Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 14-04-2011) 26-05-2011, n. 21007

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Rocco che ha concluso per raccoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo

Il Tribunale di Ancona giudicava con il rito ordinario S. M.V. imputato del reato di ricettazione di più assegni bancari provenienti dal furto in danno di M.F.;

fatti avvenuti nel (OMISSIS);

al termine del giudizio l’imputato veniva condannato con sentenza del 06.12.2001 alla pena ritenuta di giustizia;

La corte di appello di Ancona investita del gravame, confermava la decisione impugnata con decisione del 15.10.2009;

L’imputato ricorre per cassazione a mezzo del Difensore, deducendo:

MOTIVI ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).

1)-il ricorrente censura la decisione impugnata per avere ritenuto la sua penale responsabilità sulla scorta di una ricostruzione contraddittoria dei fatti ed, in particolare, omettendo di verificare:

– come l’indagato sia venuto in possesso degli assegni; ovvero, – se fosse stato egli stesso l’autore dei furti; ovvero – se li aveva ricevuti da terzi senza accertarsi della loro provenienza (ex art. 712 c.p.);

– la buona fede doveva trasparire dall’avere speso gli assegni in albergo ove poteva essere facilmente identificato;

2)- la Corte di appello aveva erroneamente omesso di applicare l’indulto ex L. 31 luglio 2006, n. 241;

3)- la sentenza impugnata era da censurare per non avere ritenuto la prescrizione del reato;

a tale riguardo solleva espressamente la questione di non manifesta incostituzionalità della L. n. 251 del 2005, n. 251, art. 10, in relazione all’art. 27 Cost., comma 2, nella parte in cui la norma contenuta nella legge successiva al reato, volta a ridurre i termini di prescrizione, precluda espressamente la retroazione della nuova disciplina (più favorevole) a fatti commessi antecedentemente;

CHIEDE l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

Il ricorrente propone interpretazioni alternative delle prove già analizzate in maniera conforme dai giudici di primo e di secondo grado, richiamando una diversa vantazione delle dichiarazioni dei testi che risultano vagliate dalla Corte di appello con una sequenza motivazionale ampia, analitica e coerente con i principi della logica, sicchè non risulta possibile in questa sede procedere ad una rivalutazione di tali elementi probatori senza scadere nel terzo grado di giudizio di merito.

Al contrario di quanto sostenuto nel ricorso, la sentenza impugnata risulta congruamente motivata in ordine alla penale responsabilità dell’imputato, osservando:

– che gli assegni erano di sicura provenienza illecita, essendo provento di furto in danno di M.G., parte offesa sentita in dibattimento;

– che l’elemento oggettivo del reato era dimostrato dal possesso materiale che ne aveva il S., il quale li aveva anche negoziati quale mezzo di pagamento, per come verificato attraverso i testi sentiti nel giudizio;

– che l’elemento soggettivo era dimostrato dalla circostanza che l’imputato aveva negoziato i titoli esibendo le fase generalità del fratello;

Si tratta di una motivazione del tutto congrua, aderente ai fatti di causa ed immune da illogicità evidenti, nonchè conforme alla giurisprudenza di legittimità, anche di questa sezione, che ha stabilito il principio per il quale la prova della sussistenza dell’elemento psicologico della ricettazione e cioè la consapevolezza della provenienza delittuosa della cosa, può essere desunta da qualsiasi elemento di fatto e da qualsiasi indizio giuridicamente apprezzabile, compreso il comportamento dell’imputato;

(Cassazione penale, sez. 2^, 03/04/2007, n. 23025);

per converso, le deduzioni difensive non sono fondate su elementi oggettivi ma si fondano sul dato, assuntivo quanto ipotetico, che l’imputato potesse essere l’autore del furto ovvero potesse avere ricevuto gli assegni senza conoscerne la provenienza furtiva;

invero, tali assunti difensivi si risolvono in valutazioni – in fatto – basate su interpretazioni alternative delle prove, inammissibili in questa sede, ove in tema di sindacato del vizio della motivazione, il giudice di legittimità non è chiamato a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alla affidabilità delle fonti di prova, essendo piuttosto suo compito stabilire – nell’ambito di un controllo da condurre direttamente sul testo del provvedimento impugnato – se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre, Cassazione penale, sez. 4^, 29 gennaio 2007, n. 12255.

