Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-03-2011) 25-05-2011, n. 20869

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha confermato la sentenza emessa in data 30 aprile 2009 dal Tribunale di Voghera, appellata da T.I. e M.C., con la quale era stata ritenuta la loro responsabilità per più ipotesi (capi a., d., e.) di furto pluriaggravato in concorso, così qualificate o assorbite (capo f in e) le originarie contestazioni di ricettazione, per il delitto di minaccia grave (capo h.), per la connessa contravvenzione di porto abusivo di coltello (capo i.) e, il M., anche per il delitto di cui all’art 424 C.P., contestato in concorso con A.M., giudicato separatamente così come il fratello A.O.C., coimputati di alcune delle ipotesi di furto, nonchè di altri reati (capi b. e c.) loro esclusivamente ascritti, commessi tra il (OMISSIS). Hanno proposto distinti ricorsi per cassazione i prevenuti.

Il ricorso del M. si articola su due motivi e quello del T. su sette. Il primo motivo del ricorso M. ed il secondo del ricorso T. deducono violazione di legge per avere il Tribunale acquisito ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, le dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari da A. M..

Ad avviso dei ricorrenti non sussistevano le condizioni per ritenere che il teste fosse stato sottoposto a pressioni minacciose perchè non confermasse le dichiarazioni accusatorie nei riguardi degli attuali ricorrenti. Si sarebbe data indebita rilevanza a pretese minacce intervenute durante la fase iniziale delle indagini preliminari senza alcuna indicazione che fossero finalizzate ad impedire una testimonianza o ad ottenerne una falsa; lo sviluppo dibattimentale dell’atteggiamento dell’ A. dimostrerebbe la genericità delle indicazioni sulla provenienza e sullo scopo delle asserite minacce, nè il primo giudice avrebbe disposto accertamenti di sorta al fine della successiva acquisizione del verbale in questione.

Il primo motivo del ricorso T. sviluppa un’altra questione processuale, lamentando violazione di legge per aver il Tribunale ritenuto il ricorrere delle ipotesi di furto aggravato, laddove la contestazione in sede di rinvio a giudizio concerneva ipotesi di ricettazione; si sarebbe quindi verificata violazione del diritto di difesa, che era stata impostata tutta sul contrasto dell’accusa di ricettazione. Sulla questione, proposta in sede di appello, la Corte territoriale avrebbe motivato in modo insufficiente la propria decisione negativa.

Il terzo motivo del ricorso T. deduce violazione di legge in relazione alla revoca, da parte del Tribunale, dell’ammissione della testimonianza dell’avv. P. (il suo precedente difensore) che avrebbe dovuto testimoniare sulle circostanze della produzione in sede di indagini (a corredo di un’istanza ex art. 299 c.p.p.) di uno scritto a firma T. genericamente ammissivo di alcuni fatti, di cui poi si contestava l’autenticità, non tanto nella sottoscrizione, ammessa dal prevenuto, quanto nel contenuto rappresentativo, nonchè l’attendibilità sotto il profilo confessorio; il legale aveva fatto pervenire dichiarazione di volersi avvalere del segreto professionale, così che il primo giudice aveva revocato il provvedimento ammissivo prima di avere la presenza del teste ed averla ammonita della sua facoltà di astensione; nè la Corte territoriale aveva poi ritenuto di procedere, secondo le richieste dell’appellante, a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’acquisizione di quella testimonianza.

Con il secondo motivo del ricorso M. ed il quarto e quinto motivo del ricorso T. si deduce difetto di motivazione sull’affermazione di responsabilità, conseguente ad un’inadeguata valutazione delle risultanze delle dichiarazioni degli A., sulla loro attendibilità e sui riscontri esterni, venendo evidenziati i passaggi ritenuti contraddittori o inverosimili, e per la violazione dei criteri di legge sulla valutazione della prova. Il sesto ed il settimo motivo del ricorso T. lamentano la mancata concessione delle attenuanti generiche e l’eccessività della pena.

Osserva il Collegio che occorre in primo luogo affrontare una preliminare questione sulla tempestività del ricorso M., che risulta depositato il 4 giugno 2010, in ritardo sulla scadenza, in data 1 giugno 2010, del termine per impugnare.

