Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-02-2011) 23-05-2011, n. 20284

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 1 dicembre 2009 la Corte di appello di Roma confermava la sentenza emessa in data 8 novembre 2005 dal Tribunale di Roma con la quale L.P.S. era stata dichiarata colpevole del reato di occupazione abusiva di un locale sottotetto di proprietà dell’I.A.C.P., accertato il (OMISSIS) e permanente alla data della sentenza di primo grado, ed era stata condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi uno di reclusione.

Avverso la predetta sentenza l’imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.

Con il ricorso si deduce la mancanza o manifesta illogicità della motivazione in quanto la responsabilità dell’imputata sarebbe stata affermata esclusivamente sulla base del difetto di un legittimo titolo di occupazione da parte del precedente possessore, tale F.L., senza considerare che la L.P. era in possesso di una dichiarazione della F. e che, quindi, il suo possesso era legittimo benchè in violazione della disciplina dell’assegnazione degli alloggi I.A.C.P., circostanza quest’ultima rilevante tuttavia solo sotto il profilo amministrativo (ai sensi della L. n. 513 del 1977, art. 26, comma 4 che sanziona l’occupazione di un immobile senza le necessarie autorizzazioni) o civilistico; nel caso di specie difetterebbe, comunque, l’elemento soggettivo del reato contestato, considerate le modalità con le quali l’imputata era venuta in possesso dell’alloggio e la "dichiarazione formale di occupazione resa dalla precedente occupante"; la Corte territoriale avrebbe, infine, erroneamente respinto la richiesta di riduzione di pena, omettendo di valutare la personalità dell’imputata e la modesta rilevanza del fatto.

Il ricorso è inammissibile perchè fondato su una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione la cui valutazione è compito esclusivo del giudice di merito ed è inammissibile in questa sede, essendo stato comunque l’obbligo di motivazione esaustivamente soddisfatto nella sentenza impugnata con valutazione critica di tutti gli elementi offerti dall’istruttoria dibattimentale e con indicazione, pienamente coerente sotto il profilo logico-giuridico, degli argomenti a sostegno dell’affermazione di responsabilità. La ricorrente si limita peraltro a reiterare doglianze riguardanti aspetti già adeguatamente valutati, con motivazione razionale e giuridicamente corretta, dalla Corte territoriale.

Quanto al preteso legittimo titolo di occupazione da parte della persona che occupava l’alloggio I.A.C.P. prima dell’imputata, la Corte territoriale ha infatti rilevato che nè dalla deposizione testimoniale del funzionario I.A.C.P. Fe. nè dalla documentazione acquisita risultava che l’immobile in questione fosse legittimamente occupato da tale F.L., la cui dichiarazione scritta, peraltro, "autorizzava" la L.P. unicamente a "prendere la residenza nell’appartamento", il che non implicava necessariamente un’occupazione stabile ed esclusiva dell’alloggio. La Corte territoriale ha osservato, inoltre, che la versione difensiva, tendente a escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato (la F. avrebbe detto all’imputata di occupare legittimamente l’immobile), risultava confermata solo da testi non disinteressate, quali la madre della L.P. e una sua "comare".

Il giudice di appello quindi ha ritenuto che la versione difensiva della cessione dell’immobile da parte del precedente occupante non trovasse adeguato riscontro nelle emergenze processuali (costituite, oltre che dalla dichiarazione scritta di tale F.L., da dichiarazioni testimoniali scarsamente credibili circa le "garanzie" che la F. avrebbe attribuito sulla legittimità del suo possesso dell’alloggio) ed ha, comunque, escluso, con argomentazione logicamente coerente, la rilevanza stessa della dichiarazione scritta esibita dall’imputata il cui contenuto non consentiva di ipotizzare che la precedente occupante avesse inteso permettere il subingresso nell’alloggio della D.P. che vi era rimasta per circa tre anni (dopo che l’imputata si era presentata, il 31 ottobre 2000, all’I.A.C.P. per dichiarare di aver occupato il sottotetto). Del resto nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen. la nozione di "invasione" non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce "arbitrariamente", cioè senza il consenso dell’avente diritto al possesso od alla detenzione ovvero, in mancanza di questo, senza la legittimazione conferita da una norma giuridica o da un’autorizzazione dell’autorità (Cass. sez. 2 30 maggio 2000 n. 8107, Pompei; sez. 2 27 novembre 2003 n. 49169, Minichini; sez. il 9 ottobre 2008 n. 40822, Iaccarino).

Quanto alla possibilità di ravvisare nel caso di specie solo l’illecito amministrativo previsto dalla L. n. 513 del 1977, art. 26, comma 4 che sanziona l’occupazione di un alloggio di edilizia popolare senza le autorizzazioni necessarie, la Corte rileva che detta norma, a differenza della fattispecie penale prevista dall’art. 633 c.p., non è diretta a salvaguardare l’inviolabilità del patrimonio immobiliare pubblico o privato nei confronti di atti che compromettano il rapporto esistente tra i beni ed i loro possessori e prescinde comunque dall’arbitrarietà delle condotte degli autori, avendo come fine l’evitare del consolidarsi di talune situazioni in contrasto con la legittima distribuzione degli alloggi agli aventi diritto attraverso comportamenti di mera occupazione (Cass. sez. 2 2 dicembre 1999 n. 2697, Panelli; sez. 2 1 ottobre 2008 n. 38801.

Trombetta).

Quanto alla doglianza relativa alla pena, la Corte la ritiene manifestamente infondata. Appare infatti sufficiente, in considerazione dell’entità della pena determinata nella sentenza impugnata (mesi uno di reclusione), il richiamo, tra i criteri di valutazione previsti dall’art. 133 c.p.. unicamente alla gravità del fatti e, in particolare, alla protrazione dell’occupazione per quasi tre anni. Allorchè la pena, come nel caso in esame, non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, l’obbligo motivazionale previsto dall’art. 125 c.p.p., comma 3 deve peraltro ritenersi assolto anche attraverso espressioni che manifestino sinteticamente il giudizio di congruità della pena o richiamino sommariamente i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 c.p. (Cass. sez. 6 12 giugno 2008 n. 35346, Bonarrigo;

sez. 3 29 maggio 2007 n. 33773, Ruggieri).

Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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