T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, Sent., 25-05-2011, n. 1319 Danni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con provvedimento n. 9255 datato 1.12.1994, adottato a seguito dell’ispezione effettuata dai Carabinieri del Nucleo Antisofisticazione e Sanità, la USSL 29 (USSL 64 all’epoca dei fatti), ingiungeva alla ricorrente di sospendere con effetto immediato l’attività di prelievo di campioni per esami ematochimici sul presupposto del difetto dell’autorizzazione regionale ex art. 2 della L.r. n. 79/1980.

Detto provvedimento veniva impugnato presso questo TAR con ricorso iscritto al n. 533/1995 R.G., che, con sentenza n. 3343/2002 lo accoglieva, affermando che l’autorizzazione in questione fosse "richiesta ai soli soggetti che svolgono un’attività di prelievo rivolta alla generalità delle persone" escludendo la necessità della medesima in relazione all’attività svolta dalla ricorrente (medicina del lavoro) consistente in prelievi ai soli dipendenti delle società clienti.

In conseguenza del provvedimento impugnato, la ricorrente, nel periodo intercorrente fra l’adozione del provvedimento inibitorio (1.12.94) e la sentenza di annullamento dello stesso (9.5.2002), avrebbe subito una drastica riduzione della clientela con conseguente perdita di profitti.

Con atto di citazione notificato il 14.6.2005, il Centro Biomedico conveniva in giudizio l’Amministrazione innanzi al Tribunale civile di Monza per ottenere la condanna di quest’ultima al risarcimento del lucro cessante (quantificato in quella sede in Euro 700.000,00), o in subordine al risarcimento del danno secondo equità.

Il giudizio si concludeva, in accoglimento di specifica eccezione della convenuta, con sentenza n. 2092/2006 del 5.6.2006 che declinava la giurisdizione in favore del giudice amministrativo.

Con il presente ricorso, il Centro Biomedico chiede il risarcimento del danno patito a causa della illegittima inibizione all’esercizio dell’attività di prelievo ai sensi dell’art. 2043, 2056 e 1227 c.c.

A tal proposito:

– ravvisa la colpa della resistente nell’accertata illegittimità del provvedimento;

– specifica il danno nella perdita dei clienti e nella mancata realizzazione di fatturati analoghi a quelli degli anni precedenti;

– quantifica il pregiudizio in Euro 350.000,00 a titolo di lucro cessante, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio chiedendo preliminarmente di promuovere d’ufficio regolamento di giurisdizione "sussistendo dubbi in ordine alla piena condivisibilità della decisione resa inter partes dal Tribunale di Monza".

Sempre in via pregiudiziale, eccepisce la prescrizione dell’azione proposta stante lo spirare del termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c. (la sentenza di annullamento è stata depositata in data 10.09.2002 ed il ricorso è stato notificato il 1.10.1997)

Nel merito rileva, da un lato, l’assenza di colpa da parte dell’Amministrazione in virtù della scarsa chiarezza della normativa in vigore, dall’altro, la mancata prova del danno.

All’esito della pubblica udienza del 4 maggio 2011, la causa è stata introitata per la decisione.

In disparte ogni considerazione sulle eccezioni preliminari sollevate dalla resistente in tema di giurisdizione (pacificamente da attribuirsi al giudice amministrativo) e di prescrizione dell’azione risarcitoria, la pretesa della ricorrente è infondata, stante il difetto dei presupposti necessari ai fini della configurabilità dell’illecito aquiliano.

Ostano, ai fini della configurabilità della dedotta fattispecie, tanto l’assenza di colpa dell’Amministrazione, quanto il mancato assolvimento dell’onere probatorio.

Circa l’elemento soggettivo è indubbio che l’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo non comporta, per ciò solo, il riconoscimento di una colpa dell’Amministrazione (Cons. Stato, Sez. VI, 14 settembre 2009, n. 5323).

E’ d’altra parte, altrettanto pacifico in giurisprudenza che il particolare modo di atteggiarsi dell’elemento psicologico, qualora il soggetto agente sia una pubblica amministrazione, non richiede al privato danneggiato l’assolvimento di particolari oneri probatori (Cons. Stato, Sez. VI, n. sentenza 9 marzo 2007 n. 1114), potendosi, in ultima analisi, risolversi nel richiamo o nell’applicazione di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 c.c.

Residua, tuttavia, all’Amministrazione la possibilità di "dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto". (Cons Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751).

