Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-03-2011) 25-05-2011, n. 20870 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

del Dott. MONETTI Vito che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Perugia ha confermato la sentenza in data 25 marzo 2002 del locale Tribunale, appellata da G.G. e M.M., che li aveva dichiarati responsabili del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, commesso il (OMISSIS).

Nell’ipotesi di accusa, il G., quale liquidatore della società "Euromax S.r.l." e prestanome del M., avrebbe concorso con quest’ultimo nella distrazione dei macchinali della società fallita.

Il Tribunale aveva ritenuto che la prova della responsabilità emergeva da quanto riferito dal G. al curatore fallimentare, circa la propria posizione di prestanome e circa il fatto che M. aveva sostituito dei macchinari, a suo tempo pignorati dall’INPS, con altre macchine fuori uso, poi rinvenute dal curatore, mentre le macchine originariamente in dotazione alla società fallita erano state trasferite, dopo l’alterazione dei numeri di matricola, ad un’altra società facente capo al M., la "Studio 2", dov’erano stati rinvenute. Hanno proposto distinti ricorsi per cassazione i due imputati. Il ricorso del G. si articola su due motivi.

Con il primo deduce violazione di legge per essere stata confermata la dichiarazione di responsabilità in relazione ad una bancarotta che non sarebbe stato possibile ascrivergli in quanto la società non sarebbe stata assoggettabile a fallimento, secondo i parametri di cui all’art. 1 della Legge Fallimentare come sostituito dalla L. n. 5 del 2006.

Con il secondo motivo deduce difetto di motivazione in ordine alla prova dell’elemento soggettivo del reato.

Non vi sarebbe la prova che egli, amministratore di diritto, avesse trascurato gli obblighi derivanti dalla sua formale posizione di amministratore per consentire all’amministratore di fatto M. di sottrarre i macchinari in danno dei creditori.

Il ricorso del M. deduce difetto di motivazione sulla sua qualifica di amministratore di fatto della società; la Corte territoriale avrebbe erroneamente individuato nel 1994 l’anno in cui G. aveva assunto funzioni amministrative, mentre in quell’anno aveva solo assunto funzione di liquidatore, essendo diventato amministratore unico dal marzo del 1992. Così il M. non avrebbe avuto funzioni di amministratore fin dal 1992 e da quell’epoca sarebbe rimasto all’interno dell’impresa con funzioni amministrativo tecniche, ma senza aver responsabilità di gestione. I giudici del merito avrebbero travisato, oltre al contenuto dei documenti, anche le dichiarazioni testimoniali, influenzate dalla posizione che aveva nell’azienda per i motivi di gestione tecnica e di rapporti con i clienti comprese nelle sue mansioni.

I ricorsi sono inammissibili.

Il primo motivo del ricorso G. è generico e manifestamente infondato; invero, il ricorrente si limita ad affermare che, secondo i criteri fissati dal R.D. n. 267 del 1942, art. 1 dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non sarebbe stato possibile dichiarare il fallimento della società "Euromax S.r.l.", con la conseguente inapplicabilità delle relative disposizioni penali, ma non va oltre tale mera e generica affermazione, peraltro basata su presupposti di diritto manifestamente infondati, come hanno ritenuto le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, sent. n. 19601 del 28/2/2008, Rv. 239398, ric.:

Niccoli) secondo cui il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa ed ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate al R.D. n. 267 del 1942, art. 1 dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in corso, come il presente.

Manifestamente infondato è anche il secondo motivo del ricorso G. atteso che, come sopra evidenziato, emerge dalle sentenze di merito che proprio il prevenuto aveva riferito con un documento scritto trasmesso al curatore fallimentare che i macchinari praticamente fuori uso rinvenuti in azienda vi erano stati installati su iniziativa del M., che con quelli aveva sostituito i macchinari originariamente in dotazione alla società fallita, a suo tempo pignorati dall’INPS, trasferiti, dopo l’alterazione dei numeri di matricola, presso un’altra società facente capo al M., la STUDIO 2, dov’erano stati rinvenuti. Una tale conoscenza delle vicende dei beni strumentali della società dimostra come il G., ad onta della affermata posizione di mero amministratore formale, fosse comunque coinvolto nella gestione della società e fosse venuto meno al proprio compito di controllo, come ritenuto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. per tutte Sez. 5, sent. n. 7208 del 26/1/2006, Rv. 233637, ric. Filippi ed altro), secondo cui l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, qualora sia, sotto il profilo soggettivo, genericamente consapevole (cfr. anche Sez. 5, sent. n. 38712 del 19/6/2008, Rv. 242022, ric. Prandelli e altro) che l’amministratore effettivo distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa i beni sociali. Ed una tale consapevolezza nel caso di specie andava ben al di là di una posizione formale, ma investiva i particolari dell’azione dell’amministratore di fatto, tanto che sulla base delle sue dichiarazioni e dei successivi riscontri testimoniali e tecnici, era stato possibile ricostruire le vicende dei beni dall’altro distratti.

Il ricorso M. è inammissibile, in quanto – a prescindere dalla sua genericità – tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi all’esclusiva competenza del giudice di merito, già adeguatamente valutati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello.

Nel caso in esame, difatti, entrambe le pronunce hanno ineccepibilmente osservato che la prova dei fatti ascritti all’imputato riposava nel contributo del G., che aveva riferito al curatore quale fosse l’articolazione degli incarichi nella società, al di là delle vesti formali di ciascuno, dichiarazioni che avevano trovato conferma in più deposizioni di dipendenti dell’impresa fallita i quali avevano riferito come il M. si presentasse ed agisse come il vero datore di lavoro, e che avevano consentito di individuare, presso la società alla quale erano stati ceduti, i macchinari utilizzati dalla società fallita per la produzione, con ciò anche dando la conferma dell’attendibilità delle affermazioni del G..

In più, i giudici del merito hanno evidenziato come fosse significativa della posizione di amministratore di fatto del M. una nota da lui indirizzata alla BENETTON nel maggio 1993 (e questo da anche la misura dell’infondatezza del rilievo contenuto nel ricorso sull’erronea valutazione da parte dei giudici del merito dei tempi della modificazione delle cariche sociali) con la quale egli comunicava che, pur a seguito delle modificazioni avvenute nell’amministrazione formale della società, tutto sarebbe rimasto invariato nella proprietà e nell’organico, sia dirigenziale che produttivo.

A tali emergenze, che la Corte territoriale valuta con argomentazioni che non presentano difetti di logica consequenzialità, il ricorrente oppone rilievi relativi alla pretesa erroneità delle ricostruzioni dei fatti su cui i giudici del merito si erano basati, rilievi non ammissibili in sede di legittimità; invero, la Corte di cassazione non deve condividere o sindacare la decisione, ma verificare se la sua giustificazione sia, come nel caso in esame, sorretta da validi elementi dimostrativi e non abbia trascurato elementi in astratto decisivi, sia compatibile con il senso comune e, data come valida la premessa in fatto, sia logica: insomma, se sia esauriente e plausibile. All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione – di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00=, per ognuno.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro 1.000,00= in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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