Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 26-05-2011, n. 21018

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 13.02.2009 la Corte d’Appello di Salerno confermava la condanna alla pena della reclusione e della multa inflitta nel giudizio di primo grado a S.O. e a T. B.H.B.D. quali colpevoli di avere sfruttato la prostituzione dell’infraventunenne K.A. sottraendole parte dei suoi guadagni.

La Corte territoriale confermava l’affermazione di responsabilità, facendo proprie le argomentazioni della sentenza di primo grado da cui emergeva – secondo le dichiarazioni della parte lesa K. – che, dopo il suo trasferimento in un appartamento di (OMISSIS), trovato da T., essa si era accorta, la mattina, che il danaro, provento di prostituzione, guadagnato nella serata, che teneva nella borsetta, era sparito e che la S. aveva giustificato gli ammanchi con la necessità di pagare le spese dell’alloggio.

Dopo il trasferimento dei tre a (OMISSIS), K. si era allontanata avendo iniziato un rapporto sentimentale con tal D., che aveva sposato.

Le dichiarazioni rese dalla predetta "non animate peraltro da spirito di vendetta o animosità, erano convalidate da riscontri oggettivi costituti dall’attività di polizia giudiziaria (erano stati ricostruiti gli spostamenti del gruppo nei vari alberghi via via occupati e T. era stato identificato nel corso del trasporto delle ragazze sul luogo del meretricio) e dalle dichiarazioni di D., mentre le divergenze su alcuni particolari del racconto della K., che valevano a confermare la genuinità, erano giustificabili col decorso del tempo.

Proponevano ricorso per cassazione gli imputati denunciando violazione degli art. 125, 521, 530 e 533 c.p.p. e art. 624 c.p.;

mancanza e illogicità della motivazione.

La corte distrettuale:

– aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni della teste "in quanto non animate da spirito di vendetta o animosità" enunciando così, non una massima d’esperienza, ma una congettura potendo essere molteplici i moventi dell’accusa;

– aveva considerato probatoriamente irrilevanti le contraddizioni in cui era incorsa la dichiarante sulle modalità di accompagnamento in auto delle ragazze sul luogo della prostituzione (circostanze che non potevano essere qualificate di dettaglio);

– aveva, "periodando informa ipotetica", erroneamente qualificato il preteso prelevamento del danaro dalla borsetta della K. come attività di sfruttamento della prostituzione dovendo lo stesso essere derubricato in furto e dichiarato estinto per prescrizione.

Chiedevano l’annullamento della sentenza.

Il ricorso non è fondato e va rigettato con le conseguenze di legge.

L’obbligo generale della motivazione, imposto per tutte le sentenze dall’art. 426 c.p.p., richiede la sommaria esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata e va rapportato al caso in esame, alle questioni sollevate dalle parti e a quelle rilevabili o rilevate dal giudice.

Tale obbligo è assolto quando il giudice esponga le ragioni del proprio convincimento a seguito di un’approfondita disamina logica- giuridica di tutti gli elementi di rilevante importanza sottoposti al suo vaglio, sicchè, nel giudizio d’appello, occorre che la corte di merito esponga compiutamente i motivi d’appello e, sia pure per implicito, le ragioni per le quali rigetti le doglianze.

Il giudice d’appello è, quindi, libero, nella formazione del suo convincimento, d’attribuire alle acquisizioni probatorie il significato e il peso che egli ritenga giusti e rilevanti ai fini della decisione, con il solo obbligo di spiegare, con motivazione priva di vizi logici o giuridici, le ragioni del suo convincimento.

Inoltre, quando "le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza d’appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo" (Cassazione Sezione 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, RV. 216906).

Tanto premesso, va osservato che, quando la testimonianza della persona offesa è unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, dato che attiene al modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (cfr.

Cassazione Sezione 3, 41282/2006, Agnelli, RV. 235578), Nel caso in esame, nel giudizio d’appello è stato ritenuto che gli elementi probatori acquisiti avessero spessore tale da giustificare l’affermazione di responsabilità dell’imputato e sono state richiamate le argomentazioni logiche dei giudici del primo giudizio, riferite alla globalità delle prove obiettive raccolte, non inficiate dalle censure difensive segnalate nell’atto d’appello.

Correttamente è stato osservato, con argomentazioni incensurabili, che l’attendibilità della persona offesa era stata positivamente vagliata con un adeguato esame tenendo conto, non solo dell’assenza di un movente di astio (dato neppure contestato dalla difesa che enfatizza il rilievo al punto di qualificarlo come una massima d’esperienza, impropriamente applicata), ma soprattutto dagli esiti dell’attività investigativa da cui è pacificamente emerso che i tre protagonisti della vicenda hanno convissuto per un prolungato periodo di tempo anche in luoghi diversi; che nessuno dei tre aveva un’occupazione lavorativa lecita e che le due ragazze esercitavano la prostituzione, sicchè, in tale contesto, è del tutto plausibile l’assunto accusatorio del prelevamento di somme di danaro, provento di meretricio, custodito in una borsetta, subito dalla parte lesa.

Sono state, quindi, considerate analiticamente le obiezioni formulate dalla difesa e razionalmente respinte le illogiche prospettazioni giustificative degli imputati, secondo cui sarebbero risolutive le contraddizioni, peraltro spiegate con l’affievolimento del ricordo per il trascorrere del tempo, in cui sarebbe incorsa la K. nel descrivere le modalità del favoreggiamento della prostituzione costituenti, come esattamente rilevato, un aspetto marginale del thema decidendi.

Incensurabile, infine, è l’inquadramento del fatto nel delitto di sfruttamento della prostituzione stante che gli imputati, conviventi con la K., avendo la consapevolezza della sua attività, si sono impossessati, senza il suo consenso, dei guadagni provenienti dall’esercizio della prostituzione al fine di "pagare le spese", come riferito dalla denunciarne.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il reato pure sussiste anche nel caso in cui i proventi dell’attività di prostituzione siano ceduti spontaneamente per contribuire alla vita familiare (cfr. Cassazione Sezione 3, n. 21089/2007, RV.236738;

Sezione 3, n. 40841/2005; Sezione 3 n. 19644/2003).

Grava, quindi, sui ricorrenti l’onere delle spese del procedimento e del versamento alla cassa delle ammende di una somma che va equitativamente fissata in Euro 1.000.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e, ciascuno, della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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