Nel caso di specie, il provvedimento impugnato nel giudizio n. 533/1995, cui la ricorrente imputa l’effetto lesivo ritenuto risarcibile, è stato adottato sul presupposto che presso il Centro Biomedico ricorrente fosse stato attivato un punto di prelievo per esami ematochimici in difetto della prescritta autorizzazione ex art. 2 della L. r. n. 79/1980.

La norma in questione subordinava l’esercizio delle attività di prelievo ematochimico da parte di laboratori aperti al pubblico, al rilascio di uno specifico provvedimento autorizzativo escludendo implicitamente dal proprio ambito di applicazione le aziende svolgenti attività diagnostica circoscritte ai soli dipendenti (posizione fatta propria dalla Regione Lombardia con circolare interpretativa n. 35 del 28.10.1987).

L’attività della ricorrente consisteva, come dalla stessa esposto in ricorso, nella "valutazione dei fattori di rischio ambientali, programmazione ed esecuzione dei controlli sanitari periodici previsti dalla Legge 626 e successive modificazioni e di ogni tipo di accertamento collaterale come esami di laboratorio, visite ed esami specialistici e progettazione di interventi di prevenzione" effettuati presso la sede o presso le aziende clienti.

Si trattava, all’evidenza, di una fattispecie non agevolmente inquadrabile alla stregua del parametro normativo in quanto, se da un lato, la ricorrente non svolgeva attività rivolta alla collettività, dall’altro, non svolgeva del pari attività di prelievo in favore dei soli dipendenti propri.

La sussistenza, nel caso di specie di un errore scusabile deve, pertanto, essere riconosciuta sul presupposto delle non agevole qualificazione dell’attività della ricorrente ai fini dell’assoggettamento all’obbligo di cui all’art. 2 della L.r. n. 79/1980.

La ricorrente, si deve in conclusione evidenziare, nonostante l’affermata evidenza dell’illegittimità commessa, in sede di ricorso avverso il provvedimento inibitorio, ha omesso di avanzare richiesta cautelare, precludendosi la possibilità di una pronunzia ancorché interinale, nell’immediatezza dell’esito provvedimentale impugnato.

Affermata l’assenza del requisito della colpa, di per sé assorbente, deve, altresì, rilevarsi il mancato assolvimento dell’onere probatorio.

In ricorso, infatti, il preteso danno viene indicato come "costituito da lucro cessante a causa della perdita di clienti e dal mancato fatturato così come ottenuto nei precedenti anni" senza alcuna ulteriore allegazione idonea a comprovarne tanto l’esistenza che la quantificazione.

Quanto alla lamentata perdita di utile, non vengono prodotti bilanci di esercizio o altra documentazione equivalente dalla quali ricavare una eventuale flessione dei ricavi nel periodo ricadente sotto gli effetti dell’atto a suo tempo impugnato per raffronto con gli utili ascrivibili agli esercizi precedenti.

Anche la dedotta perdita della clientela viene affermata in maniera apodittica senza alcun elemento ulteriore.

Non viene specificato quali siano i soggetti con i quali sarebbe venuto meno il rapporto né viene fornito alcun elemento probante idoneo, anche solo sul piano indiziario, a configurare un evento dannoso riconducibile, sotto il profilo causale, agli effetti dell’atto impugnato ed annullato (a mero titolo esemplificativo, rapporti cessati, risoluzione di accordi o convenzioni, contestazioni di sopravvenuti inadempimenti).

Anche la quantificazione del danno (che del tutto singolarmente si riduce a Euro 350.000,00 nonostante il pregiudizio, due anni prima, fosse stato stimato in sede civile in Euro 700.000,00) viene specificata unicamente nelle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio senza rinvio ad alcuna fonte documentale.

A sostegno della propria pretesa il Centro Biomedico ricorrente si limita ad allegare semplici fotocopie di fatture rilasciate alle proprie clienti non corredate da alcuna scrittura contabile o da copie dei bilanci depositati, né da alcuna esposizione in narrativa circa il loro significato e la loro portata ai fini del presente giudizio.

Si tratta, infatti, di fatture recanti date sia precedenti che successive all’adozione dell’atto di inibizione all’esercizio dell’attività, di importi, peraltro, modesti in relazione all’entità del danno lamentato, dalle quali, in assenza di considerazioni e valutazioni della stessa ricorrente, non è possibile ricavare alcun elemento certo a sostegno della esistenza e quantificazione del danno.

Per quanto precede il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vengono poste a carico della ricorrente nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari di giudizio che liquida in Euro 3.000,00, oltre al 12,5% a titolo di spese forfetariamente calcolate, ad I.V.A. e C.P.A.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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