Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 06-04-2011) 24-05-2011, n. 20506 Vendita di prodotti industriali con segni mendaci

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza 14 novembre 2007, il Tribunale di Taranto ha ritenuto S.S., responsabile del reato previsto dall’art. 474 c.p.;

– e lo ha condannato alla pena di giustizia- per avere introdotto dalla Repubblica cinese borse recanti il marchio "Fendi" contraffatto in maniera da indurre in errore l’acquirente circa la origine e la provenienza del prodotto.

Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto appello e la Corte territoriale lo ha assolto dal reato previsto dall’art. 517 c.p., così modificata la originaria rubrica, con la formula perchè il fatto non sussiste. A sostegno della conclusione, i Giudici hanno evidenziato come le borse in oggetto non presentassero il marchio Fendi, ma un logo simile a quello della Ditta Fendi (realizzato contrapponendo al posto di due effe maiuscole una effe ed una elle maiuscole) e tale imitazione era idonea a ledere la lealtà e la correttezza degli scambi commerciali. Tuttavia, la detenzione del prodotto con segni mendaci nei depositi dell’imputato non integrava, nel caso, la fattispecie dell’art. 517 c.p. in quanto gli stessi non erano stati immessi sul mercato.

Per l’annullamento della sentenza, ha proposto ricorso in Cassazione la parte civile deducendo violazione di legge, in particolare, rilevando:

– che, nel marchio sulle borse, la sovrapposizione delle lettere ingenera la stessa impressione visiva del marchio Fendi ed è tale da creare confusione: si è realizzata la contraffazione dei segni distintivi del prodotto e non la semplice imitazione del marchio per cui la condotta integrava gli estremi del reato originariamente contestato;

– che, comunque, la merce con la collocazione nei magazzini doveva considerarsi immessa sul mercato.

Il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso riportandosi integralmente a quello della parte civile.

2) L’ultima impugnazione difetta della necessaria specificità dei motivi richiesta dall’art. 581 c.p.p., lett. c), art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) a pena di inammissibilità; tale requisito, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, implica, a carico della parte impugnante, non solo l’onere di dedurre le censure che intende muovere su uno o più punti del gravato provvedimento, ma anche quello di indicare in modo chiaro, anche se conciso, gli elementi che sono alla base delle deduzioni in modo da consentire al giudice della impugnazione di individuare i rilievi proposti e di esercitare il suo sindacato (ex plurimi: Cass. Sez. 3 sentenza 5020/2010).

In applicazione di questi principi, si deve escludere che siffatto onere sia adempiuto con il semplice rinvio per relationem alle censure formulate dalla parte civile senza una indicazione, nemmeno sommaria, delle ragioni del dissenso dalla decisione impugnata e senza una autonoma e personale valutazione della congruità del contenuto del gravame della parte privata cui il Procuratore Generale aderiva (ex plurimis: Sez. 6 sentenza 43207/2010).

3) Prima di analizzare il residuo ricorso è opportuno rammentare la costante giurisprudenza di legittimità inerente alle differenze strutturali tra le fattispecie di reato previste dall’art. 474 c.p. e dall’art. 517 c.p. (ex plurimis : Cass. Sez. 5 sentenza 31482/2007).

La prima – che punisce chi pone in commercio prodotti con marchi o segni distintivi falsi, contraffatti, alterati – tutela in via principale e diretta non la libera determinazione dell’acquirente, ma l’affidamento dei cittadini nei marchi e nei segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garaniscono la circolazione ; essendo reato di pericolo, non è necessario per il suo perfezionamento l’inganno del cliente sulla genuinità della merce. La fattispecie ha di mira la protezione del marchio in quanto tale e, di conseguenza, della fede pubblica come è reso palese, anche dalla collocazione codicistica del reato (inserito nel libro Intitolo 7, capo 2).

