Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 04-05-2011) 26-05-2011, n. 21035 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Messina, con ordinanza resa all’udienza camerale del giorno 19.05.2010 rigettava l’istanza di riparazione presentata da M.V. per ingiusta detenzione in regime di custodia in carcere dal 7/04/05 al 17/05/06 perchè sospettato del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato da cui era stato assolto con sentenza del G.U.P. del Tribunale di Messina del 16 gennaio 2007, divenuta irrevocabile nei suoi confronti in data 2 marzo 2007.

M.V., a mezzo del suo difensore, proponeva quindi ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte di appello di Messina e concludeva chiedendo di volerla annullare con rinvio.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato presentava tempestiva memoria e concludeva chiedendo di voler dichiarare inammissibile il proposto ricorso ovvero di rigettarlo.
Motivi della decisione

Il ricorrente censura l’ordinanza impugnata per violazione ed erronea applicazione degli artt. 314 e 315 c.p.p. e per manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in particolare nella parte in cui la Corte di appello rimprovera in termini di colpa grave condotte insuscettibili di essere riguardate alla stregua di macroscopica negligenza e trascuratezza. Pertanto, ad avviso del ricorrente, non sussisterebbe la colpa grave, impeditiva del riconoscimento del diritto all’equa riparazione. Il ricorso è infondato.

Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione per l’ingiusta detenzione, regolato dall’art. 314 c.p.p., e ss., trova fondamento nella condizione soggettiva della persona sottoposta a detenzione immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro sistematico di riferimento è un quadro di diritto civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c. che appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è piuttosto quello della riparazione legata ad eventi che producono il sorgere, quali conseguenze di principi di solidarietà e di giustizia distributiva, di responsabilità da atto lecito (la distinzione tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben fermo, in materia, l’assetto delle regole generalissime che disciplinano l’onere della prova civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò′ il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione (Corte Cass. Sez. 4 sent. n. 23630 02/04/2004 – 20/05/2004) della quale è talora ritenuta irrilevante la formula (Cass. Sez 4, 12/4/2000 n. 2365) e talora rilevante, nel senso che indefettibile presupposto del sorgere del diritto sarebbe solo il proscioglimento con una delle formule di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1. Peraltro il sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di una condotta del richiedente che al tempo del processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare causa a quella ingiusta detenzione. L’operazione intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare solo l’eventuale efficienza causale delle condotte dell’imputato che possano aver indotto, anche nel concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione ragionevole e non congetturale il giudice a stabilire la misura della detenzione (Cass. SSUU 13/12/95 n. 43, Sez 4, 10/3/2000 n. 1705).

Il giudice, pertanto, deve fondare la sua decisione su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta del richiedente, sia prima e sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (cfr. Cass. Sezioni Unite, Sent. n.34559/2002; Cass., Sez.4, Sent. n.17552 del 2009).

Tanto premesso sì osserva che la Corte di Appello di Messina, con motivazione adeguata, ha enucleato, con congrua verifica degli accertati elementi di riferimento, la condotta del richiedente ostativa all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione. In primo luogo ha posto in rilievo la circostanza che il ricorrente è stato assolto dal reato di associazione per delinquere di stampo mafioso dal G.U.P. del Tribunale di Messina, in quanto la perizia fonica aveva escluso che la voce delle conversazioni intercettate all’interno dell’autovettura di A.A. fosse la sua ad eccezione di quella del 6.09.2003 alle ore 12,50.

La Corte di appello ha però ritenuto che già in questo colloquio, unitamente a quelli della stessa data alle ore 9,23 e del giorno precedente alle ore 11,59, sinergicamente valutati, potessero ravvisarsi gli estremi della colpa grave, in quanto il tenore dei dialoghi intercettati deponeva per la programmazione da parte dell’istante di una serie di danneggiamenti di automezzi, nonchè per la partecipazione del M. ad una attività di riscossione di somme, da parte di soggetti titolari di esercizi commerciali, per conto del C., con un’attività di recupero crediti che, per le modalità di svolgimento, la personalità dei creditori ed il contesto complessivo della vicenda, appare sintomaticamente riconducibile all’attività del sodalizio associativo cui si assume abbia partecipato l’istante. Pertanto correttamente la Corte territoriale, senza effettuare alcuna illegittima rivalutazione della sentenza penale di assoluzione, ma rilevando solo la sussistenza di elementi che hanno dato causa all’emissione della misura cautelare e configuranti la colpa grave a norma dell’art. 314 c.p.p., comma 1, a escluso il diritto del ricorrente alla riparazione, essendo state indubbiamente le circostanze succitate idonee concause a determinare l’emissione di una misura cautelare a suo carico.

Questo essendo il quadro accusatorio, il motivo proposto dall’odierno ricorrente non può essere accolto.

Il provvedimento impugnato, che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte che è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa e sull’esistenza del dolo.

Il legislatore non ha infatti riconosciuto incondizionatamente il diritto all’equa riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il comportamento dell’indagato, come appunto nella fattispecie de qua, abbia indotto in errore il giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore del Ministero resistente che si liquidano in complessivi Euro 750,00.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze che si liquidano in complessivi Euro 750,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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