CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 24 settembre 2008, n.25682 C’È MINACCIA SE IL PROFESSORE PROSPETTA AD UN’ALUNNA LA BOCCIATURA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del 31 marzo 2005 emessa dal G.u.p. del Tribunale di Vicenza in sede di giudizio abbreviato nei confronti di M. T., ha dichiarato l’avvenuta estinzione per prescrizione di alcune contravvenzioni contestate (capi 9, 10 e 11) e del reato di abuso d’ufficio (capo 2) in relazione alle vicende riguardanti gli allievi M. L. ed E. D. F., ritenendo sussistente il reato solo per quanto concerne le lezioni private impartite a I. D. F., confermando nel resto le statuizioni del giudice di primo grado, in ordine al reato di minaccia aggravata nei confronti della studentessa S. C. (capo 5), al delitto di violenza privata aggravata commessa ai danni di alcuni studenti del suo corso (capo 8) e al reato di tentata violenza privata aggravata nei confronti della preside, M. B. (capo 12).

Tutti gli episodi per i quali l’imputato è stato condannato riguardano condotte da questi tenute nel periodo in cui ha svolto la sua attività di insegnante presso il liceo scientifico Paolo Lioy di Vicenza.

Secondo i giudici d’appello l’abuso d’ufficio è consistito nell’avere impartito lezioni private a pagamento a I. D. F., nonostante fosse una sua alunna e senza aver chiesto e ottenuto alcuna autorizzazione dal preside dell’istituto scolastico.

La vicenda di cui al capo n. 5 dell’imputazione ha ad oggetto le minacce rivolte all’alunna S.C., alla quale avrebbe detto che non aveva più alcuna possibilità di essere promossa, e ciò a seguito di un’assemblea dei genitori nel corso della quale la madre della stessa C. aveva proposto che non venisse mantenuta la continuità didattica del T. nel successivo triennio.

L’accusa di violenza privata contestata al capo n. 8 è consistita nel fatto che l’imputato, mediante implicite, ma chiare minacce di ripercussioni negative sul curriculum scolastico, aveva: a) costretto gli allievi della sua classe II B a sottoscrivere una lettera nella quale si dava atto dell’ampio programma; b) costretto S. C. a firmare una lettera in cui ammetteva la propria impreparazione; c) costretto quindici studenti della classe III B a scrivere una lettera in cui si chiedeva al preside di conservare l’insegnamento del prof. T.; d) costretto genitori e studenti a non partecipare ad un’assemblea di classe tenutasi nell’aprile del 2001.

Infine, la tentata violenza privata (capo n. 12) sarebbe consistita nel minacciare la preside B. di renderle la vita impossibile, utilizzando anche suoi dati personali, qualora avesse richiesto un’ispezione.

2. – Contro questa sentenza i difensori dell’imputato hanno presentato ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi.

1) Inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti dopo la scadenza del termine per lo svolgimento delle indagini preliminari’, si assume che le dichiarazioni rese da M. L. e L. P., utilizzate dai giudici di merito a fondamento della condanna per il reato di abuso d’ufficio, siano state acquisite dal pubblico ministero dopo la scadenza dei termini delle indagini e, quindi, in violazione dell’art. 407 c.p.p. che prevede un esplicito divieto normativo di utilizzazione degli atti, destinato a valere in ogni stato e grado del processo.

2) Inosservanza dell’art. 220 disp. att. c.p.p.: si sostiene che l’attività del dott. D. C., in qualità di ispettore del Provveditorato agli studi, si sarebbe svolta in violazione del menzionato art. 220 disp. att. c.p.p., in quanto una volta emersi fatti di rilievo penale l’attività ispettiva rivolta all’accertamento di illeciti amministrativi si sarebbe dovuta interrompere e l’ispettore avrebbe dovuto trasmettere una denuncia all’autorità giudiziaria consentendo a questa di attivare i propri poteri investigativi. L’inosservanza di tale disposizione avrebbe determinato l’inutilizzabilità della relazione ispettiva e dei relativi allegati.