L’esame degli atti, necessario per la risoluzione della questione rilevabile d’ufficio, dimostra che l’impugnazione del M., avvenuta presso la casa circondariale di Cremona, dove era detenuto, si è articolata secondo le seguenti scansioni: in data 29 maggio 2010 il prevenuto ha sottoscritto i motivi di ricorso davanti al Direttore dell’Istituto che ne ha autenticato la sottoscrizione; il 31 maggio 2010, ancora in termini per impugnare, il M. ha verbalizzato presso l’ufficio matricola del carcere una dichiarazione di ricorso in cui si riservavano i motivi; in data 4 giugno, a termine scaduto, risultano, sempre dal registro dell’ufficio matricola, esser stati depositati quei motivi sottoscritti ed autenticati il 29 maggio 2010.

Poichè i motivi di ricorso erano pervenuti tempestivamente all’amministrazione dell’Istituto che ne aveva attestato l’autenticità, e non essendo dato sapere per quali circostanze, in ipotesi del tutto fortuite e non necessariamente ascrivibili al soggetto detenuto, il deposito in matricola si era poi attuato nei tempi sopra indicati, il Collegio ritiene che, in mancanza di certezze sulla tardività del ricorso, il medesimo si debba considerare tempestivo, in applicazione del principio del favor impugnationis.

Non pare poi al Collegio che sia fondata la censura proposta da entrambi i ricorrenti sulla pretesa violazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4 per l’avvenuta acquisizione e lettura del verbale delle dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria da A. M..

In materia di acquisizione dei verbali di dichiarazioni rese in corso di indagini preliminari, a causa della sottoposizione del dichiarante a minaccia o offerta di denaro affinchè non testimoni o renda testimonianza non conforme al vero, la giurisprudenza di questa Corte ha formulato chiari principi a cui il giudice di merito si deve attenere nel decidere; in particolare, il relativo procedimento incidentale deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purchè sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno standard probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova "al di là di ogni ragionevole dubbio", richiesta soltanto per il giudizio di condanna (sez. 6, sent. n. 27042 del 18/2/2008, Rv. 240971, ric. Morabito e altro; v. anche: sez. 6 sent. n. 26904 del 23/3/2005, Rv. 231860, ric. Iannizzi). Inoltre la prova dell’inquinamento probatorio, quale condizione per l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese in precedenza dal testimone, non va valutata con riferimento ai soli fatti verificatisi in corso di dibattimento, ma sulla base dei complessivi elementi di fatto presenti in atti. (sez. 3 sent. N. 48140 dell’8/10/2009, rv. 245414, ric.: F.; sez. 6, sent. n. 31461 del 7/6/2004, Rv. 230018, ric. Foriglio ed altro). Nel caso di specie i giudici del merito, ed in particolare la Corte d’appello, hanno rilevato che nel corso del dibattimento il teste A. M. aveva, fin dall’inizio della verbalizzazione, manifestato di sentirsi minacciato; che il Tribunale aveva svolto breve inchiesta ed erano emersi elementi relativi alle minacce subite dal testimone in precedenza, nei giorni successivi all’intervento della polizia giudiziaria, quando aveva ricevuto la visita dei due prevenuti (e la Corte di merito ha risposto in modo adeguato e privo di vizi logici, ai rilievi difensivi circa l’impossibilità per loro di recarsi a minacciare gli A.), e, successivamente, quando era stato minacciato in carcere da sconosciuti su indicazione, come tale rappresentatagli, del M.; che altri elementi erano stati forniti dalle emergenze del dibattimento sulle minacce ricevute da A.O. prima della sua deposizione, dopo di che A. O. aveva finito, suo malgrado, per rendere testimonianza, mentre il fratello si era astenuto dal deporre.

I giudici del merito, nel ritenere che gli A. fossero destinatari di un’azione di pressione finalizzata ad ottenere che modificassero il loro atteggiamento processuale collaborativo, si sono quindi riferiti ad episodi emersi nel dibattimento, dotati di sufficiente concretezza, e ad episodi precedenti di minacce, determinate da quell’atteggiamento collaborativo, ricostruendo i fatti in modo corretto e non illogico, e per ciò stesso non censurabile in questa sede, così che le doglianze al proposito dei ricorrenti, finiscono per introdurre inammissibili spunti di rivalutazione del fatto.

Il primo motivo del ricorso per T., che deduce violazione del contraddittorio per divergenza fra la contestazione, del delitto di ricettazione, e la sentenza che aveva ritenuto ricorrere l’ipotesi di furto, è infondato.

In tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, le Sezioni unite di questa Corte (sent. n. 16 del 19/6/1996, Rv. 205619, ric.: Di Francesco) hanno osservato che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.

Il criterio da applicarsi in materia è quindi quello "teleologico", del mancato pregiudizio per la difesa dell’imputato, quale limitazione di derivazione giurisprudenziale del generale principio di cui all’art. 521 c.p.p., funzionale alla garanzia del contraddittorio (cfr. Cass. pen., Sez. 5A, 13/12/2007, n. 3161).

E nella particolare materia della riqualificazione come furto di ipotesi originariamente contestate come ricettazione, la più recente giurisprudenza, superando passate rigidità e sempre con riferimento all’esigenza che si siano potute esplicare appieno le possibilità difensive dell’imputato ha ritenuto che (Sez. 2, sent. n. 38889 del 16/9/2008, Rv. 241446, ric.: Depau), nel caso in cui nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza e ciò, tanto nell’ipotesi di riqualificazione del furto in ricettazione, quanto in quella opposta di riqualificazione della ricettazione come furto (v., anche la cit.

Sez. 5, sent. n. 3161 del 13/12/2007, Rv. 238345, ric.: Piccione).

Nel caso di specie la Corte di appello ha applicato in modo ineccepibile tali principi, rilevando che agli imputati era contestato fin dall’origine di avere conseguito per fini di profitto il possesso di tutti i beni indicati nei capi di imputazione, nel cui contesto venivano specificati, con riferimenti di tempo, luogo e persona offesa, anche i furti con i quali s’era verificata la sottrazione dei beni; ha poi osservato la Corte che, in sede di dibattimento, centrali erano stati i contributi dei fratelli A. sulle modalità delle sottrazioni e sulle partecipazioni di ciascuno degli imputati alle diverse operazioni criminose.

Ed il Collegio ritiene del tutto corretta la valutazione della Corte territoriale, essendo ricavabile dalle sentenze di merito che la difesa dei prevenuti si era concentrata sulla critica e la svalutazione delle dichiarazioni dei fratelli A., che avevano coinvolto gli attuali ricorrenti nelle azioni con le quali i beni erano stati sottratti alle persone offese; così che non v’è dubbio alcuno che gli imputati abbiano in concreto sviluppato le loro difese di fronte a chiare ed esplicite accuse di partecipazione ai furti e siano stati in grado di porre in essere tutte le opportune strategie difensive rispetto agli elementi essenziali contestati, rivelandosi elemento secondario la circostanza dell’acquisizione diretta o indiretta di tale possesso. Osserva il collegio che infondato è anche il terzo motivo del ricorso T.. Condivisibile giurisprudenza di questa Corte ritiene che l’obbligo di avvisare il testimone della facoltà di astenersi, previsto dall’art. 199 c.p.p., comma 2 in relazione ai prossimi congiunti dell’imputato, non è applicabile ai soggetti espressamente indicati nell’art. 200 c.p.p., a norma del quale essi non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria, perchè (Sez. 6, sent. n. 9866 dell’11/2/2009, Rv. 242699, ric.: P.G. in proe Belluomo) "una tale diversità di trattamento è la conseguenza della differente situazione che, rispetto al quivis de populo "prossimo congiunto dell’imputato", connota il professionista preso in considerazione dall’art. 200 c.p.p., in quanto, mentre i prossimi congiunti possono legittimamente ignorare l’esistenza della facoltà d’astensione e trovarsi così in conflitto con i sentimenti di solidarietà familiare che potrebbero indurli a dichiarazioni menzognere, i professionisti elencati nell’art. 200 c.p.p. sono, invece, caratterizzati da competenza tecnica professionale, che implica la conoscenza dei doveri deontologici e giuridici connessi all’abilitazione ed all’esercizio della professione".

Spettando unicamente a tali soggetti la scelta se deporre o meno su quanto hanno conosciuto per ragioni del ministero, ufficio o professione, e di comunicarla al giudice in qualsiasi momento utile, il Tribunale, che già aveva ricevuto dall’avv. P. la comunicazione della propria intenzione di avvalersi del segreto professionale, non aveva alcun obbligo di convocare la professionista, e di conseguenza non si è verificata alcuna nullità per tale mancata convocazione. Tanto rilevato sulla correttezza del procedere del primo giudice, del tutto priva di fondamento è la doglianza sulla mancata rinnovazione in tal senso dell’istruttoria dibattimentale da parte della Corte d’appello.

