Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 04-05-2011) 25-05-2011, n. 20846 Mezzi di prova

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12 febbraio 2010, la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza con la quale, il 6 dicembre 2007, il Tribunale di Vigevano condannava F.G. per il reato di violenza sessuale in danno di C.E., che costringeva a rapporti sessuali orali dopo averla ripetutamele toccata nelle parti intime nel tentativo di avere un rapporto sessuale completo dalla stessa rifiutato.

Avverso tale decisione il predetto proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione, rilevando come la sentenza impugnata fosse fondata su elementi indiziari del tutto contraddittori e sulle sole dichiarazioni della persona offesa che, tuttavia, non erano state valutate con il dovuto rigore.

Osservava che la stessa, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, aveva avuto un rapporto consenziente dopo aver volontariamente assunto alcool e cocaina e si era determinata a denunciare la violenza per l’impossibilità di giustificare l’accaduto con il fidanzato ed il datore di lavoro.

I testimoni escussi, aggiungeva, avevano fornito informazioni solo su quanto indirettamente appreso dalla persona offesa e le loro dichiarazioni erano state pervicacemente lette in senso esclusivamente accusatorio dai giudici di merito.

Rilevava, inoltre, che la persona offesa si era rivelata inattendibile a causa della macroscopiche contraddizioni e lacune che caratterizzavano la sua deposizione priva, peraltro, di riscontri obiettivi.

Con un secondo motivo di ricorso denunciava la mancata concessione di integrazione probatoria ai sensi dell’art. 507 c.p.p., rimarcando, a tale proposito, che la Corte territoriale aveva ingiustificatamente disatteso una richiesta di perizia psichiatrica sulla persona offesa, accedendo acriticamente alle conclusioni di un consulente di parte nominato dalla medesima.

Con un terzo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata assoluzione dell’imputato a fronte di una verosimile versione alternativa dei fatti da questi prospettata che, alla luce delle risultanze probatorie emerse, avrebbe dovuto indurre i giudici del merito a conclusioni diverse, escludendo ogni ipotesi di coartazione della volontà della persona offesa, la quale aveva manifestato il suo dissenso ai rapporti sessuali solo dopo il loro compimento e spinta dalla necessità di giustificare quanto accaduto con un occasionale conoscente.

Con un quarto motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 62 bis c.p. ed il vizio di motivazione per la mancata concessione delle attenuanti generiche, negate senza tener conto del comportamento processuale e del contegno generale assunto dall’imputato e valorizzando, invece, precedenti penali risalenti nel tempo.

Con un quinto motivo di ricorso deduceva la violazione degli artt. 132 e 133 c.p. ed il vizio di motivazione relativamente alla graduazione della pena che riteneva eccessiva e non motivata dalla Corte territoriale non avendo la stessa adeguatamente applicato i criteri indicati dalle menzionate disposizioni.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

In data 13 aprile 2011 ad integrazione e specificazione di quelli già dedotti, venivano depositati nei termini di legge i motivi nuovi ex art. 585 c.p.p., comma 4.

In data 28 aprile 2011 depositava memoria difensiva ai sensi dell’art. 611 c.p.p., u.c..
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Va preliminarmente ribadito, in merito alla preliminare eccezione sollevata in udienza dal difensore del ricorrente e concernente l’inammissibilità della nomina di un sostituto processuale da parte del difensore della parte civile costituita, che la stessa si palesava infondata.

Invero il difensore di parte civile, quale titolare della rappresentanza processuale, ben poteva delegare un sostituto, ai sensi dell’art. 102 c.p.p., che ne esercitasse i diritti e assumesse i doveri relativamente alla presentazione delle conclusioni, peraltro anche mediante deposito di atto dallo stesso personalmente redatto e sottoscritto.

Ciò posto, deve osservarsi, con riferimento al primo motivo di ricorso che lo stesso ripropone argomentazioni già sottoposte all’attenzione dei giudici del gravame ed alle quali gli stessi hanno fornito adeguata risposta.

La Corte territoriale, infatti, ha diffusamente illustrato i contenuti della decisione del giudice di prime cure, riportando una minuziosa descrizione dei fatti e le conclusioni cui era giunto il Tribunale, che aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni della persona offesa giustificando le lacune nel racconto dallo stato confusionale indotto dall’assunzione di alcool e stupefacenti e riscontrato anche dal personale di polizia intervenuto il giorno successivo a quello in cui si erano svolti i fatti, oltre a rilevare numerosi riscontri di veridicità nelle dichiarazioni rese dagli altri testimoni escussi e da altri dati obiettivi.

Sottoposta a vaglio critico la decisione del giudice di prime cure, la Corte territoriale non vi rilevava alcun elemento di illogicità e contraddittorietà e la riteneva pienamente condivisibile e meritevole di conferma.

L’esame dei giudici del gravame si è poi esteso alle specifiche doglianze mosse sul punto nell’atto di appello, giungendo alla conclusione che esse non intaccavano minimamente il pregresso giudizio di intrinseca attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa.