La motivazione sino ad ora esposta esclude in maniera chiara, anche se implicita, la possibilità di inquadrare i fatti sotto l’ipotesi della responsabilità ex art. 624 c.p. ovvero ex art. 712 c.p., sicchè è del tutto destituito di fondamento il motivo relativo alla censura di omessa motivazione su tali questioni, atteso che nel giudizio d’appello la motivazione può anche essere implicita e può desumersi anche dalla struttura argomentativa della decisione.

(Cassazione penale, sez. 4^, 21/03/2007, n. 24836).

Ugualmente infondato è il motivo di censura relativo alla mancata applicazione dell’indulto, atteso che il ricorso per cassazione per la mancata applicazione di tale beneficio è ammissibile solo quando il giudice di merito l’abbia erroneamente esclusa, con espressa statuizione nel dispositivo della sentenza, circostanza che non ricorre nella specie;

ne deriva l’inammissibilità del motivo, restando onere per il condannato di adire il giudice dell’esecuzione. (Cassazione penale, sez. 3^, 15/04/2009, n. 25135).

Del tutto infondati sono i motivi relativi alla questione di illegittimità costituzionale, atteso che è manifestamente infondata la q.l.c. della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, sollevata con riferimento all’inapplicabilità dei termini prescrizionali più brevi introdotti dalla predetta legge ai processi già pendenti in appello o davanti alla Corte di cassazione al momento di entrata in vigore della legge medesima, in quanto la norma – così come interpretata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006 – ragionevolmente individua quale limite all’efficacia retroattiva della "lex mitior" l’intervento di una sentenza di primo grado. Cassazione penale sez. 5^ 20 novembre 2007, n. 1746.

Si è già ritenuto da questa Corte di legittimità che la disciplina transitoria della L. n. 251 del 2005 esclude l’applicabilità delle disposizioni sui più brevi termini di prescrizione ai procedimenti pendenti avanti al giudice di appello a alla Corte di cassazione al momento di entrata in vigore della legge.

Ebbene, anche alla luce delle statuizioni della sentenza della Corte cost. n. 393/06, deve ritenersi ragionevole la scelta legislativa di individuare nell’intervento di una sentenza di condanna il fatto ostativo all’efficacia retroattiva della lex mitior.

Essa infatti salvaguarda il valore dell’efficienza del processo, evitando un sacrificio dell’aspettativa, costituzionalmente tutelata, della ragionevole durata, che implica che il processo, dopo una pronuncia di condanna, possa essere portato a conclusione, e tutela i diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale (ASN 200642189 – RV 234954; ASN 200633435 – RV 234367; ASN 200624410 – RV 234297; ASN 200623617 – RV 234413 e altre).

In realtà l’applicazione retroattiva della legge più favorevole non è principio costituzionalizzato (cfr. art. 25 Cost.), con la conseguenza che il legislatore ordinario può ad esso derogare, incontrando il solo limite della ragionevolezza (ex art. 3 Cost.).

Così in effetti ha argomentato la sentenza della Corte cost.le appena richiamata, individuando nella pronunzia di primo grado, come si diceva, il limite per la applicazione delle più favorevoli norme della cd. "Legge Cirielli".

E’ poi di tutta evidenza che, se il Giudice delle leggi avesse individuato ulteriori profili di incostituzionalità anche nella mancata applicazione dei termini più brevi di prescrizione ai procedimenti pendenti in grado successivo al primo (e dunque fino alla cassazione), non avrebbe esitato a estendere ad essi la declaratoria di incostituzionalità, atteso che la L. n. 87 del 1953 (all’art. 27) le consente di dichiarare la illegittimità di ulteriori disposizioni derivanti da quella dichiarata.

La questione di incostituzionalità, così come sollevata dal ricorrente in relazione all’art. 25 Cost., comma 2 è, dunque, inammissibile per manifesta infondatezza.

I motivi di ricorso articolati collidono con il precetto dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in quanto trascurano di prendere in considerazione aspetti sostanziali e decisivi della motivazione del provvedimento impugnato, proponendo soluzioni e valutazioni alternative, sicchè sono da ritenersi inammissibili.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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