Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-04-2011) 24-05-2011, n. 20566 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 28 luglio 2010 il Tribunale di Milano rigettava la richiesta di riesame formulata da I.G. e, per l’effetto, confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti il 5 luglio 2010 dal gip del locale Tribunale in ordine al delitto di cui all’art. 378 c.p., aggravato ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.

A I. è contestato di avere favorito, in concorso con altre persone, la latitanza di L.P. e M.A. (elementi di spicco della cosca Arena), destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 16 aprile 2009 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro per i delitti di associazione di stampo mafioso, omicidio ed altro.

I due latitanti venivano, successivamente, arrestati dai CC di Pontremoli il 5 giugno 2009. L. veniva trovato in possesso di una carta di identità e di una patente di guida contraffatte mediante l’indicazione dei dati anagrafici di B.D. e l’apposizione della foto dello stesso L., nonchè di una tessera sanitaria intestata a quest’ultimo. M.A. a sua volta veniva scoperto in possesso di una carta d’identità e di una tessera sanitaria intestate a B.A.D.. 1 giudici evidenziavano che tali documenti erano quelli che, secondo quanto emergente dal contenuto delle intercettazioni, erano stati procurati dal "ragioniere".

I. è accusato di essersi occupato di prenotare presso il "bed and breakfast" di proprietà della sua famiglia, posto in (OMISSIS), una camera per i due latitanti dopo una serie di contatti telefonici in linguaggio convenzionale con altre persone, addette a gestire la latitanza dei due uomini, e di avere provveduto a tutte le loro necessità prima dell’arresto, tenendo informati altri referenti della buona riuscita dell’attività di assistenza.

Il Tribunale riteneva sussistenti le esigenze cautelari sotto il profilo dell’art. 274 c.p.p., lett. c), tenuto conto della gravità delle condotto poste in essere, funzionali a garantire la piena operatività del sodalizio di stampo mafioso in cui erano inseriti i due latitanti, e della ramificazione dei contatti intrattenuti da I. con altri componenti dell’organizzazione. Unica misura adeguata veniva ritenuta quella della custodia cautelare in carcere, tenuto conto della elevata pericolosità insita nei comportamenti criminosi ascritti a I..

2. Avverso la citata ordinanza ha proposto ricorso per cassazione personalmente I., il quale lamenta: a) violazione dei canoni di valutazione probatoria con riferimento alla ritenuta sussistenza del quadro di gravità indiziaria in relazione al delitto di cui all’art. 378 c.p. di cui mancano gli elementi costitutivi con specifico riferimento all’elemento soggettivo; b) violazione di legge e vizio della motivazione circa la configurabilità dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7; c) violazione di legge e carenza della motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari e al rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza nella scelta della misura.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Con riferimento alla prima censura il Collegio osserva che, ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’art. 378 c.p. occorre, quale presupposto obiettivo, che sia stato in precedenza commesso un fatto conforme ad una fattispecie criminosa. Pur vertendosi in un’ipotesi di reato di pura condotta, l’aiuto alla elusione delle investigazioni dell’autorità deve essere potenzialmente idoneo al conseguimento di un tale risultato e deve essere, inoltre, consapevolmente diretta ad inserirsi nell’ambito operativo di detta autorità, pur non essendo poi necessario che quest’ultima sia effettivamente fuorviata (cfr. Sez. 6^, 8 novembre 1996, n. 10851).

Le indagini e le ricerche, relative al reato presupposto, possono spaziare dall’accertamento materiale del fatto alla individuazione del soggetto responsabile.

Per la sussistenza del reato è sufficiente il dolo generico che consiste nella volontà cosciente di aiutare una persona a sottrarsi alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità. Occorre, cioè, che l’agente abbia volontariamente posto in essere una condotta che consapevolmente si traduca, comunque, in un aiuto a favore di colui che si sa essere sottoposto alle investigazioni o alle ricerche.

2. Esaminata in quest’ottica la motivazione del provvedimento impugnato è all’evidenza esente dal vizio denunciato. Infatti il Tribunale, con puntuale richiamo alle emergenze processuali (contenuto delle intercettazioni disposte, esiti dei servizi di osservazione e di pedinamento, risultanze delle attività di perquisizione e sequestro) e con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, ha ricostruito le condotte poste in essere dal ricorrente, consistite nel trovare una sistemazione alloggiativa sicura, lontana dai luoghi di abituale dimora, per L.P. e M.A., entrambi elementi di spicco di un’articolata associazione di stampo mafioso "Arena" operante in Calabria e in Lombardia, ricercati per gravi delitti a seguito dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 16 aprile 2009 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, nel fungere da tramite tra i gestori del "bed and breakfast", gestito da suoi familiari, ed altri correi addetti a garantire la sicurezza dei due latitanti, nel concertare con altri complici il trasferimento sicuro dei due latitanti in un rifugio gestito da persone di fiducia.

L’ordinanza impugnata ha puntualmente evidenziato il fattivo e consapevole contributo causale fornito, con le condotte in precedenza descritte da I. che, ben conscio della caratura criminale di L. e M., si adoperava nell’adottare ogni opportuna cautela per assicurare il trasferimento e la permanenza dei due latitanti in un luogo non facilmente individuabile.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di I. in ordine al delitto di favoreggiamento aggravato a lui contestato.

Di talchè, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

3. Priva di pregio è, all’evidenza, anche la seconda doglianza.

3.1. Il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Cass. Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327, rv. 197430).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

3.2. L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in precedenza illustrati, laddove ha correttamente valorizzato, ai fini della configurabilità dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 il ruolo di elementi di spicco dell’organizzazione mafiosa rivestito dai latitanti L. e M., la notorietà del loro ruolo avuto riguardo all’ambito di operatività del sodalizio, nonchè la circostanza che l’aiuto fornito ai capi per dirigere da latitanti l’associazione concretizza un aiuto all’intera organizzazione la cui operatività sarebbe compromessa dal loro arresto. Sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l’intenzione del favoreggiatore di favorire anche il sodalizio allorchè risulti che, come nel caso di specie, abbia prestato consapevolmente aiuto a due associati di rilievo.

4. Anche l’ultima censura è manifestamente infondata.

Il provvedimento impugnato ha correttamente fondato il giudizio di sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., lett. c), e la valutazione di proporzionalità e adeguatezza della custodia cautelare in carcere sulla qualità e la natura del delitto realizzato, sulle sue modalità di consumazione, sulla intensità dei legami intercorrenti tra I. e gli altri complici, sulla pervasività dell’associazione di stampo mafioso che ha tratto vantaggio dall’aiuto fornito dall’indagato.

5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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