Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-04-2011) 25-05-2011, n. 20912

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 3 maggio 2010, ha sostanzialmente confermato, riducendo soltanto la pena, la sentenza del Tribunale di Brindisi, Sezione Distaccata di Mesagne dell’8 gennaio 2009 con la quale M.S. era stato condannato per il delitto di furto in abitazione aggravato.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando:

a) la violazione di legge e l’erroneità della motivazione in ordine all’affermazione della penale responsabilità;

b) l’erronea mancata derubricazione del reato da furto in abitazione a furto semplice;

c) la mancata indicazione dei criteri per la riduzione della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è da rigettare, essendo ai limiti dell’inammissibilità. 2. In primo luogo perchè il ricorrente non si discosta affatto da quanto già ha formato oggetto dei motivi di appello che sono stati disattesi dalla Corte territoriale.

3. In secondo luogo, come ribadito costantemente da questa Corte (v. a partire da Sez. 6, 15 marzo 2006 n. 10951 fino di recente a Sez. 5, 6 ottobre 2009 n. 44914), pur dopo la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del Giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia:

a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;

c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico.

Al Giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.

Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai Giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

Nella specie, con riferimento al primo motivo del ricorso, la Corte di Appello ha logicamente fatto discendere dal complesso delle indagini istruttorie la penale responsabilità dell’imputato per i fatti ascritti e così come contestati.

Con il motivo si procede ad una indebita rilettura delle deposizioni testimoniali che, al contrario, i Giudici del merito hanno compiuto in maniera pienamente logica.

4. Del tutto infondato è il secondo motivo del ricorso.

La fattispecie incriminatrice, dettata dall’art. 624 bis c.p. richiama indubbiamente anche la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614 c.p., norma che riguarda comportamenti, di introduzione nell’altrui dimora, realizzati "con inganno" ovvero "contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo" (v. Cass. Sez. 5, 2 marzo 2010 n. 13582).

Tale logica interpretazione si aggiunge, però, a quella, nascente dal testo effettivo dell’art. 624 bis, che parla genericamente "d’introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa" e che lascia, quindi, comprendere una medesima volontà del legislatore anche relativamente all’azione di chi commetta furto dopo essersi introdotto legittimamente nell’altrui privata dimora.

D’altra parte, il testo della norma non specifica la modalità e la ragione dell’introduzione nell’abitazione della vittima, sicchè è legittima, e non foriera di indebita estensione pregiudizievole per l’imputato, la lettura che comprenda qualsiasi accorgimento per ottenere la possibilità di entrare in detta abitazione.

In effetti, il testo del nuovo art. 624 bis c.p., pur avendo ampliato l’area della punibilità in riferimento al luogo di commissione del reato, per nulla ha innovato rispetto al requisito del nesso finalistico fra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile: nesso già valorizzato dalla giurisprudenza di legittimità formatasi sulla previgente norma di cui all’art. 625 c.p., n. 1 (v. Cass. Sez. 2, 21 dicembre 2004 n. 2347).

Ed invero, la dizione "mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora", propria del testo attuale, chiaramente esprime una strumentalità dell’introduzione nell’edificio, quale mezzo al fine di commettere il reato, non diversa da quella precedentemente espressa con le parole "per commettere il fatto, si introduce o si intrattiene in un edificio…" (v. Cass. Sez. 5, 15 dicembre 2009 n. 14868).

5. Pretestuoso è, ancora, l’ultimo motivo del ricorso in quanto a pagina 7 dell’impugnata decisione si legge testualmente che all’imputato venne concessa, come sollecitato nell’atto di appello, l’attenuante di cui all’art. 62 bis c.p. per cui l’odierno ricorrente non può dolersi per la mancata concessione di un’attenuante che è stata, effettivamente anche se non specificatamente indicata ma, in ogni caso, considerata ai fini dell’intervenuta riduzione della pena.

6. Il rigetto del ricorso determina, altresì, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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