3) Inosservanza dell’art. 391-bis c.p.p.: si contesta l’utilizzazione, fatta in sentenza a sostegno della responsabilità dell’imputato per i capi n. 5) e 8), delle dichiarazioni di S.C. e M. M. T., assunte dallo stesso difensore della parte civile ai sensi dell’art. 391-bis c.p.p. In particolare, il ricorrente sostiene che in materia di indagine difensive non sia consentita l’assunzione di informazioni da parte del proprio assistito, rilevando come l’art. 11 delle regole di comportamento del penalista redatte dalle Camere Penali italiane vieti ai soggetti della difesa di applicare le disposizioni di cui agli artt. 391-bis e 391- ter c.p.p. nei confronti della persona assistita.

4) Erronea applicazione dell’ art. 323 c.p. : si assume che le sentenze di merito non abbiano considerato che il reato di abuso sussiste solo in presenza della c.d. "doppia ingiustizia". L’omissione di tale elemento, cioè la mancanza di un’analisi volta ad accertare se sia stato prodotto l’evento contra ius, non può che determinare l’insussistenza della fattispecie penale contestata.

5) Erronea applicazione dell’art. 612 c.p.: si sostiene che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto l’esistenza della minaccia, nonostante l’asserita prospettazione di una bocciatura alla studentessa S. C. non potesse configurare il reato contestato perché l’evento pregiudizievole era comunque indipendente dalla volontà dell’imputato, trattandosi di una decisione che avrebbe impegnato l’intero collegio dei docenti.

Sotto altro profilo si contesta la sussistenza dell’aggravante della minaccia, con la conseguenza che, mancando la querela, il reato doveva essere ritenuto improcedibile.

6) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione ai capi n. 8) e 12) dell’imputazione: si assume la mancanza della motivazione in quanto la sentenza impugnata avrebbe omesso di prendere in considerazione le argomentazioni difensive dedotte in relazione alla condanna per i capi n. 8) e 12), proponendo una motivazione apparente.

7) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e alla liquidazione della provvisionale in favore della parte civile: anche in questo caso si ritiene che non siano stati valutati i motivi dedotti con l’atto d’appello e riguardanti il trattamento sanzionatorio e la

liquidazione della provvisionale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. – Il primo motivo è infondato.

Le dichiarazioni di M. L. e L. P., assunte dal pubblico ministero dopo la scadenza dei termini di indagine, sono state correttamente utilizzate dai giudici di merito nel giudizio abbreviato richiesto dall’imputato.

La giurisprudenza di questa Corte ha ormai chiarito che nel giudizio abbreviato, che costituisce un tipico negozio processuale di carattere abdicativo, non rilevano né l’inutilizzabilità "fisiologica" della prova, quella cioè coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento ai sensi dell’art. 526 c.p.p., né le ipotesi di inutilizzabilità "relativa" stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, ma soltanto l’inutilizzabilità cosiddetta "patologica", inerente cioè agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (Sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro).

Nel caso di specie, le dichiarazioni in questione non possono essere considerate inutilizzabili tout court, in quanto l’assunzione di esse dopo lo spirare del termine delle indagini impedisce che siano utilizzate in dibattimento, ma non determina alcuna invalidità o inutilizzabilità assoluta dell’atto. La sanzione prevista dal comma 3 dell’art. 407 c.p.p. prevede un’ipotesi di inutilizzabilità che scatta solo in riferimento alla fase dibattimentale e non in relazione ad ogni stato e grado del procedimento, sicché è sempre possibile l’utilizzo di atti tardivi sia ai fini delle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale, sia nell’ambito dell’udienza preliminare e del giudizio abbreviato. Si tratta di una ipotesi di inutilizzabilità relativa che consente che tali dichiarazioni siano pienamente utilizzabili nel giudizio abbreviato, in cui, come è noto, si verifica un patteggiamento negoziale sul rito, attraverso cui le parti accettano che la res giudicanda sia definita all’udienza preliminare, attribuendo agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui sono normalmente sprovvisti nel giudizio dibattimentale.

Deve pertanto ritenersi che del tutto correttamente i giudici di merito hanno utilizzato nel giudizio abbreviato le dichiarazioni in questione.

