CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 26 agosto 2008, n.34157 ELEMENTI DISTINTIVI DEL REATO DI PECULATO RISPETTO AL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e svolgimento del processo

Dalla decisione impugnata risulta che il procedimento concerne una serie di vicende, legate alla concessione, alla società per azioni SIMEC, del pubblico servizio di costruzione dell’impianto e di gestione, del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilabili, nella discarica controllata di Cerro Maggiore. A fianco della discarica autorizzata vi era un’attività di cava, da tempo attiva, e nel territorio del Comune di Rescaldina, contiguo all’impianto di smaltimento dei rifiuti urbani, era stato realizzato un manufatto in cui doveva essere aperto dalla società francese Auchan un centro commerciale. Tale contingente realtà aveva determinato una serie di complesse problematiche ambientali, derivanti dalla interazione delle diverse attività pianificate nell’ambito territoriale insistente nei Comuni di Cerro Maggiore e Rescaldina (il c.d. Polo Baraggia), con gli odierni sviluppi giudiziari.

1-a) la sentenza 20 dicembre 2005 del Tribunale di Milano

All’esame del giudice di I grado erano stati portati, in particolare, tre gruppi di fatti:

1) Il primo gruppo ha come protagonisti gli amministratori e soci di SIMEC s.p.a., incaricata della gestione della discarica, cui erano state contestate condotte di appropriazione di fondi della società, qualificate, in base all’epoca dei fatti, ai sensi dell’art. 646 cp. e dell’art. 314 c.p. (posizioni definite per altra via giudiziaria), nonché le persone che, con le loro condotte, inizialmente qualificate come ricettazione o riciclaggio, avevano permesso il realizzarsi di quelle condotte criminose (in questo processo: V., C., i fratelli R., V. R., e B.).

2) Il secondo gruppo è quello che concerne M. (Dirigente del Servizio rifiuti e residui recuperabili della Regione) e N. C. (all’epoca assessore regionale competente in materia di ambiente), cui sono stati contestati i reati di cui agli articoli 326, 479 c.p. e, per il solo N. C., art. 323 c.p., in relazione alle loro relazioni con gli amministratori ed ai provvedimenti correlativamente adottati od omessi.

3) Il terzo gruppo comprende i reati contestati al Presidente della Regione Lombardia R. F., anch’egli, come per F. N. C. e L. M., quanto ai provvedimenti emessi ed ai comportamenti tenuti dal 1995 in poi, in relazione alla discarica di Cerro Maggiore, nonché, per l’ipotesi di corruzione attuata nei suoi confronti da P. L., quanto all’accordo concluso da Omnia Res (Auchan) con SIMEC.

Il Tribunale di Milano, partendo dalle indagini avviate dopo il suicidio dell’amministratore delegato di SIMEC S.pA. L. C., ha ricostruito le vicende del capitale sociale di Simec, come si erano sviluppate dalla sua costituzione (il 1° ottobre 1987) con il nome di ECOTER e dopo un processo sviluppatosi attraverso numerose udienze, e concernenti gli imputati F. B., M. C., R. F., P. L., L. M., F. N. C., M. G. P., A. R., P. R., R. V. e A. V., ha concluso con sentenza, 20 dicembre 2005, assumendo per gli imputati oggi ricorrenti le decisioni che seguono.

L. M. e F. N. C., dichiarati responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi Z) e AA) (per entrambi art. 326 c.p.), sono stati condannati alla pena di anni due di reclusione ciascuno, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, e dichiarati interdetti dai pubblici uffici per un periodo pari alla durata della pena. Pena sospesa e non menzione per il solo L. M..

L. M. e F. N. C. sono invece stati assolti dal reato loro ascritto al capo Y) (art. 479 c.p.) perché il fatto non sussiste e il N. dal solo reato di cui al capo D) (art. 323 c.p.), perché il fatto non costituisce reato. Entrambi sono stati condannati al risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile Comune di Cerro Maggiore, danni da liquidarsi in separato giudizio civile, ma con provvisionale in favore della medesima parte civile nella misura di euro 10.000,00.

R. V. è stato ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 81, 110, 112, 117, 314, 61 n. 7 c.p., cosi diversamente qualificato il fatto di cui al capo R) con riferimento alla Immobiliare Tenuta La Beffa, e, applicate la riduzione di cui all’art. 117 c.p. e le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, è stato condannato alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione, nonché dichiarato interdetto dai pubblici uffici per un tempo pari alla durata della pena, con i doppi benefici di legge.

R. V. è stato infine assolto dalle restanti condotte a lui contestate al capo R) perché il fatto non sussiste.

1-b) La sentenza 24 ottobre 2007 della Corte di appello di Milano

La Corte di appello di Milano, con la sentenza 24 ottobre 2007, in parziale riforma della predetta decisione del Tribunale di Milano, in data 20 dicembre 2005, appellata dalla Procura della Repubblica dì Milano nei confronti di F. R., dalla parte civile Comune di Cerro Maggiore nei confronti di M. L., N. C. F. e F. R., nonché dagli imputati V. R., C.M., R. A., R.P., V. A., M. L., N. C. F. e F. R.:

a) ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di V. R. (imprenditore), C.i M., R. A., R. P., V. A., per i reati loro contestati come ritenuti in sentenza, essendo gli stessi estinti per prescrizione, revocando, di conseguenza, le statuizioni civili nei confronti di V. e C..

b) ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M. L. (dirigente del Servizio rifiuti e residui recuperabili dell’Assessorato all’ambiente ed energia della Regione Lombardia) per il reato contestato al capo Z e nei confronti di N.C. F. (ex assessore regionale all’ambiente della Regione Lombardia) per il reato al capo M, qualificato ai sensi dell’art. 323 c.p. essendo entrambi i reati estinti per prescrizione;

c) ha confermato nel resto l’appellata sentenza e condannato gli appellanti R.A., R. P. e V. R., in solido tra loro, alla rifusione delle spese di proseguita rappresentanza e difesa delle parti civili Comune di Milano e AMSA, liquidate in complessivi euro 2.000,00, per ciascuna parte civile.