Infondati, ai limiti dell’inammissibilità, sono il secondo motivo del ricorso M. ed il quarto e quinto motivo del ricorso T., con i quali i ricorrenti, deducendo carenza e/o manifesta illogicità della motivazione, propongono in realtà censure sugli accertamenti ed apprezzamenti di fatto dei Giudici del merito, cui son pervenuti in base ad un compiuto esame degli elementi probatori a disposizione ed a seguito di una ricostruzione della vicenda esente da errori logici e giuridici e, come tale, non sindacabile in questa sede.

Invero – contrariamente a quanto asserito nei ricorsi – la Corte territoriale ha spiegato correttamente le ragioni che giustificano l’affermazione di responsabilità di entrambi i ricorrenti, esaminando le deposizioni dei fratelli A., delle quali è stata valutata l’attendibilità, sia con riferimento alle modalità dei fatti di cui costoro si erano in primis accusati, sia con riguardo alla partecipazione ai furti degli attuali ricorrenti di cui avevano indicato di volta in volta i ruoli nelle diverse operazioni.

I giudici del merito hanno poi evidenziato i contributi dibattimentali (dichiarazioni S., testimonianze dei fratelli L.) che finivano per dare conferma dell’attendibilità di quelle dichiarazioni, ed anche gli esiti delle indagini della polizia giudiziaria che aveva direttamente rilevato le circostanze che ne avevano poi determinato l’intervento presso la cascina dove i quattro tenevano le merci frutto delle loro azioni criminose.

La Corte territoriale ha anche affrontato le doglianze dei ricorrenti relativamente alle pretese contraddizioni fra le diverse dichiarazioni e le asserite incongruenze anche temporali, superando le doglianze dei prevenuti con argomentazioni del tutto logiche e che, per tale motivo si sottraggono alle loro censure.

E’ stato anche affrontato il tema proposto dai ricorsi circa le particolari convenienze per A.O. di tenere un certo atteggiamento accusatorio (il timore di perdere la possibilità di vedere la propria figlia) e la Corte territoriale ha evidenziato i motivi per i quali riteneva che non si trattasse di motivazioni che ne inficiassero l’attendibilità.

E tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede giacchè non possono condurre ad una rivalutazione del materiale probatorio le puntigliose indicazioni contenute nel ricorso M. (mentre il ricorso T.costituisce, sul punto, pedissequa riproposizione anche letterale dell’appello) sulla possibilità di leggere in modo difforme certuni risultati probatori, che non possono comunque essere considerate da questa Corte, alla cui funzione istituzionale è estranea la possibilità di sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito.

Anche perchè non c’è elemento, per quanto determinante, che possa essere letto fuori dal contesto probatorio in cui è inserito e soltanto i giudici di merito hanno la possibilità di valutare complessivamente ed esaurientemente tale contesto.

In definitiva le diverse osservazioni dei ricorrenti non scalfiscono l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa, finendo per risolversi in prospettazioni di diverse interpretazioni del materiale probatorio non proponibili in questa sede.

Il sesto ed il settimo motivo del ricorso T., che lamentano la mancata concessione delle attenuanti generiche e l’eccessività della pena, sono manifestamente infondati e tendenti a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, ad essa sottratte.

Del tutto legittimamente difatti la Corte di appello ha ritenuto ostativo al riconoscimento delle attenuanti generiche il comportamento successivo ai fatti per cui si procede, caratterizzato da atteggiamento minatorio nei confronti degli A. e dalla negazione dell’evidenza con riferimento al documento a sua firma, trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62-bis c.p., a fronte del quale il ricorso non evidenzia alcun significativo elemento di segno opposto non considerato, tale non essendo la mera partecipazione al dibattimento con sottoposizione all’esame dell’imputato.

Quanto alla misura della pena, la motivazione della impugnata sentenza si sottrae ad ogni sindacato per avere adeguatamente richiamato, ai sensi dell’art. 133 c.p., la rilevante gravità dei fatti per l’imponenza della refurtiva, per l’entità del danno patrimoniale arrecato, per la continuità, la serialità e la professionalità dell’attività criminosa, quali manifestazioni di notevole ed inquietante caratura delinquenziale. E il ricorso non supera al proposito il livello della genericità, omettendo di indicare elementi non considerati in positivo, decisivi ai fini di una diversa valutazione.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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