclomotore in questione, alla cui guida era stato comunque sorpreso l’imputato il quale solo nel corso del giudizio di appello aveva fatto riferimento al cugino come colui da cui aveva ricevuto il mezzo. Del resto – ha osservato il giudice di appello – non il possesso in sè del ciclomotore di provenienza illecita, ma la mancanza di giustificazioni sulla ricezione del mezzo (e, successivamente, l’inattendibilità delle giustificazioni rese nel corso del giudizio di appello) costituiva un elemento idoneo a far ritenere sussistente l’elemento soggettivo del reato di ricettazione. Quanto al rilievo difensivo relativo al diritto al silenzio dell’imputato, la Corte rileva che comunque al giudice non è preclusa la valutazione della condotta processuale del giudicando, unitamente ad ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del libero convincimento, può ben considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio mantenuto dall’imputato su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo (Cass. sez. 2 21 aprile 2010 n. 22651, Di Perna; sez. 5 14 febbraio 2006, n. 12182, Ferrara; sez. 4 9 febbraio 1996, n. 3241, Federici).

Il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è stato, a parere della Corte, adeguatamente motivato dal giudice di merito attraverso il riferimento ai precedenti penali specifici dell’imputato. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talchè la stessa motivazione, purchè congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Cass. sez. 6 24 settembre 2008 n. 42688, Caridi; sez. 6 4 dicembre 2003 n. 7707, Anaclerio). Pertanto il diniego delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente fondato anche sull’apprezzamento di un solo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che sia ritenuto prevalente rispetto ad altri (Cass. sez. 6 28 maggio 1999 n. 8668, Milenkovic).

La concessione o meno delle attenuanti generiche rientra, in conclusione, nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Cass. sez. 6 28 ottobre 2010 n. 41365, Straface).

In ordine alla pena, sensibilmente ridotta dal giudice di appello, appare sufficiente il richiamo, tra i criteri di valutazione previsti dall’art. 133 c.p., all’entità del fatto e alla capacità a delinquere. Allorchè la pena, come nel caso in esame, non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, l’obbligo motivazionale previsto dall’art. 125 c.p.p., comma 3 deve infatti ritenersi assolto anche attraverso espressioni che manifestino sinteticamente il giudizio di congruità della pena o richiamino sommariamente i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 c.p. (Cass. sez. 6 12 giugno 2008 n. 35346, Bonarrigo; sez. 3 29 maggio 2007 n. 33773, Ruggieri).

Le doglianze difensive circa la qualificazione giuridica sono, infine, del tutto generiche.

Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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