2) Motivi di impugnazione dei ricorrenti N., M. e V. e relativa decisione

Per ragioni di comodità narrativa verranno ora indicati ed esaminati i singoli motivi, partendo dalla posizione del Nicoli.

2-a) motivi di impugnazione della difesa di N. C. F. e motivi della presente decisione

N. C. F., assessore regionale, competente in materia di ambiente, risulta prosciolto, per intervenuta prescrizione, dal reato contestato al capo Z, riqualificato come violazione all’art.323 Cod. Pen. (con specifici riferimenti motivazionali nella sentenza impugnata a pagg.: 30, 31, 41, 42 capo Y, 43 capo D, 67 e 83 motivi appello, 114, 128 capo AA, 129 capo AY).

Con un primo motivo di impugnazione il ricorso si duole della violazione dell’art.606.1 lettera b) per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 323 C.P.P. (Capo AA) e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del reato di abuso d’ufficio con mancanza e manifesta illogicità della motivazione stessa sul danno ingiusto e sul dolo diretto.

Con un secondo motivo per il capo AA si prospetta violazione dell’art. 521 c.p.p..

Il primo motivo è fondato e va accolto, giusta anche richiesta del Procuratore generale, e il suo accoglimento rende superfluo l’esame del successivo motivo.

La Corte distrettuale ha ritenuto che la condotta dell’assessore N., accertata nella vicenda, non abbia configurato un’ipotesi di indebita utilizzazione di notizie riservate, ma bensì la violazione del più generale principio di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.

Orbene, seguendo invece la ratio decidendi, comunemente accettata da questa sezione (cfr.: Cass. Penale sez. VI 12769, 11/10/2005, Rv. 233730, PG in proc. Fucci, N. 45261 del 2001 Rv. 220935, N. 35108 del 2003 Rv. 226706), va criticamente rilevato che, in tema di abuso d’ufficio, la norma di cui al primo comma dell’art. 97 della Costituzione (secondo la quale i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione), non ha carattere precettivo ed ha valore meramente programmatico, sicché tali principi, per il carattere generale che li distingue, non sono idonei da soli a costituire oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato previsto dall’art. 323 cod. pen..

La violazione normativa, rilevante alla stregua dell’art. 323 c.p., deve quindi essere correlata soltanto a quelle disposizioni dotate di uno specifico contenuto prescrittivo, la cui trasgressione vada ad incidere su posizioni soggettive sostanziali. Di conseguenza (Cass. Penale sez. VI, U.P. 22 maggio 1998, Sancio), vanno escluse dall’area della punibilità:

a) l’inosservanza di norme meramente programmatiche, prive di immediata portata precettiva, quale quella appunto prevista dall’art. 97 Cost.;

b) le norme procedurali destinate a svolgere la loro funzione solo all’interno del procedimento, senza incidere in modo diretto o mediato sulla c.d. fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali oggetto della valutazione amministrativa.

Il che significa, in conclusione, che la norma violata deve essere intrinsecamente dotata di un sufficiente livello di significatività sul piano del disvalore criminale, specificamente orientata a vietare il comportamento sostanziale del soggetto pubblico ed avere un qualche riflesso sul contenuto dispositivo della determinazione finale (cfr. sul punto: Cass. Penale sez. VI, U.P. 11 febbraio 1999, Chirico), a ciò non bastando, come nella specie, la mera violazione di un principio di carattere generale.

L’accoglimento del motivo per il capo AA comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti del ricorrente N. C. perché il fatto non sussiste.

2-b) motivi di impugnazione della difesa di M. L.,

dirigente del Servizio rifiuti e residui recuperabili della Regione, prosciolto per intervenuta prescrizione dal reato contestato al capo Z, previa riqualificazione dello stesso come violazione all’art. 323 Cod. Pen.. (con specifici riferimenti motivazionali nella sentenza impugnata a pagg.: 1, 30, 42 capo Y, 78 motivi, 114,127 capo Z, 129 capo AY).

Con un primo motivo di impugnazione la difesa del M.deduce la violazione dell’art. 606.1 lettera c) per inosservanza di norme processuali, stabilite a pena di nullità, in relazione alla questione preliminare di nullità del decreto che dispone il giudizio ex, art. 429.2 C.P.P., per genericità della contestazione. Con un secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606.1 lettera c) c.P.P. per difetto di contestazione in relazione al disposto degli artt.522 e 598 c.p.p., posto che la Corte individua le "notizie segrete rivelate" in 4 conversazioni telefoniche che esulerebbero dall’ambito della pur generica contestazione.

