Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 29-04-2011) 26-05-2011, n. 21281 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

s. Enzo Jannelli.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

-1- Il tribunale di Napoli, in sede di riesame, con ordinanza 20.10/5.11.2010, confermava la pregressa ordinanza, datata 16.9.2010, del gip delle stesso tribunale, che disponeva la misura cautelare della custodia in carcere di G.G. per i delitti, in concorso con altri, di omicidio volontario ai danni di C. A. e F.E., e di detenzione e porto di armi di due pistole comuni da sparo. I gravi indizi di colpevolezza i giudici del riesame li traevano dalle dichiarazioni del collaborante S. O., che sarebbe stato presente all’incontro, qualche mese prima dell’omicidio, tra S.G., uomo di spicco del clan dei casalesi, e l’indagato, incontro in cui si sarebbe programmata e decisa l’uccisione del C. perchè questi dieci anni prima aveva, con una sua denuncia, fatto arrestare e condannare il G., e che sarebbe stato presente quando, subito dopo l’omicidio, in casa del S., arrivarono tali L.G. ed A.A. che riferivano di un omicidio plurimo commesso poco prima e che il collaboratore si rappresentò essere quello di C. e F. di cui quella sera avevano riferito i telegiornali. Tali dichiarazioni peraltro erano ritenute dai giudici del riesame riscontrate dal fatto che effettivamente l’ucciso aveva in passato denunciato l’indagato, che questi era stato in seguito arrestato e condannato, dal fatto ancora che le pistole utilizzate per il duplice omicidio appartenevano al clan dei casalesi, di cui l’indagato faceva parte, dalla mancanza di un alibi dell’imputato per il giorno e l’ora del delitto, nonchè dal contrasto delle dichiarazioni rilasciate dall’indagato e dalla di lui moglie circa i movimenti del primo nell’ora del delitto, dalla ripresa della scena dei due nella quale, nella sala di attesa della caserma dei Carabinieri, la donna faceva segno al marito di non parlare.

– 2 – Ricorre per cassazione avverso il provvedimento, tramite difensore, l’indagato, prospettando con un unico motivo di ricorso la violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, art. 63 c.p.p., comma 2, artt. 199 e 192 c.p.p.. In particolare denuncia che le dichiarazioni del collaborante sono de relato, prive di riscontri significativi, che non si era preso in considerazione la possibilità di causali alternative, che le dichiarazioni rese dall’indagato e dalla di lui moglie erano inutilizzabili, per la violazione del diritto di difesa, per l’uno, per il mancato avvertimento della facoltà di non deporre, per l’altra.

– 3 – Il ricorso non ha fondamento perchè svolge il tentativo di indurre questa Corte a superare il limite rigoroso che vieta al giudice di legittimità di interpretare in modo diverso rispetto a quanto compiuto dal giudice di merito i fatti storici posti a base del dato processuale, senza peraltro denunciare la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, ma solo prospettando una interpretazione alternativa a quella ritenuta dal tribunale. Ancor prima deve rilevarsi la palese erroneità della qualifica proposta delle dichiarazioni del collaborante. Queste, lungi dall’essere de relato, sono dirette in merito a specifiche e significative circostanze: l’essere stato presente all’incontro tra l’imputato ed il S., in cui si programmò e si decise l’omicidio, attribuendo all’imputato le funzione, per la sua esecuzione, di "specchiettista", l’essere stato ancora presente, il collaborante, allorchè uno degli esecutori, L.G., subito dopo il plurimo omicidio, rifugiatosi in casa del S. parlò del fatto delittuoso come da lui commesso, preoccupandosi della possibilità di essere stato ripreso da una telecamera. Questi dati, riscontrati dalla effettività di una ben precisa causale, dai compiuti discorsi giustificativi giudiziali sulla affidabilità del dichiarante di fatti de visu e de auditu, sono sufficienti a costituire, sul piano dei valori della probabilità, propri della fase processuale de qua, contenuti esaustivi di una motivazione inattaccabile sul piano della legittimità.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’indagato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186/2000; n. 69/1964) – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro mille alla cassa delle ammende. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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