4. Del tutto infondato è poi il motivo con cui si eccepisce l’inutilizzabilità della relazione ispettiva redatta dal dott. D. C.. Il ricorrente assume che l’ispezione avrebbe dovuto interrompersi una volta acquisita la notizia di reato, ma si tratta di una interpretazione che non trova alcun appiglio nell’art. 220 disp. att. c.p.p., invocato dalla difesa a sostegno dell’inutilizzabilità, che si limita a prevedere che nel corso di attività ispettive o di vigilanza qualora emergano indizi di reato gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quanto possa servire per l’applicazione della legge penale devono essere compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. Nel corso dell’attività ispettiva svolta dal D. C. sono state assunte solo dichiarazioni da persone informate sui fatti non anche dall’imputato, per cui nella specie non si pone alcuna questione di inutilizzabilità. In ogni caso, la relazione è stata acquista come "prova documentale" nel corso delle indagini e correttamente utilizzata nel giudizio abbreviato.

5.- Infondato è pure il terzo motivo con cui si contesta l’utilizzazione delle dichiarazioni perché assunte dal difensore delle parti civili, ai sensi degli artt. 391-bis c.p.p., dalle proprie assistite. Si osserva che nessuna disposizione del codice in materia di indagini difensive impedisce che il difensore dell’offeso possa acquisire informazioni dal proprio assistito, né può invocarsi, come fa il ricorrente, l’art. 11 delle regole di comportamento del penalista redatte dalle Camere Penali ovvero l’art. 52 del codice deontologico forense, trattandosi di norme che, eventualmente, possono avere rilievo solo sul piano disciplinare, ma non su quello processuale.

6. – Per quanto riguarda le censure relative alla condanna per il reato di abuso d’ufficio, si rileva che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, sussiste il requisito della doppia ingiustizia. L’imputato, oltre a porre in essere una condotta abusiva violando l’art. 89 d.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, che stabilisce un divieto generale per gli insegnanti di impartire lezioni private ad alunni del proprio istituto, ha inoltre conseguito un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nella percezione del compenso per le lezioni svolte e dai regali che lo stesso imputato sollecitava ai genitori dei suoi allievi.

7. – Infondato è anche il motivo riguardante la condanna per il reato di minaccia.

La sentenza impugnata non merita le censure proposte dall’imputato: correttamente i giudici hanno ritenuto sussistente la minaccia grave, argomentando che per una studentessa la ingiusta prospettazione di una bocciatura rappresenta una delle peggiori evenienze, tale da poter configurare l’aggravante in questione. Peraltro, si tratta di una valutazione di merito che sfugge al controllo di legittimità in presenza di una motivazione logica e coerente come quella contenuta nella sentenza impugnata.

Del tutto inconferente è, inoltre, il rilievo fatto dal ricorrente secondo cui il reato non sarebbe configurabile in quanto il male minacciato (ingiusta bocciatura) non dipendeva dalla volontà dell’imputato, ma da un organismo collegiale (collegio dei docenti). Si osserva che per la sussistenza del reato di cui all’art. 612 c.p. l’idoneità della condotta va valutata secondo un giudizio ex ante, tenendo conto di tutte le circostanze che in base ad un criterio medio possono essere considerate al momento della condotta. L’impossibilità di realizzare il male minacciato esclude il reato solo se si tratti di impossibilità assoluta, non quando la minaccia sia comunque idonea ad ingenerare comunque un timore nel soggetto passivo. Nella specie, i giudici, sulla base di una valutazione che attiene al merito e che non è censurabile in questa sede, hanno riconosciuto che la minaccia di una ingiusta bocciatura rivolta dal professore fosse idonea ad ingenerare nella studentessa forti timori, incidendo la sua libertà morale.

8. – Allo stesso modo è infondato il motivo con cui si lamenta l’omessa valutazione da parte dei giudici d’appello di alcune deduzioni difensive svolte in relazioni ai capi 8) e 12) dell’imputazione.

Si rileva che in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su alcune specifiche deduzioni prospettate col gravame quando le stesse risultano disattese dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Infatti, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (Sez. II, 19 maggio 2004, n. 29434, Candiano).

Nella specie la sentenza impugnata ha di fatto richiamato le motivazioni dei giudici di primo grado, rilevando che sulla base degli atti di indagine utilizzati la responsabilità dell’imputato per i reati di violenza privata appariva evidente. D’altra parte, la sentenza del Tribunale ha indicato con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, sicché non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio.

9. – L’ultimo motivo, riguardante il trattamento sanzionatorio e alla liquidazione della provvisionale, attiene a questioni di fatto, non censurabili in sede di legittimità, in quanto appaiono sufficientemente motivate.

10. – In conclusione, all’infondatezza di tutti i motivi proposti consegue il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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