I due motivi tra loro collegati, sono entrambi infondati e vanno rigettati. Sostiene il ricorrente – ripetendo pedissequamente quanto già dedotto avanti ai giudici di merito – che vi è stata "genericità nella contestazione dell’accusa" in violazione del disposto dell’art. 429.1 lettera c) c.p.p., vizio questo che graverebbe di nullità ex art. 429.2 C.P.P. il decreto che dispone il giudizio, travolgendo le decisioni di merito.

Va sul punto rammentato che, per consolidata giurisprudenza in tema di requisiti del decreto di citazione a giudizio, sotto il profilo della completezza del capo di imputazione nei suoi elementi essenziali, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (Cass. Penale sez. IV, 25 febbraio 2004, 34289, Rv. 229060; Cass. Penale sez. I, 22 novembre – 17 dicembre 1994, 12474).

Nella specie, tanto risulta essere in concreto avvenuto, laddove si valuti l’indiscutibile correttezza delle argomentazioni della Corte distrettuale sulla questione, ma, soprattutto, avuto riguardo alla risolutiva circostanza che la pretesa "non chiarezza e precisione nella enunciazione del fatto" non ha per nulla impedito la predisposizione e la cura di una efficace strategia di tutela della posizione dell’assistito (a tutto campo ed in tutte le fasi e gradi di giudizio), considerato che la condotta illecita del Mille è stata formalmente individuata, con adeguata precisione funzionale:

a) sia rispetto al quadro generale (contesto) delle sue "competenze e informazioni istituzionali",

b) sia a quello specifico dell’accusa (comunicazione alla SIMEC delle risultanze delle riunioni del Gruppo di coordinamento).

In tale prospettiva non vi sono ragioni logiche o giuridiche per ritenere la non ascrivibilità alla configurazione dell’accusa delle conversazioni telefoniche utilizzate dai giudici di merito e che propongono – come evidenziato in modo ineccepibile- la figura di un dipendente pubblico ben consapevole di aver fornito al G. (amm. delegato SIMEC) notizie riservate, in cosciente e pacifica violazione dei divieti ex art. 15 d.p.r. 10 gennaio 1957 e successive modifiche.

Con un terzo motivo il ricorso prospetta difetto assoluto di motivazione rispetto ai contenuti indicati nel terzo motivo dell’atto di appello, non avendo la Corte motivato né sulla segretezza delle risultanze delle riunioni, né sull’utilizzazione fatta dalla Simec delle notizie fornitile dal M.

Anche questa doglianza è priva di valido fondamento. La regola della "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata", enunciata dall’art. 546, comma primo, lettera e), cod. proc. pen., rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando, come nella specie, nella motivazione i giudici di merito abbiano dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il loro convincimento, in quanto quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate. (Cass. Penale sez. IV, 36757/2004, Rv. 229688, conformi: Rv. 196880, Rv. 217696, Rv. 223061).

In buona sostanza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso vanno considerate disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. Penale sez. IV, 1149/2005, Rv. 233187).

Tanto è avvenuto nella presente vicenda, e, pertanto, il ricorso di M. va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali ed al rimborso alla parte civile, Comune di Cerro, delle spese del grado liquidate in complessivi euro 4.500,00, oltre i.v.a. e c.p.a..

2-c) motivi di impugnazione della difesa di R. V. e motivi della decisione.

i fatti nella ricostruzione dei giudici di merito

L’imprenditore V. è stato condannato per le condotte poste in essere nel 1994 in relazione alla cessione delle sue quote (3%) nella Società Immobiliare Tenuta La Beffa alla Simec, per il prezzo (ritenuto del tutto esorbitante rispetto al valore della società) di L. 660 milioni.

Dalla ricostruzione della vicenda operata, nelle decisioni di merito, il ruolo del V., al pari a quello degli altri cedenti le rispettive quote, si è concretizzato nel concorrere a far uscire dalle casse SIMEC ingenti somme di denaro, poi confluite nella disponibilità dei soci e/o amministratori effettivi e di fatto di tale società: condotta che è stata ascritta nello schema dogmatico del delitto di peculato, diversamente qualificata l’originaria imputazione di riciclaggio, della quale difettavano i presupposti.

Secondo i giudici di merito il V. ebbe a partecipare a pieno titolo alla fuoriuscita dalle casse Simec di oltre L. 30 miliardi, traendone un consistente vantaggio personale, al pari degli altri appartenenti ai gruppi "Butti-Berlusconi-Ciaparelli".

L’operazione ebbe origine il 15 dicembre 1993, quando tra i soci di "Immobiliare Tenuta La Beffa s.r.l." e "Simec" furono stipulati contratti preliminari, per la cessione di quote della società, al prezzo poi risultante al momento dell’acquisto il 15.06.1994. Simec acquistò una partecipazione totalitaria in Immobiliare Tenuta La Beffa da tredici diversi soggetti tra cui il Valli. La motivazione dell’acquisto, riportata nel verbale del consiglio di amministrazione Simec del 29.03.1994 precisa che “…il presidente della riunione informa i presenti che la società procederà all’acquisto della totalità delle quote costituenti l’intero capitale sociale della società Immobiliare Tenuta La Beffa…” illustrando “…inoltre ai presenti l’opportunità di tale acquisto, diretto ad assicurare una possibile espansione dell’attività sociale…” ottenendo quindi la ratifica dell’operato “…in ordine alla avvenuta sottoscrizione dei contratti preliminari di acquisto delle quote sociali…”.