Alla tutela del consumatore provvede l’art. 517 c.p. – vendita di prodotti industriali con segni mendaci- che ha per oggetto la salvaguardia dell’ordine economico ( e, di conseguenza, è collocato nel libro 2, titolo 8, capo 2); il reato richiede la semplice imitazione del segno distintivo o marchio del prodotto, non necessariamente registrato o riconosciuto, purchè detta imitazione sia idonea a trarre in inganno l’acquirente.

Ora nel caso in esame, il primo Giudice non si è posto il problema degli elementi distintivi tra i due menzionati delitti nè della contraffazione o alterazione o imitazione del marchio ed ha incentrato il suo apparato argomentativo (per rispondere alle confutazioni difensive dell’imputato) sulla irrilevanza, per il reato ex art. 474 c.p., del falso grossolano.

La Corte territoriale (con motivato accertamento fattuale che sfugge al sindacato di legittimità) ha concluso che non trattasi di contraffazione, ma di una non totale riproduzione, che non consente di ipotizzare una alterazione, del noto logo della ditta Fendi;

tuttavia, la parziale identità era idonea trarre in inganno l’acquirente sulla provenienza del prodotto.

Dal rilievo sulla imitazione del logo riprodotto rispetto a quello originale, la Corte di Appello non ha tratto la conclusione sulla esistenza del reato a causa della mancata immissione sul mercato della merce.

Sul punto, la norma richiede, per la punibilità della condotta che le res siano poste in vendita o messe altrimenti in circolazione.

Questa ultima locuzione è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come uscita della merce dalla sfera di custodia del fabbricante ed il suo affidamento ad uno o più intermediari perchè giunga al consumatore finale.

La consegna finalizzata alla vendita, della merce al vettore, allo spedizioniere, al trasportatore, al depositario, all’intermediario, all’importatore et c. configura una ipotesi di messa in circolazione da tale nozione è esclusa la detenzione del prodotto destinato alla vendita, ma rimasto nella disponibilità del fabbricante (Cass. Sez. 3 sentenze 23514/2006, 14644/2005, 37139/2005, 11671/1999, 7639/1998).

Nel caso concreto, la merce è stata reperita, in esito ad una verifica doganale, nel container dello imputato che l’aveva introdotta nel territorio dello Stato per la vendita e, pertanto, messa in circolazione nel senso giuridico su precisato.

Per le esposte ragioni, non è condivisibile la conclusione dei Giudici di merito sulla non configurabilità del reato per carenza di un elemento costitutivo della fattispecie.

Tale conclusione supera l’effetto extrapenale della impugnata sentenza e la preclusione per la parte civile ad ottenere il risarcimento degli eventuali danni conseguenti al reato che la formula terminativa del giudizio penale le inibiva.

L’art. 622 c.p.p. stabilisce che la Cassazione, se accoglie il ricorso della parte civile contro le sentenze di proscioglimento dell’imputato, rinvia al giudice civile competente "quando occorre";

il rinvio non necessita nel caso in esame dal momento che questa Corte è già in grado di rilevare che le peculiari modalità di commissione del reato non hanno causato danni nè morali nè materiali alla parte civile. La circostanza che nessun potenziale cliente sia stato in grado di vedere la merce (rimasta nel container dell’imputato) e, di conseguenza, nessuno sia stato tratto in inganno o nelle condizioni di essere confuso tra il prodotto originale e quello imitato ha ricadute sulle pretese della parte civile in ordine al risarcimento del danno. Si può convenire con la ricorrente nel rilievo che un consumatore medio, nel corso nei quotidiani rapporti con i venditori al dettaglio, avrebbe potuto confondersi a causa del logo somigliante allo originale ed acquistare le borse per cui è processo scambiandole per quelle Fendi con conseguente nocumento all’immagine ed economico, per la parte civile; ciò, si ripete, non è avvento perchè nessun potenziale acquirente ha visionato il prodotto.

Poichè l’unico scopo della parte civile nell’attivare l’impugnazione a sensi dell’art. 576 c.p.p. era quello di ottenere il risarcimento del danno, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna della proponente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma- che la Corte reputa congruo fissare in Euro mille – alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna la parte privata al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *