Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-02-2011) 24-05-2011, n. 20487

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.E. venne rinviato a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 110 e 640 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 7 e art. 353 c.p.; secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, l’imputato, agendo quale amministratore di fatto della Croce Italia Marche srl (CIM), aveva persuaso M.F., amministratore della Croce Italiana Santarcangelo (CIS) a sottoscrivere il contratto preliminare 28.5.2001, con la quale la CIS si impegnava a non partecipare ad una gara d’appalto indetta dalla AUSL di (OMISSIS), mentre la CIM si impegnava a concedere in subappalto il 40% del servizio alla CIS in caso di aggiudicazione dell’appalto, e pertanto – agendo con la riserva mentale di non adempiervi (ed effettivamente non subappaltando poi alla CIS il 40% dei servizi) – aveva indotto in errore la M. circa la vantaggiosità ed opportunità del contratto preliminare, con proprio ingiusto profitto (mancata partecipazione della CIS snc alla gara d’appalto) e altrui danno.

Con sentenza del 6.7.2007, il Tribunale di Rimini assolveva P. E. dai reati di cui agli artt. 110 e 640 c.p., art. 61 c.p., nn. 2 e 7 e art. 353 c.p., perchè il fatto non sussiste. Il giudice di primo grado riteneva, infatti, insufficiente la prova della sussistenza del contestato reato di truffa, in particolare in riferimento al conseguimento della CIM di un ingiusto profitto, con altrui danno, quale conseguenza di un meccanismo truffaldino ordito ai danni della CIS. L’accordo stipulato dalle parti con il contratto del 28.5.2001 non aveva in concreto influenzato l’andamento della gara, non risultando provata l’intenzione della CIS, all’epoca, di partecipare alla citata gara d’appalto.

Avverso tale pronunzia propose gravame la parte civile M. F., e la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 3.3.2010, confermava la decisione di primo grado.

Ricorre per cassazione il difensore della parte civile, deducendo la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per inosservanza o errata applicazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’art. 640 c.p. sia sotto il profilo degli artifizi e raggiri (stipula del contratto preliminare del 28.5.2001) che del dolo dell’imputato al momento della stipula in questione, nonchè in relazione alla turbata libertà degli incanti tramite frode.

Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.

Con memoria del 7.2.2011, i difensori di P.E. evidenziano che le censure di cui al ricorso della parte civile sono inammisibili, in quanto concernenti questioni di merito.
Motivi della decisione

Con i motivi di cui al ricorso, il ricorrente, dolendosi che i giudici di merito abbiano male interpretato il contesto complessivo dell’intera vicenda, che, correttamente inquadrata, dimostra chiaramente la pretestuosità e fraudolenza posta in essere dal P. ai danni della M., nella stipulazione dell’accordo negoziale del 28.5.2001, cui addivenne con la riserva mentale di non adempievi, ha dedotto l’erronea interpretazione della legge penale in riferimento all’art. 640 c.p., sotto molteplici aspetti, e all’art. 353 c.p., nonchè vizio di motivazione a riguardo, attesa la illogicità delle argomentazioni in fatto e diritto sviluppate.

Il ricorso è inammissibile, in quanto fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già ampiamente discusse nei giudizi di merito e ritenute infondate dal giudice del gravame. Gli stessi vanno quindi considerati non specifici; la mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di specificità conducente, a mente dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) nell’inammissibilità (Cass. Sez. 4, n. 5191/2000 Rv.

216473). Con la censura di vizio di motivazione, si muovono poi non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo doglianze di merito, non condividendosi dal ricorrente le conclusioni attinte ed anzi proponendosi versioni più persuasive di quelle dispiegate nella sentenza impugnata.

Alla Corte di Cassazione è però normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativi che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è geneticamente informata, ancorchè questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Cass.S.U., n.12/31.5.2000 Rv.216260).

La nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), che – in ragione delle modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 – consente il riferimento agli "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" per la deduzione dei vizi di motivazione, riguarda anche gli atti a contenuto probatorio ed introduce un nuovo vizio definibile come "travisamento della prova", consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate però dalla necessità che il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere di decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (Cass.Sez. 2, 13994/2006; Sez. 2, 45256/2007 Rv.238515).

Resta fermo che è a carico del ricorrente l’onere di specifica indicazione di tali atti e di illustrazione della necessità del loro esame ai fini della decisione, ovvero, per il caso in cui l’esame sia stato compiuto, della manifesta illogicità o contraddittorietà del risultato raggiunto.

Così definite le coordinate del controllo sulla motivazione, rileva il Collegio che la ricorrente non ha adempiuto a tale onere e che la Corte territoriale, nella sentenza impugnata, che va necessariamente integrata con quella – conforme nella ricostruzione dei fatti – di primo grado, ha spiegato in maniera adeguata e logica, e a seguito di diffuso esame di tutti i motivi d’appello, che ai fini della sussistenza del contestato reato di truffa (e quindi per l’individuazione dell’invocata scrittura privata quale strumento del raggiro architettato in danno della CIS snc) manca la prova certa che, già all’atto della sottoscrizione della scrittura privata del 28.5.2001, l’intendimento del P. fosse quello di non dare esecuzione alcuna agli obblighi che da essa derivavano; "ciò che residua è dunque una questione di natura civilistica" (v.pag.9 della sentenza impugnata). Manca altresì la prova dell’accordo intervenuto tra le parti, teso ad indurre la CIS a non partecipare ad una gara d’appalto cui avrebbe altrimenti partecipato. Sottolinea, quindi, la Corte territoriale la particolare situazione che si sarebbe altresì determinata, per la parte civile appellante, ove le prove acquisite fossero state sufficienti a suffragare le ipotesi accusatorie;

infatti, ove fosse stato provato con certezza che la CIS aveva rinunciato a partecipare alla gara a seguito della utilità a lei promessa di avere il 40% dei servizi oggetto d’appalto, l’amministratore della società avrebbe dovuto rispondere di concorso nel reato di cui all’art. 353 c.p., o si sarebbe comunque reso autore del reato di cui all’art. 354 c.p., con la conseguenza che "fermo restando che il reato ex art. 353 c.p. contestato al P. al capo b) sarebbe in ogni caso estinto per intervenuta prescrizione, nessuna pretesa civilistica potrebbe vantare la parte civile M., essendosi ella stessa posta in una situazione di illiceità che precluderebbe ogni richiesta risarcitoria".

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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