Il pagamento dei prezzi pattuiti risulta contabilizzato per euro 9.472.500.000, tra il 25.05.1994 (vale a dire il medesimo giorno in cui i cedenti avevano acquistato le quote da C. e S.) ed il 26.05.1994, e per il residuo di euro 21.187.500.000, il 15.06.1994, al momento della stipula dell’atto notarile.

Tale condotta del V. è stata qualificata come "concorso in peculato" non essendovi prova che egli sapesse degli obblighi di rendicontazione della concessionaria, dei meccanismi di formazione della tariffa e, in generale, dei rapporti economici tra A.M.S.A. e SIMEC. Da ciò l’affermazione che egli avesse la coscienza e volontà di concorrere in una appropriazione indebita ai danni della predetta società e non nel reato tipico del P.U. dell’art. 314 c.p.. Tuttavia, ai sensi dell’art. 117 c.p., proprio perché, in relazione alla qualifica di incaricati di un pubblico servizio, gli autori principali, della condotta che si realizzava, rispondevano di peculato – capo A) dell’originaria imputazione – anche Valli è stato ritenuto responsabile dello stesso reato.

Essendo il peculato più grave dell’appropriazione indebita, in forza della medesima disposizione di legge, è stata riconosciuta a V., e agli altri imputati ritenuti dal Tribunale autori di fatti analoghi, una diminuzione della pena nella massima estensione in considerazione dell’entità della loro partecipazione rispetto alle condotte poste in essere dai principali imputati dell’originario procedimento.

motivi di ricorso e motivi della presente decisione per il V.

Tanto premesso, va rammentato che nel giudizio di appello la difesa del V. ha proposto ben 13 motivi di impugnazione, l’ultimo dei quali finalizzato ad ottenere la rimessione in termini per patteggiare la pena ex art. 444 C.P.P.. Preliminarmente, appare ancora opportuno ricordare il rapporto di corrispondenza tra motivi di appello e quelli di ricorso nei termini che seguono: i primi cinque motivi di appello sono sostanzialmente identici ai corrispondenti motivi di ricorso per cassazione, mentre i motivi di ricorso 6-7-8-9 trovano il loro "pendant" nei motivi di appello 8-9-11-12.

La difesa del V. con un primo motivo di impugnazione deduce la violazione dell’art. 606.1 lettera c) per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione alla diversa qualificazione del fatto per il quale l’imputato era stato condannato in I grado, rispetto a quello per cui era stato rinviato a giudizio, ed in violazione delle norme di cui agli artt. 521 e 522 C.P.P.. In buona sostanza si sarebbe passati "contra legem" dall’imputazione di riciclaggio ex art. 648 bis Cod. Pen. al delitto di cui al combinato disposto degli artt. 117 (mutamento del titolo di reato per taluno dei concorrenti) 314 Cod. Pen. (concorso aggravato e continuato nel delitto di peculato), sia pure in assenza del dolo di concorrere in tale reato, ma in presenza del diverso dolo di concorrere in un’appropriazione indebita.

Per la difesa nella specie si verserebbe nella assoluta impossibilità di rintracciare alcun rapporto di continenza fra il fatto di reato contestato (riciclaggio) e quello ritenuto in sentenza (concorso in appropriazione indebita, punito ex art. 117 c.p.p. come concorso in peculato, sia pur con applicazione dell’attenuante).

Il Procuratore generale in udienza, dopo aver premesso che ci si trova di fronte ad una gigantesca operazione di trasferimento di capitali, con movimenti tecnicamente preordinati per nascondere, con facciate formali, la sostanziale e radicale illegittimità delle condotte, ha concluso per il rigetto del primo motivo, che altro non è che la sostanziale iterazione dell’identico primo motivo di appello, su cui la Corte distrettuale ha ampiamente e correttamente argomentato.

Il motivo pur sostenuto, come gli altri, da una pregevole rassegna di orientamenti giurisprudenziali, non merita accoglimento.

Nella fattispecie, una volta accertata la coscienza e volontà dell’imprenditore V. di concorrere in una appropriazione indebita in danno della SIMEC, dall’originaria imputazione di riciclaggio, si è giunti all’affermazione di responsabilità dell’imprenditore, che è però "virata" nella situazione finale con applicazione del combinato disposto degli art. 117 e 314 Cod. Pen., avuto riguardo alla qualifica di incaricati di un pubblico servizio rivestita dagli autori principali della condotta illecita.

Il taglio, l’ampiezza del ricorso e la singolarità della vicenda impongono alcuni richiami sulla eccepita violazione del diritto di difesa dell’imputato.

Innanzitutto, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto, non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione. (Cass. Penale sez. III, 27/2/2008 Rv. 239866, Fontanesi Massime precedenti Conformi: N. 41663 del 2005 Rv. 232423 N. 10103 del 2007 Rv. 236099 N. 34789 del 2007 Rv. 237415 N. 45993 del 2007 Rv. 23932).

Se quindi il "fatto" va definito come l’accadimento di ordine naturale, dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, di luogo e di tempo, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, la violazione del principio di correlazione si realizza e si manifesta:

a) soltanto con una modificazione degli elementi essenziali del fatto stesso, inteso come episodio della vita umana, originariamente contestato (Sez. 1, 13408 del 14/02/2008 Rv. 239903, Benedetti, Conformi: N. 10948 del 1992 Rv. 192190, N. 7552 del 1994 Rv. 199505, N. 45993 del 2007 Rv. 239320);

b) quando nei "fatti", rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, ma di eterogeneità (Cass. Penale sez. III, 35225 del 28/06/2007 Rv. 237517, Di Martino, N. 9957 del 1999 Rv. 213968, N. 818 del 2006 Rv. 233257);

c) quando nella contestazione non sono contenuti, né sono desumibili, gli elementi concreti per apprestare un’utile difesa in riguardo al diverso reato poi ritenuto in sentenza (Cass. Penale sez. II, 29912 del 17/05/2007 Rv. 237262, Porzio ed altri);

d) quando infine, nella ricostruzione del fatto, posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia stata modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 6, Sentenza n. 34879 del 10/01/2007 Rv. 237415, Sartori ed altri, Conformi: N. 12175 del 2005 Rv. 231483; nel caso di specie, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 521 cod.proc.pen. con riguardo alla derubricazione dell’originario reato di concorso in concussione aggravata in quello di concorso in tentata truffa aggravata).

In buona sostanza e per concludere, per aversi "mutamento del fatto", occorre un’alterazione consistente ed una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, che non consenta di rinvenire un nucleo comune identificativo della condotta, con il risultato di un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, tra il fatto contestato e quello accertato, capace di creare un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte del quale si verifica un pregiudizio, concreto e reale, dei diritti della difesa (Cass. Penale sez. II, 45993/2007 Rv. 239320, imputato Cuccia).

Quindi, non basta una mera difformità descrittiva, con scarti da sovrapposizione nei fatti stessi, ma occorre che una tale non corrispondenza abbia una ricaduta, vistosa ed apprezzabile, in termini di pregiudizio e menomazione della difesa, appunto per l’intervenuto "stravolgimento del quadro d’accusa". Ad avviso della Corte, solo siffatta correlazione causale, tra "difformità" e i derivati “esiti di impoverimento” nelle risorse e strategie difensive, può quindi originare il vizio sanzionato dal disposto degli artt. 521 e 523 C.P.P..

Orbene di tali principi risultano aver fatto buon governo i giudici di merito i quali, non solo hanno correttamente argomentato gli sviluppi dell’imputazione, sostenendo l’assenza del lamentato difetto di correlazione, ma hanno altresì con essi confrontato le corrispondenti e concrete risposte difensive "a tutto campo". La condotta della difesa -come già detto- è stata molto attenta alle dinamiche processuali, e, non solo ha approntato ogni possibile schema di contenimento dell’imputazione avendo ben presente il reato dell’art.314 Cod. Pen.. Inoltre, e soprattutto, in tale opera di "riduzione degli ambiti dell’accusa" (non a caso la richiesta di patteggiamento faceva parte del compendio dei 13 motivi di appello), con memoria 12 luglio 2005 (depositata in sede di discussione), il difensore, nell’escludere l’ipotesi della ricettazione e del riciclaggio, aveva avanzato espressamente proprio l’ipotesi di un concorso, sostanzialmente negli identici termini fatti poi propri dalla decisione del Tribunale.

Né vale, per frustrare siffatta condotta suggestiva di difesa (ed indicativa della completezza nella descrizione del fatto), l’asserzione (pag. 23 dei motivi V.) che l’affermazione ipotetica era solo una premessa metodologica, in un ambito di richieste assolutorie, posto che il valore comunicativo della frase è la prova provata che l’esito finale, in punto di qualificazione· del comportamento del Valli, era esito prevedibile, previsto, e sul quale la difesa aveva svolto con pienezza e autorevolezza il suo ruolo tecnico-giuridico.

Da ciò piena conferma della correttezza e logicità del percorso argomentativo dei giudici di merito, in punto di ritenuta correlazione tra imputazione contestata e sentenza, attesa l’assoluta integrità e persistenza del nucleo centrale dell’addebito, sugli sviluppi del quale (soggettività ed azione esecutiva) l’imputato ha svolto e attivato ogni possibile, adeguata e ragionevole linea di difesa.

Con il secondo motivo si prospetta erronea applicazione della legge penale in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di peculato, nel quale il V. sarebbe concorso, salvo la sussistenza della prescrizione come causa di estinzione del reato ritenuto (art. 606. comma l, lett. b) c. p.p.) nonché contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.). In via teorica e gradata, si sostiene nel ricorso (pag. 47) che non di peculato si dovrebbe parlare, bensì ed in astratto di truffa aggravata, con la conseguenza che la Corte distrettuale avrebbe dovuto dichiarare l’estinzione del reato in tempo antecedente alla pronuncia della sentenza di I grado, con annullamento derivato della condanna generica in favore della Simec. In ulteriore subordine (pag. 53 ricorso), si prospetta l’evenienza che la condotta de qua possa essere ricondotta nell’ambito di un abuso d’ufficio.

Il motivo è infondato, per le ragioni indicate correttamente nella sentenza impugnata e considerato che, come di recente affermato da questa Corte (Cass. Penale sez. VI, 367, 26 febbraio 2008, 38748/07, 12306/08, Salzano), i criteri differenziali tra peculato e truffa sono dati dal fatto che il primo delitto presuppone -come avvenuto nella specie- che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nel momento in cui pone in essere la condotta appropriativa, abbia già un potere materiale (possesso) o giuridico (disponibilità) sulla cosa mobile altrui (cfr. in tal senso: Cass. Penale sez. I, 17320/2006 Rv. 234133 imputato. Pagliari; Cass. Penale sez. VI, U.P. 15.4.99 Elicio, e U.P. 23.3.99 Casti).

Quanto poi al "discrimen" tra peculato e abuso d’ufficio, va precisato che, mentre nel delitto previsto dall’art. 314 cod. pen. la condotta consiste nell’appropriazione di denaro o altra cosa mobile altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio – onde la violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente (come avvenuto nell’odierna vicenda) la modalità della condotta, cioè dell’appropriazione – nella figura criminosa di abuso d’ufficio (di carattere sussidiario), prevista dall’art. 323 cod. pen., la condotta si identifica con l’abuso funzionale, cioè con l’esercizio delle potestà e con l’uso dei mezzi inerenti ad una funzione pubblica per finalità differenti da quelle per le quali l’esercizio del potere è concesso (Cass. Penale sez. VI, Sentenza n. 6753/98 Rv. 211011 Imputato: Finocchi ed altri).

Quindi, avuto riguardo al caso di specie, nessuna erronea applicazione di legge penale sostanziale risulta essere stata concretizzata, essendo stati ben definiti e realizzati i profili oggettivi del contestato delitto e la sua soggettività nei limiti del disposto dell’art. 117 Cod. Pen..

Con il terzo motivo si censura l’erronea applicazione della legge penale, nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto di poter qualificare la condotta del V. come concorso in peculato attraverso la ritenuta applicabilità del disposto di cui all’art. 117 c.p. (art. 606 comma i lett. b) c.p.p.), prospettandosi in modo formale, ove la Corte ritenesse di non poter accogliere l’interpretazione dell’art. 117 C.p. proposta dalla difesa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 117 c.p. — per violazione degli artt. 3 e 27 primo comma Cost. — nella parte in cui estende automaticamente al concorrente extraneus nel reato proprio la responsabilità per il reato, così come diversamente qualificato in relazione alle condizioni o alle qualità personali dell’intraneus, ovvero ai rapporti fra l’intraneus e l’offeso, a prescindere dalla consapevolezza dell’extraneus medesimo in ordine alle condizioni o qualità personali dell’intraneus, od ai rapporti fra l’intraneus e l’offeso (condizioni, qualità o rapporti che hanno l’effetto di modificare il reato commesso dall’extraneus, o comunque il reato che quello aveva la coscienza e volontà di commettere, nel reato più grave commesso e voluto dall’intraneus).

Si chiede conseguentemente che la Corte, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, voglia trasmettere gli atti alla Corte costituzionale e sospendere il giudizio in corso, ai sensi dell’art. 23 Legge 11 marzo 1953, n. 87.

Il motivo non merita accoglimento.

Premesso che il disposto dell’art. 117 cod. pen., per il quale se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole o per i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato, trova applicazione nell’ambito di tutto il diritto penale (Cass. Penale sez. I, 2167/1993, Rv. 197561, Gissi, Conformi: Rv. 187200 Rv. 186909), è pacifico che il concorso dell’extraneus nel reato proprio si concretizza quando l’estraneo offre, unitamente all’intraneo, un contributo materiale e/o psicologico alla lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice.

Nella specie, quindi va affermata la piena realizzabilità di un delitto di peculato con il contributo da parte dell’estraneo Valli (non pubblico ufficiale né incaricato di pubblico servizio), versandosi in quello che parte della dottrina definisce un "reato proprio semiesclusivo" nel senso che, laddove fosse stata assente la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, che connotava l’autore tipico e proprio di quel singolo illecito, i fatti avrebbero integrato comunque un’ipotesi delittuosa: appropriazione indebita ex art. 646 Cod. Pen., anziché peculato ex art. 314 Cod. Pen..

Ciò premesso, come ampiamente e correttamente motivato dalla Corte distrettuale e dal Tribunale, con un giudizio che appare in questa sede incensurabile, per l’assenza di vizi logico-giuridici, il V. imprenditore aveva la piena consapevolezza di realizzare con la sua condotta un contributo alla fuoriuscita dalle Casse Simec dell’importo di oltre 30 miliardi di lire (nel 1993) senza titolo alcuno. La soggettività del Valli e la pienezza dell’accordo criminoso in tale operazione sono state desunte dalla incontrovertibile e ragionevole circostanza che costui, su consiglio di C., ebbe ad acquistare "per 3 milioni" e vendere, il giorno dopo "per 660 milioni" il 3% di quote della Immobiliare Tenuta la Beffa, un salto di valore che anche al più "insipiente" e "disattento" degli operatori non poteva che fornire il grado del disvalore e il "quantum" di illiceità sottesa a tale spropositato aumento, ottenuto in poche ore.