Puntualmente, la Corte d’Appello dà atto di diversi elementi fattuali che confermavano le dichiarazioni della persona offesa e, segnatamente, delle dichiarazioni dei testi che consentivano di ricostruire la sequenza dei fatti, fornendo dati obiettivi sullo stato e le condizioni della vittima dell’abuso; dell’analisi dei tabulati telefonici che ne confermavano la presenza nella casa dell’imputato ed il tentativo di contattare altri conoscenti; dello stato di agitazione e la fuga con indumenti in parte non suoi e senza indossare la biancheria intima, poi rinvenuta in casa dell’imputato unitamente ad altri effetti personali; delle condizioni psicofisiche riscontrate dopo diverso tempo dai fatti nonchè delle dichiarazioni dello stesso imputato e dei testi indotti dalla difesa.

Non si tratta, peraltro, di una mera elencazione, in quanto tutti gli elementi vengono analizzati criticamente non solo verificandone la valenza probatoria, ma anche escludendo la possibilità di interpretazioni alternative in generale e, in particolare, di quelle prospettate nell’atto di appello.

La decisione sul punto si fonda, pertanto, su uri apparato argomentativo solido ed immune da vizi logici e da palesi contraddizioni, attraverso un’analisi dei dati fattuali che non presenta la minima incrinatura.

Di fronte a tale giudizio di congruità e coerenza della decisione impugnata deve dunque arrestarsi la valutazione del giudice di legittimità, cui è preclusa ogni rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata che implicitamente il ricorso suggerisce (v. Sez. 6 n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. 6 n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6 n. 23528, Sez. 3 n. 12110,19 marzo 2009).

Altrettanto infondato è il secondo motivo di ricorso.

Il ricorrente lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva consistente in una perizia psichiatrica sulla persona offesa che la Corte territoriale ha escluso rilevando come non emergesse dagli atti alcun elemento che inducesse a ritenere patologie o turbe mentali capaci di compromettere la capacità a deporre della persona offesa.

Mancava, pertanto, il necessario requisito della decisività.

Come ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, Sez. 6 n. 14916, 19 aprile 2010), infatti, la mancata assunzione di una prova decisiva ha rilievo solo nel caso in cui, dal confronto tra la prova richiesta e non ammessa e gli argomenti posti a sostegno della pronuncia impugnata, emerga chiaramente che l’assunzione della prova negata avrebbe certamente determinato il giudice a diverse conclusioni, o qualora la mancata acquisizione della prova medesima abbia inciso a tal punto sulla decisione da indurre il giudice alla redazione di una motivazione fondata su affermazioni apodittiche o congetturali (Sez. 1 n. 3182, 23 marzo 1995; Sez. Un. 38883,23 marzo 1995).

Va poi rammentato che nel giudizio di legittimità la mancata assunzione di una prova decisiva può essere dedotta solo con riferimento ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a mente dell’art. 495 c.p.p., comma 2, mentre non può essere validamente invocata quando il mezzo di prova sia stato sollecitato invitando il giudice di merito all’esercizio dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 c.p.p., e da questi sia stato valutato come non necessario ai fini della decisione (Sez. 3 n. 24259, 24 giugno 2010; Sez. 1 n. 16772, 3 maggio 2010; Sez. 6 n. 33105, 5 agosto 2003; Sez. 6 n. 12539, 1 dicembre 2000; Sez. 1 n. 4464,12 aprile 2000).

Anche sul punto, dunque, la decisione impugnata è immune da censure.

Infondato risulta anche il terzo motivo di ricorso per le medesime ragioni rappresentate con riferimento al primo motivo, poichè si propone una lettura alternativa dei dati fattuali acquisiti nel giudizio di merito inammissibile in sede di legittimità.

A conclusioni analoghe deve giungersi anche per quanto attiene il quarto motivo di ricorso.

Occorre ricordare, a tale proposito, che la concessione delle attenuanti generiche presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1 n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6 n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6 n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1 n. 4200,7 maggio 1985).

Inoltre, riguardo all’onere motivazionale, deve ritenersi che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque rilevanti ai fini del diniego delle attenuanti generiche (v. Sez. 6 n. 34364, 23 settembre 2010) con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6 n. 42688, 14 novembre 2008; Sez. 6 n. 7707,4 dicembre 2003).

Alla luce di tali condivisibili principi deve rilevarsi che, nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento congruo, ha fondato il proprio diniego sulla assenza di condizioni suscettibili di valutazione favorevoli e sulla base della gravità del fatto, la presenza di precedenti penali ed un comportamento processuale che non denotava propositi di resipiscenza.

Risulta pertanto ampiamente assolto l’obbligo di motivazione sul punto.

Anche il quinto motivo di ricorso si palesa del tutto privo di fondamento.

La Corte d’Appello, dopo aver formulato gli specifici apprezzamenti sulla gravità del fatto, i pregiudizi penali dell’imputato e la sua condotta di cui si è appena detto, ha rilevato la congruità della pena inflitta dal primo giudice osservando come la stessa doveva ritenersi mite in quanto prossima al minimo edittale e del tutto adeguata ai criteri di valutazione di cui all’art. 133 c.p. ed alle prospettive di rieducazione del condannato.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p. non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2 n. 12749,26 marzo 2008).

Anche sul punto, pertanto, la sentenza impugnata risulta immune da censure.

Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro 1.000,00 tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità".(Corte Cost. 186/2000).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del procedimento, oltre alla somma di Euro 1,000,00 in favore della Cassa delle Ammende nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.800,00 oltre ad accessori come per legge.

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