Da tali elementi, nelle conclusioni dei giudici di merito:

a) è stato ritenuto integrato, nella condotta del V., l’elemento materiale del peculato;

b) si è altresì considerato che il V. versasse in dolo rispetto al reato comune (appropriazione indebita) e che fosse consapevole di concorrere, con altri, nella realizzazione di un fatto-reato;

c) tuttavia, in assenza della prova dell’elemento soggettivo del delitto proprio, il quale ricomprende ex art. 110 Cod. Pen. anche la consapevolezza della qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del correo o dei correi, e tenuto altresì conto dell’assenza di prova della consapevolezza che il denaro sottratto fosse "di natura pubblica" (in quanto oggetto di obblighi rendicontazione della concessionaria), si è fatto ricorso alla disciplina dell’art.117 Cod. Pen..

La volontà del legislatore infatti, nel rispetto del principio della unitarietà del titolo della responsabilità concorsuale, esige che quando vi sono più concorrenti nel reato e, per particolari condizioni personali di alcuni di essi (pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio), venga ad essere mutata la qualificazione giuridica del fatto, comunque penalmente rilevante, ma confluita sotto una diversa ipotesi delittuosa (da appropriazione indebita, "reato comune", a peculato, "reato proprio"), tutti i concorrenti rispondano del reato così come modificato, con gli effetti quoad poenam stabiliti dall’ultima parte dell’art.117 Cod. Pen..

Né ricorrerebbe, nella specie, un’ipotesi di ingiustificata responsabilità obbiettiva, in violazione dell’art. 27 Costituzione, considerato che il V., pur non conoscendo in modo formale la natura pubblica del denaro "defluito" da Simec, aveva peraltro contezza che tale ente con cui egli negoziava (unitamente ai correi e con finalità illecite) aveva come compito istituzionale il soddisfacimento di un pubblico servizio i cui introiti, almeno per la parte derivata da tale incombenza, "potevano avere una componente di rilievo non privatistico". Sotto tale ottica di attribuzione di conoscenza, funzionale ad escludere quadri di responsabilità oggettiva, i giudici di merito hanno appunto valorizzato l’incontestabile circostanza che il V. fosse edotto della "natura dell’attività" svolta dalla SIMEC e del suo complessivo volume d’affari, e ciò hanno desunto (con giudizio qui non censurabile) da una doppia e sintonica circostanza:

a) i rapporti dell’imputato con il C. (che gli ebbe a consigliare la lucrosa operazione di acquisto-vendita);

b) l’aver il V. stesso eseguito lavori nell’ambito della discarica di Cerro, dato quest’ultimo che comporta, notoriamente, una precisa conoscenza della qualità anche formale dell’ente committente.

L’assenza di reali profili di responsabilità oggettiva nella condotta del Valli, nei termini ritenuti dai giudici di merito, rende inaccoglibile la dedotta eccezione di legittimità costituzionale.

Con il quarto motivo si lamenta erronea applicazione della legge penale (art. 606. comma 1, lett. b) c.p.p.) nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.) nella parte in cui sono stati ritenuti dimostrati i fatti dai quali si è derivata la convinzione circa la responsabilità del V. La ricostruzione operata dal Tribunale e condivisa dalla Corte d’Appello nella sentenza qui impugnata in relazione alla vicenda Immobiliare Tenuta La Beffa, quanto meno con riguardo alla posizione del R. V., presenterebbe numerosi punti indimostrati. Con il quinto motivo si sostiene l’erronea applicazione della legge penale (art. 606. comma 1, lett. b) c.p.p.) nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.), in merito alla ritenuta sussistenza del dolo necessario a integrare il reato.

Il terzo, il quarto ed il quinto motivo per come profilati – fermi restando i limiti che derivano in questa sede dalla presenza di una causa estintiva – involgono questioni di mero fatto, qui comunque osservandosi che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che in base al giudizio effettuato risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione – come nella specie – risulti logicamente coerente (Cass. Pen. Sez. 5, sentenza n. 245/2000 17 aprile – 8 giugno 2000, Garasto).

In buona sostanza, l’assenza di motivazione, su di un punto decisivo della causa sottoposto al giudice di merito, per risalente giurisprudenza, non può consistere nella mancata confutazione di un argomento specifico relativo ad un punto della decisione implicitamente trattato nel provvedimento impugnato, ma si sostanzia invece solo allorquando si viene a verificare una frattura logica evidente tra una o più premesse, nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono (Cass. Penale sez. I, 9539, 12 maggio – 23 luglio 1999, Rv. 215132, Preso Fazzioli, est. Mabellino, imputato Commisso).

Sotto tale aspetto, la censura di non avere preso in esame tutti i singoli elementi risultanti in atti e di aver erroneamente indotto i profili soggettivi dell’illecito, costituisce una censura del merito della decisione in quanto tende implicitamente a far valere una differente interpretazione del quadro probatorio – documentale sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni elementi rispetto ad altri, considerato peraltro che la motivazione sul punto non registra alcuno dei vizi logici indicati in ricorso.

Con il sesto motivo si prospetta violazione della legge processuale penale nell’ordinanza pronunciata dal Tribunale in data 9 luglio 2003 con la quale si sono rigettate le questioni concernenti la competenza per territorio (art. 606, comma l, lett. e) c.p.p.). reputandola "inammissibile in quanto non proposta davanti al GIP ex art. 21, C. 2 c.p.p.", e senza ritenere di poter superare tale preclusione sulla base del disposto dell’art. 23, c.1 c.p.p..

La censura è senza fondamento. Come già chiaramente affermato da questa Corte (Cass. Penale sez. VI, 33435/2006 Rv. 234347, Battistella), per il principio della "perpetuatio jurisdictionis", la questione concernente la competenza per territorio va proposta entro i limiti temporali consentiti dalla conclusione dell’udienza preliminare e, se questa manchi, dal compimento per la prima volta, dell’accertamento della costituzione delle parti nel corso degli atti introduttivi al giudizio. Pertanto restano privi di rilevanza eventuali, successivi eventi istruttori o decisori, che possano dare significato diverso ai dati che erano stati "prima" valutati ai fini della cristallizzazione della competenza territoriale, né è possibile risolvere diversamente il problema attribuendo al giudice, d’ufficio, il potere di "superare" tale sbarramento, considerato che l’art. 491 C.P.P. stabilisce un termine perentorio sia per le eccezioni di parte che per l’eventuale rilievo d’ufficio. Da ciò consegue che la verifica sulla competenza per territorio deve essere fatta dal giudice dell’impugnazione con un processo valutativo ex ante, agganciato alle emergenze fattuali in allora processualmente esistenti.

Con il settimo motivo si deduce violazione della legge processuale penale nell’ordinanza 22 gennaio 2004, che ha ritenuto non legittimo l’impedimento fatto valere da entrambi i difensori (art. 606, comma 1, lett. c) c. p.p.). In data 19 luglio 2004 entrambi i difensori del signor R. V (l’Avv. A. S., e l’Avv. A. M.) depositavano presso la cancelleria del Tribunale istanza di legittimo impedimento a comparire.

La Corte ha più volte affermato che la concomitanza dell’impegno professionale, assunto dal difensore in un altro procedimento può essere riconosciuto quale legittimo impedimento a comparire all’udienza, soltanto quando il difensore dimostri:

a) l’esistenza dell’impegno, accompagnata dalle ragioni che rendono indispensabile l’espletamento delle funzioni difensive in tale procedimento;

la correlazione di tali ragioni alla particolarità dell’attività da presenziare prioritariamente;

b) la mancanza o assenza di un altro codifensore e l’impossibilità di avvalersi di un sostituto – ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen. – sia nel procedimento al quale il difensore intende partecipare, sia in quello del quale si chiede il rinvio per assoluta impossibilità a comparire;

c) la tempestività, che va valutata anche con riferimento al tempo dell’informazione sulla data dell’udienza cui si attribuisce valore prioritario (Cass. Penale sez. VI, 48530/2003, Rv. 228598, Levante).

Nella specie i giudici di merito hanno fatto buon governo di tali regole, attesa l’insufficienza dei dati sub -b e sub -c (nella specie una causa civile proveniva da rinvio richiesto proprio dalle parti…), che è stata argomentata in modo logico e non censurabile in questa sede.

Con l’ottavo motivo ci si duole dell’erronea applicazione della legge processuale penale nell’ordinanza pronunciata in data 3 aprile 2003, con la quale il Tribunale ha rigettato le istanze di inammissibilità della costituzione di parte civile (art. 606, comma 1, lett. c) c.p.p.).

Con il nono ed ultimo motivo si rileva ulteriore erronea applicazione della legge penale e processuale penale nella parte in cui la sentenza ha confermato la condanna del V. al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della parte civile SIMEC SPA con condanna generica da liquidarsi in separato giudizio civile (art. 606 comma i lett. b) e lett. c) c.p.p.). La Corte d’Appello, dopo aver dichiarato la prescrizione del reato, per il quale il V. era stato condannato in primo grado, ha confermato nel resto la sentenza di primo grado. In particolare, secondo la ricorrente difesa, ha così trovato conferma la condanna generica del medesimo imputato, da liquidarsi in separato giudizio, al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della parte civile SIMEC s.p.a..

Tali due ultimi motivi esigono un’unica disamina. La Corte distrettuale aveva respinto la eccezione di inammissibilità delle parti civili, rilevando l’ineccepibilità della valutazione operata dal Tribunale (per le parti civili Comune di Milano, AMSA s.p.a. e SIMEC), il quale aveva ritenuto che l’ente pubblico e le due società fossero inoppugnabilmente parti offese del presupposto reato di peculato, precisando che in ogni caso la parte civile SIMEC non era comparsa nel giudizio di appello. Trattasi di motivazione priva dei vizi rilevati mediante un motivo comunque inammissibile – come rilevato dal Procuratore generale – posto che la parte civile SIMEC (a differenza del Comune di Cerro che, pur presenziando al processo, non ha presentato conclusioni scritte) non è comparsa nel giudizio di appello e le uniche parti che hanno rassegnato conclusioni in quella sede sono state il Comune di Milano e l’AMSA s.p.a..

La gravata sentenza va quindi annullata senza rinvio nei confronti di N. C. (capo AA) perché il fatto non sussiste e gli altri ricorsi rigettati, con condanna di M. L. e V. R., in solido, al pagamento delle spese processuali, ed ulteriore condanna del solo Mille a rimborsare alla parte civile, Comune di Cerro, le spese del grado liquidate in complessivi euro 4.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di N. C. (capo AA) perché il fatto non sussiste. Rigetta gli altri ricorsi e condanna M. L. e V. R, in solido, al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì il M. a rimborsare alla parte civile Comune di Cerro le spese del grado, che liquida in complessivi euro 4.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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